Aristofane: quando la risata diventa un’arma tagliente

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Marco Alpan, Torino –

Non l’ha detto, almeno secondo la tradizione, ma non ci stupiremmo se si rinvenisse in qualche manoscritto: “Datemi una piuma e vi farò sbellicare dalle risate”. E la piuma, s’intende, Aristofane non la usava per solleticare i piedi, bensì per scrivere; cosa che amava fare, dal momento che gli studiosi alessandrini dei primi secoli dopo Cristo erano a conoscenza di ben quarantaquattro testi a lui attribuiti, e che gli riusciva bene, dato che grazie alla sua fama oggi viene ritenuto unanimemente il più celebre commediografo della Grecia antica

Ma chi era questo Aristofane e come ha fatto a guadagnarsi il favore del pubblico e a ritagliarsi una fetta di celebrità così consistente? Gli estremi cronologici della sua vita vanno dal 450 al 385 a. C., uno dei periodi più travagliati per la storia di Atene, reduce da poco delle sanguinose battaglie contro i Persiani, impegnata per circa un trentennio nella guerra del Peloponneso contro Sparta e colpita da una terribile pestilenza che ebbe tra le sue vittime il grande stratega Pericle. In particolare, la rilevanza di quest’ultimo accaduto è sottolineata anche dal fatto che Lucrezio lo scelse come conclusione per il suo De rerum natura, la cui ultima scena è dedicata, appunto, alla descrizione della peste che colpì e decimò Atene.

A parte le date summenzionate, pochi sono i fatti significativi della vita del grande commediografo. Iniziò presto la sua attività poetica, all’inizio come drammaturgo, poi esordendo nel mondo delle commedie nel 425 a. C. con gli Acarnesi, la più antica tra tutte quelle arrivate sino ai giorni nostri, ma già impregnata di uno spirito scommatico che si palesa bene nello scontro ideologico tra Diceopoli – letteralmente “cittadino giusto”: non è raro l’uso da parte di Aristofane del nome parlante, il cosiddetto nomen omen – favorevole a una pace con Sparta, e i carbonai del demo di Acarne, i quali, invece, vogliono a tutti i costi che lo scontro prosegua.

 

Mentre la sua vena comica prolifica e incomincia a prendere di mira personaggi sempre più altolocati della polis, Aristofane viene chiamato in giudizio con l’accusa di oltraggio da Cleone, il politico fautore della guerra, nel tentativo di porre sotto controllo censorio le sue opere, ormai diventate scomode a molte personalità influenti. Nonostante tutto, il commediografo riuscì a uscire vittorioso dal processo e questo vuol dire che sia i giudici che il pubblico gradirono e compresero non solo il suo modo di scrivere, ma addirittura le sue idee e la sua visione degli accadimenti in atto.

Abilità innata o inclinazione prevaricante la sua? Nessuna delle due. Infatti, Aristofane, fin dalla giovinezza, ha cercato di immedesimarsi nel pensiero dei concittadini per sondarlo e per capire quali problematiche affliggessero la polis ateniese. La sua dote di attento osservatore dei meccanismi della città, poi, si tramutava e si traduceva nella scrittura, in cui cercava di comprimere la realtà circostante, rappresentandola ogni volta in maniera fededegna, seppur personale.

Benché la tradizione ci abbia fatto pervenire undici commedie – su quarantaquattro, come già detto – il tempo edace non è stato clemente nemmeno con il grande commediografo, che, infatti, al momento della messa in scena delle sue opere, poteva contare su di un ampio apparato di strumenti mirati a esaltare la vis comica. Di tali meccanismi sono andati completamente perduti, oltre alla musica e ai costumi – sui quali scarse e parziali informazioni si ricavano dalle raffigurazioni vascolari – la gestualità che non solo accompagnava la recitazione e la dizione, ma anche che giocava un ruolo non ininfluente nell’economia della scena. Altro elemento da tenere in considerazione è il cosiddetto onomastì komodèin – tradotto alla lettera, “chiamare per nome” – ovvero il riferimento ad una persona specifica, chiamata in causa per essere motteggiata con frizzi e lazzi – tecnica, d’altronde, adoperata ancora oggi dai nostri comici. In questo caso, però, per il lettore moderno, la battuta perde dell’immediatezza che aveva per il pubblico ateniese, che, invece, aveva ben presente il personaggio in questione.

