Produrre ricchezza, amministrare la casa: Aristotele e il concetto di economia nell’antica Grecia

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Martina Tapinassi, Firenze –

Il dibattito sulla natura dell’economia dell’antica Grecia è di certo un argomento spinoso che non può essere trattato in poche righe. Proveremo comunque a delineare brevemente il quadro della visione che gli studiosi hanno di quel periodo adottando una prospettiva strettamente economica.

Da una parte troviamo le riduzioni “primitiviste” che considerano l’economia greca alla stregua delle società meno evolute e distante dall’attuale considerazione dei processi economici. In netto contrasto sono le amplificazioni “moderniste”, le quali attribuiscono all’economia greca un ruolo comunque incisivo nella Storia.

Non possiamo ricavare molto dalle fonti letterarie: i dati della cultura materiale sono frammentari e la possibilità di applicarvi strumenti di analisi moderni come la statistica è gravemente limitata. Sicuramente comprendendo fra le fonti da cui attingere anche la documentazione epigrafica e la numismatica, grazie alla ricerca archeologica, il campo si allarga.

Quel che è certo è che si assiste alla compresenza di comportamenti economici opposti e ciclici: tesaurizzazione e circolazione, conservatorismo e innovazione, attivismo e stagnazione.

Lo studioso Moses Finley è colui che con i suoi interventi ha maggiormente influenzato il dibattito sull’economia antica negli ultimi trent’anni. Egli svalutava l’incisività del pensiero economico greco e romano e comprovava la sua teoria sostenendo che gli scritti di oikonomia erano del tutto privi di analisi economica, nel senso odierno dell’espressione.

Ciò la relegherebbe al filone di letteratura europea che si occupava meramente di etica. Finley ammette di analizzare l’antichità partendo dal confronto con dei concetti maturati solo nelle società capitalistiche moderne. Precisa quindi che gli antichi non erano incapaci di qualsiasi percezione economica in termini assoluti ma che lo erano circa la ricerca dei fenomeni economici rispetto agli sviluppi dell’economia moderna.

 

 

Finley individua quindi un comune denominatore: la “non-economicità” che privava le società antiche di autonomia e dinamicità, schiacciandole sotto il peso dei valori etici.

Nell’economia greca spicca la centralità della proprietà terriera da cui ne derivano due delle attività caratterizzanti della polis: l’agricoltura e l’allevamento. La prima si incentra soprattutto sulla cosiddetta triade mediterranea (cereali, vite, olivo) ma comprende anche colture leguminose e coltivazioni arboricole.

L’allevamento riguardava in primis gli ovini ma comprendeva anche suini, pollame e bovini, con il ruolo fondamentale dei buoi come valida alternativa alla manodopera e utilizzati spesso come unità di valore negli scambi. Segno di lusso e prestigio era l’allevamento dei cavalli, accessibile solo ai più abbienti.

Se per la produzione agricola non si notarono segni di innovazione tecnologica di rilievo, nei processi di trasformazione dei prodotti ne vennero introdotte alcune che permisero di aumentare la redditività dei prodotti. L’attitudine al lavoro agricolo non era uniforme in tutta la Grecia a causa dei condizionamenti dettati dalla morfologia del territorio.

In alcune zone l’agricoltura era particolarmente arretrata e rudimentale mentre in altre, più sviluppate, venivano addirittura create sistematicamente eccedenze destinate al commercio e all’esportazione. Nacquero così nuovi mestieri legati alla trasformazione dei prodotti dell’agricoltura, dell’allevamento e delle risorse del sottosuolo.

Il grado di specializzazione di questi artigiani variava a seconda dei contesti come ci testimonia un passo della Ciropedia di Senofonte, il quale lo fa dipendere dalla dimensione della città. Gli scambi commerciali avvenivano sia a livello locale/regionale ma anche su larga scala. La presenza di più circuiti contemporaneamente attivi ha stimolato il lessico greco a produrre precocemente la distinzione fra queste due forme di commercio: il termine kapeleia indicava il commercio al dettaglio mentre il termine emporia quello su larga scala.

Per quanto riguarda l’economia monetaria, Atene ne è la protagonista indiscussa. Città natia delle prime forme di banche, inizialmente erano limitate al deposito delle somme ma in seguito attive anche in operazioni finanziarie più complesse.

