Pensare il medioevo: Gioacchino Volpe ed Henri Pirenne a confronto

 

Alessandro Rigo, Verona –

Come ha rilevato Cinzio Violante nella sua introduzione a Il Medioevo di Gioacchino Volpe, non è possibile sostenere qualsiasi tesi che cerchi di riavvicinare la storiografia di Marc Bloch e Lucien Febvre, e delle Annales in genere, a quella dello storico abruzzese.

Se esistono delle convergenze tra questi indirizzi storiografici, esse vanno ricondotte piuttosto alla comune influenza che entrambe le parti subirono ad opera della Kulturgeschichte tedesca, unita ad una certa conoscenza nelle “esigenze e nei metodi”, da parte del Volpe, della Revue de synthèse historique di Henri Berr, comunemente riconosciuta come l’antesignana della “scuola” francese.

Riguardo in particolare a Volpe, invece, ciò che appare più evidente è piuttosto una sua stretta connessione con certi motivi e indirizzi metodologici della storiografia tedesca, che egli integra in una originale sintesi con gli insegnamenti impartitigli dalle scuole di Amedeo Crivellucci e di Pasquale Villari così come con una certa concezione generale della storia data – parole sue – “da un accostamento significativo fra il Croce e il Labriola”.

La vicinanza di Volpe – rileva Sandro Pierini – ad alcuni temi e idee della storiografia francese si possono ascrivere dunque a un comune sentire, a un “complesso e articolato fenomeno culturale che […] aleggia nell’ambito del sapere europeo”; in altre parole, a quella propensione di Volpe ad inserirsi “nella migliore tradizione degli studi storici europei”, attraverso la quale egli può aver contribuito a innovare e sprovincializzare una storiografia italiana che in certi esiti estremizzanti del proprio dibattito metodologico tendeva a collocarsi in una posizione di isolamento rispetto al più ampio panorama continentale.

Del resto, i contatti del nostro autore con gli ambienti della ‘civilisation’ sembrano per lo più mediati dalla conoscenza approfondita della produzione storiografica tedesca che non direttamente acquisiti da fonti francesi. Erano infatti gli ambienti tedeschi a rappresentare il punto di riferimento da cui partivano tutte le discussioni storiografiche dell’epoca.

D’altro canto, quella stessa conoscenza delle “esigenze ed i metodi” della Revue berriana è forse imputabile alla sua attività all’interno della rivista La Critica, in virtù dell’interesse che lo stesso Benedetto Croce aveva rivolto verso la rivista francese – presentata al pubblico italiano già nel primo numero del suo seriale, nel 1903 – e con la quale aveva avuto occasione di stringere qualche collaborazione.

E la collaborazione volpiana con la rivista di Croce sicuramente ebbe tra i suoi frutti quello di un ulteriore allargamento degli orizzonti storiografici dello storico abruzzese, in particolar modo verso l’annoso dibattito che contrapponeva civilization francese a Kultur tedesca.

Ad essa si univano le partecipazioni del nostro ai primi Congressi di Scienze Storiche caratterizzati da un grande respiro internazionale: Roma 1903, Berlino 1907 e Londra 1913.

Se per il congresso di Roma la sua presenza non è verificata, anzi, è certa la sua non partecipazione, l’esperienza volpiana con i congressi internazionali comincia sicuramente a partire dall’appuntamento berlinese di quattro anni più tardi, del quale dà testimonianza indiretta nella sua relazione riguardante quello di Londra pubblicata in Archivio Storico Italiano nel 1914.

Proprio in questo lungo resoconto delle attività svolte al congresso inglese – nel quale era intervenuto in rappresentanza della Reale Deputazione di Storia Patria per la Toscana – troviamo alcune delle rare impressioni lasciate per iscritto da Volpe su Henri Pirenne.

Gioacchino Volpe e Henri Pirenne

Per le informazioni e il giudizio che ne restituisce in questa sede bisogna presupporre che una sua conoscenza dell’attività dello storico belga debba risalire almeno agli anni del congresso di Berlino, quasi coincidenti tra l’altro con il suo periodo di formazione proprio nella capitale teutonica. Forse non è un caso che l’opera con la quale Pirenne si era fatto conoscere maggiormente nel panorama europeo viene riportata da Volpe nel suo titolo in tedesco: ‘Geschichte Belgiens invece che ‘Histoire de Belgique.

Questo dato, a mio parere, ha valore al di là del fatto – o forse proprio per questo – che subito dopo venga annotato un saggio dello stesso belga ma nella titolazione francese (Les anciennes démocraties des Pays-Bas, Parigi 1910).

Ma senza addentrarci in altre supposizioni, il resoconto della relazione mostra un Volpe entusiasta per le due relazioni in cui Pirenne mirava a smontare alcune teorie sui principali temi di storia medievale dibattuti in quegli anni, in particolare negli ambienti tedeschi: il belga criticava in particolare le tesi di Werner Sombart sulla nascita del capitalismo – che Volpe aveva già attaccato, con gli stessi argomenti, in una sua recensione –  e di Karl Bucher, sulla storia dell’economia urbana.