Questi e altri elementi hanno contribuito a inaugurare e, in seguito, nel corso dei secoli, a fomentare la disputa tra Aristofane e Plauto su chi dei due debba essere considerato il migliore. Relativamente a ciò, Benedetto Marzullo si esprime in questi termini:

 

Diversa, e probabilmente inferiore, se commisurata a Plauto, appare tuttavia la sua vis comica. In realtà egli [Aristofane, ndr] si impone un controllato ed anzi il più classico dei regimi formali, ne conseguono fluidità e trasparenza, linearità delle trame, un esilarante candore, l’essenzialità dei personaggi. Costituisce un limite, non più quantitativo, questo: che sembrerà, di conseguenza, privilegiare i caricaturali e sempre beffardi eccessi di Plauto. Che, infatti, è immediato e pertanto sarcastico poeta dell’‘esistenza’[…].

 

Poco dopo, però, lo studioso si affretta ad aggiungere che in ogni caso non è “[…] Esatto affermare che Aristofane faccia meno ridere di Plauto, imputandogli un tasso di comprensibilità e fruibilità inferiore […]” poiché “Egli usa, evidentemente, di una comicità intellettualmente mediata e filtrata, culturalmente finalizzata.” Insomma, in poche parole, non esistono i presupposti per tentare di equiparare l’operato dei due autori, perché, una volta appurato che entrambi si sono occupati di “far ridere la gente”, poi è giocoforza ammettere che lo hanno fatto diversamente l’uno dall’altro, accantonando la possibilità di un confronto forzato o, per lo meno, stonato.

Il momento del canto del cigno di Aristofane, coincidente con la disfatta ateniese nella guerra, lo porta a esplorare nuove forme poetiche, tanto da costringerlo a ripensare fin dalle basi il suo apparato comico. È così che nasce l’Ecclesiazuse  – conosciuta meglio come Le donne al parlamento – dalla volontà di disarcionare la commedia dall’attualità. La vicenda è tutta giocata intorno alla figura di Prassagora, giovane donna convinta di poter attuare una rivoluzione per ribaltare il ruolo della donna nella società.

Prassagora, allora, si circonda di alcune complici e tutte insieme, dopo aver rubato gli abiti ai rispettivi mariti, si recano sulla Pnice, la collina dove aveva sede il parlamento, e votano un provvedimento con cui affidare del tutto il governo della città alle donne. Il loro programma è semplice, mettere in comune tutti i beni, comprese le donne, per eliminare le sopraffazioni quotidiane dei più potenti e garantire che nessuno resti privo del necessario, ma l’intento del commediografo è forte: denunciare i mali derivanti dall’amministrazione degli uomini in generale, incapaci di guardare la realtà in faccia.

Quando la morte sopraggiunse, ormai Aristofane godeva di una fama sterminata e il suo nome lo precedeva ovunque andasse. I greci, dunque, tacitamente, ma all’unanimità, gli attribuirono l’onore di assurgere a primo commediografo della loro storia, quasi l’inventore del genere, destinato a godere per sempre di rispetto e di venerabilità. Non ci dobbiamo stupire se, in realtà, molti furono gli esponenti della commedia prima di lui: è sufficiente ricordare Cratino e Cratete, nati entrambi all’inizio del V secolo a. C. Lo stesso procedimento fu adottato nel caso di Omero, ritenuto da tutti l’iniziatore dell’epica, a discapito dei nomi di Orfeo, Lino e Museo, attivi in un’epoca precedente.

Quel che vi è di certo, comunque, è che la commedia in sé fu introdotta negli agoni delle Grandi Dionisie solo nel 486 a. C., vale a dire circa cinquanta anni dopo la tragedia, il cui primo rappresentante è stato identificato con Tespi, il leggendario autore-attore che con il suo teatro itinerante montato su un carro girava per tutta la Grecia diffondendo la nuova arte.

Infine, se proprio vogliamo dirla tutta, Aristofane spesso non era estraneo anche a prendere in giro sofisti e filosofi – le Nuvole sono il caso eclatante – come in questo passo tratto dai Cavalieri, dove fornisce una versione tutta sua della prova ontologica dell’esistenza degli dei, su cui molti cervelloni a lui contemporanei si erano arrovellati senza risultati:

 

I servo: Che statua? E tu credi veramente, agli dei?
II servo: Io sì!
I servo: Prove ne hai?
II servo: Mi odiano: ti pare poco?

 

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