 

 

L’economia secondo Aristotele

Aristotele spese molto tempo ad analizzare crematistica e oikonomia, in relazione al rapporto che le lega. Non sempre la sua analisi porta a risultati soddisfacenti e spesso al lettore può risultare contraddittorio. Proveremo a dargli una interpretazione lineare cercando di semplificare i significati dei termini usati nell’ambito della sua ricerca.

La crematistica è la scienza che si occupa della ricchezza prescindendo dalla distribuzione e dal suo consumo. Deriva dal greco to chrèma ovvero “cosa di cui ci si serve” che al plurale diventa ta chrèmata cioè “ricchezze/risorse”. Nell’antichità infatti indicava l’arte di arricchirsi e di guadagnare denaro.

Per Aristotele e i suoi contemporanei, “economia” significava amministrazione della casa. Il capofamiglia aveva l’incombenza di governare il nucleo familiare producendo ricchezza e orientandolo verso una vita agiata. La ricchezza però andava intesa solo come un mezzo per vivere bene: quando diventa il fine stesso dell’esistenza si assiste ad una degenerazione.

Produrre ricchezza era un’azione necessaria per il bene dell’oikos ma farlo diventare uno scopo di vita era considerato contro natura. Occorreva quindi seguire la disciplina, ponendo freno ai bisogni umani e allo sfruttamento delle possibilità umane. Nel primo libro della Politica, Aristotele difende la sua posizione più radicale secondo la quale oikonomia e crematistica hanno funzioni diverse, rispettivamente usare e procacciare.

Alla crematistica spettava quindi la mera produzione dei beni, all’economia l’utilizzo di essi. La crematistica era quindi subordinata all’economia.

In altri scritti, però, sembra quasi abbandonare l’assolutismo iniziale e pare accostarsi alla dottrina più condivisa: nel terzo libro della Politica distingue addirittura l’oikonomia in maschile (acquisire) e femminile (conservare) mentre nell’Etica Nicomachea afferma che il fine dell’oikonomia è la ricchezza, ponendo questa materia alla stregua di una techne, abbandonando definitivamente il tenore riduttivo precedente. Dalla riflessione aristotelica nacque anche la distinzione fra crematistica naturale, per la quale i beni vengono considerati per il loro valore d’uso, ed innaturale, che li considera per il loro valore di scambio.

L’oikonomia, nella definizione aristotelica, si occupa soprattutto dei tre rapporti interpersonali fondamentali per il vivere sociale: marito-moglie, padri-figli e padrone-schiavi. È questa la discriminante che porta ad essere l’oikonomia lontana e distinta dalla nozione moderna di economia.

Aristotele respinge l’idea che tra il governo di una singola casa privata e quello di una intera polis vi fosse soltanto una differenza quantitativa e non di specie nell’uso del verbo oikeo, circa l’amministrazione. A partire dalla metà del IV secolo l’utilizzo del termine oikonomia smise di essere utilizzato nell’ambito strettamente privato e andò gradualmente ad estendersi alla sfera pubblica. L’amministrazione finanziaria della polis (politike oikonomia), nel suo complesso di entrate e uscite, può essere assimilata ad una sorta di primitiva gestione di bilancio pubblico.

 

 

Aristotele: un precursore di concetti moderni

Le logiche conclusioni della riflessione aristotelica sono concetti molto moderni che verranno affrontati dai suoi successori, alternando correnti di pensiero favorevoli e contrarie. Per Aristotele la moneta è stata inventata per lo scambio con beni di consumo o di uso e non può avere un fine diverso. Condanna quindi la pratica dell’usura, in cui il guadagno proviene dal denaro stesso e non dallo scambio di beni, di cui i soldi dovrebbero essere funzione.

Aristotele parla dell’usura usando il sostantivo greco tòcos che significa “parto”: è un senso traslato del verbo tocào che vuol dire “essere in procinto di partorire” dal verbo ticto, sinonimo di generare. Con l’usura il denaro si genera da solo: in natura il figlio partorito somiglia ai genitori. Intuisce precocemente anche il concetto di monopolio, raccontato nell’aneddoto dei frantoi di Talete (contenuto nella Politica), il quale avrebbe acquistato tutti i frantoi di Mileto prevedendo un’ottima annata per la raccolta delle olive, per poi noleggiarli a caro prezzo.

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