L’amorTe a Venezia: la stagione dell’amore, tornerà? Risponde Battiato a Thomas Mann

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Oriana Rodella, Verona –

La morte a Venezia è il titolo di un’opera che ha già dentro tutto. Parla di fine, di buio, di stasi per raccontare la più viva e palpitante delle scoperte: che l’amore esiste! Che è un motore! Che è vivo! L’amore, come la morte, tira le fila dell’intera esistenza sconvolgendola in maniera imprevedibile. La morte, come l’amore, rivela, non lascia spazio alle ambiguità, piuttosto rende chiare le faccende della vita, le assolve dal non detto, le depura dal giudizio e dal contegno. La morte e l’amore sono allora sfacciati, liberatori, disarmanti e, per questo, necessari.

La morte a Venezia è un titolo che ha dentro una città “che ha l’ebrezza del mare e il fulgore del sole”, ci dice Mann paragonandola ad Atene ai tempi di Socrate quando “istruiva il discepolo Fedro sul desiderio e sulla virtù” all’ombra di un vecchio platano. È una Venezia dalle tinte blu oltremare come thànatos – la morte e rosso fuoco come eros, l’amore.

 

“Venezia mi ricorda istintivamente Istanbul/stessi palazzi addosso al mare/rossi tramonti che si perdono nel nulla […] Socrate parlava spesso delle gioie dell’Amore/e nel petto degli alunni si affacciava quasi il cuore”.

 

Così ce la canta oggi Battiato la sua Venezia-Istanbul e non sembra per nulla diversa da quello stesso acquerello di Mann dalle tinte blu e rosse a sfondo di una lezione d’amore sotto il platano di Atene. La città dell’uomo contemporaneo quindi secondo il cantautore si rivela ancora come l’epifania della vita rivelata grazie al riconoscimento di una morte. Non è forse vero infatti, che è proprio nel momento dell’addio che ci rendiamo conto del valore di ciò che lasciamo e ci appaiono d’un tratto scenari imprevedibili?

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Anche a Gustav von Aschenbach succede un fatto inaspettato: dopo poche ore dal suo arrivo a Venezia – città in cui era giunto per godersi una pausa dal mestiere di scrittore – cambia idea, fa dietrofront e nel tentativo di ritorno verso casa, alla stazione, scopre che il suo bagaglio è andato perso. In quello stesso momento realizza anche un’insospettabile sensazione di leggerezza poiché si rende conto che non vi è altra soluzione che far rientro in hotel dove potrà nuovamente vedere Tadzio, giovane polacco in vacanza con la famiglia e ospite proprio del suo stesso albergo. Grazie a questa fine rivelatrice quindi, Aschenbach non solo non vorrà più ripartire, ma avrà chiari i suoi sentimenti.

 

“Le oscure cadute nel buio/ mi hanno insegnato a risalire./ E mi piaceva tutto della mia vita mortale, noi non siamo mai morti, e non siamo mai nati./ We never died, /we were never born”.

 

Quand’è che abbiamo perduto la fiducia nella fine? Nell’ “eroismo della debolezza”, nel rivelare le cose per quelle che sono? Noi non siamo mai morti, ci dice Battiato in Testamento, perché non ci diamo la possibilità di rinascere dal momento in cui smettiamo di accettare la fragilità, quella che ci permette di abitare l’esistenza nella sua impurità, nella sua ombra luminosa e illuminante, nel suo continuo smarrimento e nella sua necessaria contraddizione che non è altro che la poesia del reale, ciò che elevandosi permette all’effimero di diventare duraturo e universale.

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Aschenbach, innamorato, si sente rinascere e anche la sua intuizione artistica rinvigorisce. Questo perché non solo si riconosce piccolo rispetto a un impulso travolgente, ma anche perché è disposto ad accettare la fragilità di un sentimento che lo mette continuamente in ridicolo: ridicola è la sua ossessione per Tadzio che ricerca sempre con lo sguardo e segue di nascosto senza mai rivolgergli parola, ridicolo è il tentativo di nascondere i segni dell’uomo maturo, innamorato di un adolescente e ridicolo è pure il suo tacere la terribile scoperta di una Venezia in preda a un’epidemia di colera per timore della dipartita dell’amato.

