Niccolò V e la Roma del Quattrocento

niccolo V, Roma, Rinascimento, Quattrocento

Beato Angelico, Predica di Santo Stefano, Cappella Niccolina, Palazzo Apostolico Vaticano (1447-48)

Arturo Mariano Iannace, Roma –

Non sono in molti, al di fuori degli ambienti specialistici, a conoscere la storia dell’appropriazione papale di Roma. Una storia complessa e di durata più che secolare (millenaria, se si vuole considerare anche tutto il periodo tardo-antico e medievale), ma proprio per questo affascinante, che ci permette di far luce su aspetti dell’evoluzione della figura del pontefice e su nascita e sviluppo dello Stato pontificio che, altrimenti, resterebbero nell’ombra.

Uno dei momenti fondamentali di quella che è stata definita come la possessio papale di Roma è stato sicuramente il pontificato di Niccolò V, al secolo Tommaso Parentucelli, che detenne la cattedra di S. Pietro dal 1447 al 1455. Non è questa la sede per dilungarsi sugli eventi, di importanza cruciale, che ebbero luogo durante questo periodo, e che coinvolsero, in una misura o nell’altra lo stesso pontefice, dalla caduta di Costantinopoli nel maggio 1453 alla formazione della Lega Italica l’anno seguente. Ci si focalizzerà, invece, sui rapporti tra Roma e questo pontefice tipicamente rinascimentale, colto letterato ed umanista, diplomatico raffinato, ma anche e soprattutto politico abile, consapevole, forse come pochi altri prima di lui, del doppio ruolo che la figura del pontefice andava assumendo come, per usare le parole del suo biografo Giannozzo Manetti, “rex et sacerdos”. Rapporti di cui una lente di osservazione privilegiata può essere il vasto programma architettonico che, pur se in diverse fasi e con alterne fortune, il pontefice provò a realizzare dentro Roma.

Niccolò V

Di questo programma (su cui sono stati scritti fiumi d’inchiostro, soprattutto a riguardo dell’eventuale partecipazione, come ideatore, di Leon Battista Alberti) poco fu effettivamente realizzato: una delle priorità del pontefice fu la ristrutturazione delle mura aureliane, cadute in uno stato d’abbandono, insieme a larga parte della città, durante il periodo del Grande Scisma (1377 – 1417), di cui ancora l’autorità pontificia soffriva i contraccolpi. Praticamente l’intero circuito murario fu riparato e rafforzato, ma la maggiore attenzione andò alle mura più prossime al Vaticano, le cosiddette Mura Leonine (da papa Leone IV, che le fece edificare nel IX secolo come risposta alle razzie saracene) ed a Castel S. Angelo, le cui difese vennero rafforzate, e che ricevette anche nuovi ambienti residenziali.

L’attenzione data all’elemento fortificatorio non può stupire: solo poco più di dieci anni prima papa Eugenio IV (1431 – 1447) era stato costretto a fuggire da Roma, ed a vivere in esilio per quasi un decennio; inoltre, la prospettata calata di Federico III (1452 – 1493, come imperatore germanico) a Roma, per il rito dell’incoronazione imperiale, suscitava apprensioni nell’ambiente di Curia, come possibile causa di sconvolgimenti interni ed insurrezioni contro l’autorità papale, e come ricordo delle passate lotte tra papi e imperatori. Nello stesso periodo, Niccolò V intraprese il rinnovamento architettonico del Campidoglio: un atto più che simbolico, pregno di significati ideologici e politici, in quanto il colle era da sempre sede delle autorità municipali di Roma, e quindi un contraltare simbolico al potere pontificio sulla città.

