Quando la vendetta privata era una istituzione giuridica: la faida nei Comuni dell’Italia medievale

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Francesco Saverio Altamura, I funerali di Buondelmonte Buondelmonti (1860)

Francesco Barbarulo, Firenze –

Pensando alla pratica della faida nel Medioevo l’immaginazione dei più non può che correre a rimembrare le opere di William Shakespeare e il XIV canto del Paradiso dantesco, nelle quali venne descritto il clima d’odio e guerra aperta che poteva intercorrere tra famiglie lungamente nemiche rappresentate esemplarmente dai Montecchi e Capuleti – in realtà, come ci dice Dante, Cappelletti – a Verona e dai Buondelmonti e Amidei a Firenze.

La caratteristica forse più nota della faida è appunto legata alla sua dimensione violenta di vendetta, che vede da una parte i parenti della persona offesa intenti a comporre il torto subito mediante una ritorsione violenta, mentre dall’altra la famiglia del colpevole occupata a fortificarsi e a rispondere colpo su colpo a ogni attacco inferto dal nemico.

In realtà però la faida fu un istituto giuridico ben più complesso, che non solo non contemplava necessariamente uno stato di guerra generalizzato, ma a volte serviva addirittura a evitare o circoscrivere i conflitti armati.

L’origine della faida risiede nel diritto consuetudinario germanico: una pratica, questa, strettamente legata all’ordalia – il cosiddetto “giudizio di Dio” –, era un vero e proprio privilegio di cui potenzialmente tutti coloro che facevano parte della società – esclusi ovviamente i nullatenenti e i forestieri – potevano godere.

Nell’esperienza cittadina italiana, a partire dall’XI secolo, l’amministrazione del diritto privato da parte del potere pubblico non era particolarmente pervasiva; al contrario lasciava molta libertà ai singoli poiché, in caso di crimini contro la persona o contro i suoi beni, la vittima e la sua famiglia godevano della possibilità di compiere vendetta da soli, senza richiedere il coinvolgimento dei poteri pubblici.

Pur avendo una dimensione privata, la vendetta non deve comunque essere ritenuta una pratica anarchica e antisociale perché si inscriveva nel panorama ben più complesso della faida. Quest’ultima era una pratica che richiedeva l’osservazione di una certa ritualità e la mediazione di elementi esterni e interni alle famiglie ai quali veniva demandato il compito di fungere da mediatori e pacieri con lo scopo di ottenere un accordo pacifico tra le parti in lotta.

 

Domenico Morone, La cacciata dei Bonacolsi (1494)

 

L’importanza che la mediazione poteva assumere all’interno di questo processo rischia di rimanerci oscura se non teniamo bene a mente una delle più peculiari caratteristiche della faida, ovvero che essa non veniva indetta per punire il crimine compiuto: il delitto era considerato come un’offesa – iniuria ed era proprio questa a dover essere lavata; per la vittima e la sua familia diveniva dunque mandatorio riparare l’onore leso.

La salvaguardia dell’onore non era un semplice capriccio; in una società di tipo gerarchico come quella medievale l’onore aveva un’importante valenza morale e materiale e andava preservato se non si voleva vedere attaccata la propria posizione nella società. I pacieri dunque avevano il delicato compito di riuscire a trovare un compromesso in grado di lavare l’onta subita dall’offeso senza tuttavia macchiare l’onore della famiglia avversa

Alla fine del XIII secolo, quando le realtà comunali si rafforzarono e si dotarono di una più estesa e complessa burocrazia, i governi cittadini iniziarono a togliere alle vittime il privilegio di condurre autonomamente iniziative di giustizia penale e così venne impressa una forte pubblicizzazione a questi processi tramite l’introduzione del processo ex officio.

In tale maniera si fece strada una nuova forma di giustizia, quella retributiva, più simile all’odierna, perché chi aveva commesso un crimine non solo aveva danneggiato la vittima, ma aveva anche offeso la res publica e perciò il delitto doveva essere verificato tramite il processo inquisitorio – tramite l’inquisitio condotta ex officio – e punito, a prescindere dal fatto che il colpevole avesse trovato il modo di riappacificarsi privatamente con la vittima.

La nuova tipologia di processo segnò l’inizio di un lento declino della faida, dovuto non tanto alla comparsa del processo ex officio – che a lungo convisse con il sistema della faida –, quanto alla comparsa di uno Stato che monopolizzava sempre più la gestione della giustizia e allo stesso tempo contrastava ogni tipologia di violenza privata e nobiliare, andando così a colpire quel gruppo – i nobili – che, date le elevate disponibilità economiche e le alleanze, aveva più possibilità di esercitare la faida.

 

Ambrogio Lorenzetti, Allegoria Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo, (1338-39), particolare

 

Già dalla fine del XIII secolo i governanti dei comuni si erano resi conto dell’utilità derivante dal controllo della giustizia in termini politici, ma dovette passare molto tempo prima che il concetto di giustizia riparativa svanisse dalla giurisprudenza e dalla società.

Solo nel XVIII secolo alla figura della vittima fu definitivamente tolta la possibilità di giungere a un accordo mediante la ricomposizione del conflitto mentre fece definitivamente il suo ingresso un nuovo concetto di giustizia basato sull’ordine, la punizione (tramite l’imprigionamento) e il controllo della società.

Nel Medioevo però la vendetta non era affatto ritenuta una pratica barbara, anzi era la sola giustizia concepibile e accettabile perché permetteva di ottenere la soddisfazione e il ristabilimento dell’onore, che veniva finalmente sancito dalla stipula di una pace che potremmo definire liberatoria.

La pena e il processo ex officio, invece, erano ritenuti un’ingerenza da parte dei poteri pubblici perché non erano in grado di rendere l’onore, vendicare il torto o consentire di riappropriarsi della posizione minacciata. Queste misure venivano invece utilizzate dal gruppo al comando del comune (signoria, popolo, milites ecc) assieme a elementi come il bando e la magnatizzazione con il fine di ottenere una posizione di vantaggio e privilegio sugli avversari politici.

Testimonianze da parte di una vasta tipologia di uomini possono sottolineare l’importanza e la necessità della vendetta. Albertano, giurista, scrisse nel suo Liber consolationis, che “Si, tollerando injuriam, vindictam non fecero, inimicos meos et alios homines ad novam injuriam mihi faciendam invitabo” (Se, tollerando l’ingiuria, non eserciterò la vendetta, inviterò i miei nemici e altri soggetti a farmi un nuovo affronto), ma allo stesso tempo notava che la vendetta era poco conveniente a causa delle enormi risorse spese.

Il mercante Paolo da Certaldo, elencando i piaceri della vita nel suo Libro di buoni costumi, osservò che “la prima allegrezza si è fare sua vendetta”; anche in questo caso, tuttavia, fu sottolineato che queste rivalse “disertano l’anima, ‘l corpo e l’avere”.

 

Priamo della Quercia, miniature per la Divina Commedia – Inferno, canto XXVIII (XV secolo)

 

Dante stesso, trattando più volte dell’argomento, tiene nella più alta considerazione i familiari che hanno vendicato i torti subiti; invece biasima sé stesso e i suoi parenti per non aver ancora iniziato una faida per vendicare l’uccisione di Geri del Bello trucidato da un membro della famiglia dei Sacchetti

 

“O duca mio, la vïolenta morte / che non li è vendicata ancor”, diss’io, / “per alcun che de l’onta sia consorte, / fece lui disdegnoso; ond’el sen gio / sanza parlarmi, sì com’ïo estimo: / e in ciò m’ha el fatto a sé più pio”
(Inf XXVIII 122, vv. 31-36)

 

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