Cos’è oggi che non ci fa più parlare d’amore? Cos’è che ci fa paura nello scoprirci fragili di fronte a questo sentimento visibilmente fuori moda?

 

 “Il tempo passa e ci scoraggia/ tormenti sulla nostra via/ma dimmi c’è peggior insidia/ che amarsi con monotonia”.

 

Forse è questo il punto da cui ci mette in guardia il cantautore ne La canzone dei vecchi amanti: l’amore è percepito come vecchio, pertanto annoia. Oggi si associa l’amore all’idea di possesso. Perciò, una volta ottenuto l’oggetto amato, ci si dispera perché si desidera qualcosa di più recente, di più nuovo appunto. Ma il nuovo non ha in sé né la presunzione del diverso, né il tedio dell’uguale: l’amore esalta la novità nel movimento delle inesauribili possibilità del finito. Ci ricorda la nostra limitatezza e proprio per questo è in grado di esaltare l’in-finito. Perciò gli amanti si dicono ti-amo-e-ti-amerò- per-sempre. Questo avverbio non ha in sé un presagio funebre, piuttosto scopre il lutto della piccolezza e dell’insoddisfazione umana e conferisce quella capacità di pazientare, di attendere, di rimanere per immergersi come dei palombari nel profondo dell’altrui. Per sempre è l’augurio di una scoperta continua, di infinite opportunità di meraviglia, di novità veramente nuove non perché avvengono dopo nel tempo, ma perché assumono i tratti di una bellezza che si scopre di continuo e per questo sa di desiderio e di speranza.

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Aschenbach stesso di fronte all’eterea grazia di Tadzio non può fare a meno di sussurrare a fior di labbra, dichiarandolo a se stesso più che al ragazzo: “Ti amo”.

 

“E ti vengo a cercare/anche solo per vederti o parlare/Perché ho bisogno della tua presenza/per capire meglio la mia essenza”.

 

La staticità in natura equivale alla morte. Il dinamismo dell’amore è una tensione che mira invece a non esaurirsi proprio perché non si conquista mai fino in fondo. È un movimento che non annoia e che non ci allontana da noi perché è nell’altro che si trova la fedeltà a noi stessi. Il segreto del per sempre allora si rivela non nella barricata rigidità del “così sia”. Al contrario, è una porta in comunicazione con gli stimoli dell’altro.

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Aschenbach, alla fine, decide di lasciarsi morire. Il protagonista che per una vita intera ha fatto della vita un’opera d’arte di equilibrata bellezza, si sente tragicamente travolto dalla dimensione più viscerale dei suoi sentimenti. E mentre è in scena la sua fine, appaiono sullo sfondo tutta la poesia di un sorriso e di due occhi grigi come il crepuscolo che si allontanano su un’imbarcazione per scampare la morte a Venezia e andare incontro alla vita.

Qual è oggi il defibrillatore del cuore nell’epoca dell’attimo, dell’incertezza, dell’ambiguità, della solitudine? Di cosa abbiamo bisogno perché ci si palesi la delicatezza sublime di tutta la nostra umana fragilità?

 

“Supererò le correnti gravitazionali/lo spazio e la luce per non farti invecchiare/e guarirai da tutte le malattie/perché sei un essere speciale/ed io, avrò cura di te”.

 

Forse, come suggerisce Battiato, è la cura che ci manca. La parola latina cura ci rimanda alla radice del verbo osservare. Attraverso la cura infatti, proprio come fa Aschenbach, si scruta con premurosa diligenza ciò che si ama e non per soffocare o inaridire, bensì per esaltare la vita che si è intuita nell’altro. È una presa di posizione nella storia delle storie, è un atto di responsabilità nei confronti dell’altro, ma prima di tutto di se stessi: così, da distante, si impara ad essere vicini, non annullandosi e spegnendosi nell’altro, ma tenendo viva la tensione che evita la morte. In questo modo si permette anche ai propri talenti di emergere e di germogliare e più essi saranno radicati nel profondo, più cresceranno alti e robusti perché saranno innaffiati con amore, sorvegliati da lontano e custoditi con cura, nel tempo del per sempre.

“Ama”, Eleonora Milani per Parentesi Storiche, acquerello.

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