Il palazzo senatorio sul Campidoglio, fatto ristrutturare da Niccolò V

Sul Campidoglio, il papa compì vasti lavori sul Palazzo del Senatore (l’edificio principale, nonché sede dell’omonima magistratura) che assunse l’aspetto di una sorta di fortezza cittadina, e costruì un nuovo palazzo per ospitare i Conservatori (altra magistratura comunale romana). Negli stessi anni, papa Parentucelli intraprese l’opera di ristrutturazione dell’acquedotto dell’Acqua Vergine (fondamentale fonte di rifornimento idrico per la città), culminata nella costruzione di una grande fontana, nel luogo dove oggi sorge la famosa Fontana di Trevi (che di essa è il diretto sostituto); la ristrutturazione delle chiese cosiddette “stazionali” (in quanto stazioni nelle diverse processioni religiose che caratterizzavano la vita di Roma); la costruzione di piazza S. Celso, con annesse due cappelle, mediante la demolizione di tutta l’area abitata ivi esistente, con l’obiettivo di allargare l’accesso al Vaticano mediante ponte S. Angelo (dove, durante il giubileo del 1450, molti pellegrini erano morti nella calca causata da una mula imbizzarrita; proprio alla loro memoria erano dedicate le due cappelle su menzionate); l’edificazione di un nuovo palazzo apostolico nelle vicinanze della basilica di Santa Maria Maggiore, con annesso tentativo di ripopolamento e qualificazione dell’area.

Questa fervida attività architettonica ed urbanistica, tuttavia, non racchiude tutta l’opera di Niccolò V nei riguardi di Roma: di grande rilevanza fu, nel 1452, l’emanazione di nuovi statuti cittadini che, pur ricalcando nella sostanza quelli già concessi da Alessandro V nel 1410, in realtà costituivano un primo, duro, colpo alle magistrature cittadine. In essi, infatti, l’importante magistratura dei magistri viarum (magistrati deputati al mantenimento delle strade cittadine) venne potenziata, concedendo loro vasti poteri nell’ambito dell’eliminazione di ogni possibile ostacolo architettonico su suolo pubblico (si trattava, soprattutto, di portici ed altri tipi di sovrastrutture architettoniche che, come tipico delle città medievali, finivano per modificare od ostruire i tracciati delle strade, con il loro sorgere disordinato e senza pianificazione), allo stesso tempo venendo sottratte del tutto al controllo del comune cittadino, e sottoposte alla sola autorità del pontefice.

Questo perché il controllo sulla manutenzione e corretta tenuta delle strade significava anche e soprattutto eliminare il controllo che le famiglie baronali romane (proprio attraverso l’utilizzo di quelle sostruzioni architettoniche di cui prima) esercitavano su intere zone della città, ritenute di loro esclusiva pertinenza (Monte Savello per la famiglia Savelli; la zona attorno alla Colonna Traiana per i Colonna; Monti per gli Orsini).

Il busto di Stefano Porcari, responsabile della congiura a Niccolò V, ora al Parco del Pincio a Roma

Ma l’estendersi della longa manus pontificia sulle autonomie comunali non rimase senza risposta: nel gennaio 1453, infatti, venne scoperta una congiura, ordita da alcuni romani con alla guida Stefano Porcari, un eminente cittadino, con l’obiettivo di abbattere il dominio pontificio su Roma. La congiura fu sventata, e i congiurati condannati, ma essa costituì un punto di svolta nel pontificato niccolino. Anche se non esistono, a tutt’oggi, prove concrete che la notizia della congiura abbia contribuito direttamente ad un cambio di idee nella mente del pontefice, resta il fatto che, da quella fatidica data, Niccolò V concentrò le sue attenzioni su una serie di progetti tanto vasti ed ambiziosi quanto poi irrealizzati, che avevano come centro non più Roma, bensì Borgo (cioè il Borgo Leonino, il nome con cui veniva chiamata tutta l’area vicino il Vaticano, ritenuta come zona a sé stante, separata dalla città): nell’intento di riedificare l’intero borgo, per renderlo residenza della Curia pontificia (con inclusa una ricostruzione totale del palazzo apostolico, che sarebbe stato trasformato in vera residenza fortificata) si può leggere l’intenzione di Niccolò V di premunirsi contro ogni possibile minaccia proveniente da Roma e dai suoi riottosi abitanti.

Ma il processo che avrebbe visto il comune cittadino relegato ad un ruolo completamente subordinato rispetto al potere pontificio, esercitantesi come potere legislativo, ma anche come riorganizzazione e rinnovamento urbanistici, era ormai irrimediabilmente avviato, e sarà portato a compimento dai successori di Niccolò V per tutto il secolo seguente, dando vita alla Roma del Rinascimento prima, e del Barocco poi.

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