Eppure, a sorpresa, pare che Volpe sia stato inesatto nel riassumere la relazione di Pirenne al Congresso: se egli sostiene che, per lo storico belga, lo spirito e l’attività commerciale nel Medioevo “si sono svolti e manifestati, dall’XI secolo in poi, nella gente nuova, nei piccoli possidenti che hanno venduto l’allodio e si sono inurbati”, nel saggio che derivò da questa sua relazione, Les périodes de l’histoire sociale du capitalisme, Pirenne sembra essere di tutt’altro avviso:

 

il faut donc chercher sourtout les ancêtres de la bourgeoisie parmi la masse des ces êtres errants qui flottait à travers la sociétè, vivant au jour le jour des aumônes des monastères, se louant au moment de la moisson, s’embauchant dans les arme en temps de guerre et ne reculant ni devant le pillage ni devant la rapine si l’occasion s’en presentait. […] sauf des tres rares exceptions, ce furent de pauvre gens qui fondent dans le villes les premières fortunes commerciales du moyen âge.

 

In sostanza, il capitale mobiliare si costituì indipendentemente dall’influenza del capitale fondiario, “così in quella società agricola dove i capitali dormono, un gruppo di ‘outlaws’, di vagabondi, di miserabili, ha fornito i primi artefici della ricchezza nuova, separata dalla terra”.

La nuova città nasce quindi da un “incontro di questi uomini nuovi con la società antica in cui si producono urti e conflitti provocati dal contrasto fra il diritto demaniale ed il diritto commerciale, fra gli scambi in natura e gli scambi in danaro, fra la servitù e la libertà.

Una visione che si avvicina forse più a quella di storici tedeschi come Georg Below e che giustifica sì la critica a Werner Sombart – per il quale era stato grazie alla proprietà immobiliare se si erano formati capitali abbastanza solidi da poterli investire in attività commerciali – ma che si discosta largamente dal resoconto di Volpe, il quale quindi poteva forse rispecchiare più il pensiero dello storico abruzzese che quello del belga.

Del resto, per Volpe l’asserzione che il rinnovamento della società medievale ed il Comune furono opera della borghesia è solo per metà vera:

 

La borghesia crea il contenuto specifico di quella che è la coltura dell’età comunale e del Rinascimento; ma il merito d’aver creato le condizioni prime di questa coltura, d’aver innalzato le rocche sicure dove i nuovi uomini e le nuove idee avrebbero trovato dimora e definito campo d’azione, spetta più ai valvassori, ai militi, ai cattani, che non ai borghesi; più agli uomini d’arme che non ai mercanti; la ‘borghesia’ trasse profitto piuttosto da tutti quei bisogni nuovi che l’ascendere ed il politico organarsi della piccola feudalità creano nelle città e nelle terre circostanti.

 

Insomma, è una profonda trasformazione nell’economia terriera e nei ceti agricoli che porta ad una rinascita della società, culminante nelle città; una borghesia mercantile e artigiana quindi che non nasce ex novo da una massa informe di ‘errants’ e avventurieri campanti alla giornata e disposti al rischio imprenditoriale, quanto da una progressiva crisi dell’ordinamento feudale, da spinte centrifughe dovute da una parte da una minore aristocrazia feudale in lotta con la maggiore e dall’altra dalle rivendicazioni e le ribellioni dei contadini contro i loro padroni: i rapporti economici e giuridici di tipo contrattuale nascono qui, secondo lo storico abruzzese.

In particolar modo furono i valvassori che – a partire dall’XI secolo – conquistate una certa libertà personale e patrimoniale e cercando “nelle città nuove possibilità di ascesa economica e sociale”, si appoggiarono alle prerogative pubblicistiche e fiscali dei Vescovi e dei capitanei cittadini, le fecero progressivamente proprie e instaurarono delle prime forme di “organamento politico” su base privata, destinate ad espandersi fino a diventare enti di carattere pubblico e infine statuale. Come riporta Violante, “la borghesia apparve in primo piano solo nel secolo XII, e come portatrice della nuova cultura cittadina”, essa non crea un organismo politico nuovo, ma germoglia in un terreno già preparato in precedenza.

Basti questo breve confronto per evidenziare le linee generali di divergenza tra il medioevo di Volpe e quello di Pirenne: nel primo una forte preponderanza degli elementi giuridici e politici dell’evoluzione della società, nel secondo una spiegazione di tipo prevalentemente economico-sociale.

Convinzione di fondo per entrambi era, però, che con l’inizio del Medioevo non solo incominciasse l’età moderna ma, soprattutto, che con la nascita della civiltà cittadina e comunale nascessero anche le basi dello Stato nazionale.
E comune nella sostanza, pur con alcune diverse sfumature, era l’idea che questo Stato non fosse da considerarsi esclusivamente come istituzione detentrice “della potenza politica e della forza militare, ma era elemento risultante dalla “distinzione e la sempre maggiore articolazione delle classi sociali, la trasformazione del governo da associazione privata a ente di diritto pubblico, la costituzione di un territorio, infine la separazione dei poteri temporali dai poteri spirituali e quindi la laicità del governo civile. Insomma, corrispondeva in concreto […] a una società e una coscienza pubblica, che se per il  Pirenne era ‘civiltà’, in Volpe era ‘popolo’ o ‘Nazione’.

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