Fuga dai ghiacci: la spedizione Endurance di Shackleton

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Paolo Perantoni, Verona –

 

14 dicembre 1911. Il norvegese Roald Amundsen giungeva nel centro esatto dell’Antartide, vincendo la corsa al polo Sud battendo di pochi giorni la sfortunata spedizione inglese guidata da Robert Scott.

 

La sfida antartica era stata vinta a prezzo di molte vite, da ultima quella di Scott, che nel marzo 1912 aveva trovato la morte sul pack sulla via del ritorno, cosa si poteva fare ancora?

Per l’esperto esploratore Ernest Shackleton – che era andato vicinissimo due anni prima a piantare la bandiera nel centro del polo Sud – “Non restava che un unico grandioso progetto: la traversata del continente da un mare all’altro”. Non c’era tempo da perdere, bisognava trovare finanziamenti, uomini e mezzi per vincere questa ennesima sfida in Antartide.

La spedizione messa in piedi da Shackleton era molto ambiziosa. Oltre alla traversata coast to coast dell’Antartide – già complesso da definire in quanto non vi era ancora una carta dei confini terrestri del polo Sud – egli intendeva trovare la risposta a numerose questioni scientifiche sul continente; per questo imbarcò con sé un biologo, un geologo e un meteorologo.

La spedizione prevedeva due navi e due squadre: alla squadra dell’Endurance era affidata la vera e propria traversata, mentre quella dell’Aurora, più piccola, doveva compiere esperimenti scientifici, allestire la base sul mare di Ross e dei punti di rifornimento intermedi lungo il percorso della spedizione. Secondo i piani di Shackleton, l’Endurance sarebbe dovuta attraccare sul mare di Weddel: una volta sbarcati, gli uomini avrebbero dovuto raggiungere la base di arrivo sul mare di Ross in cinque mesi utilizzando slitte trainate dai 100 cani presi a bordo.

L’Endurance, che trasportava 28 uomini tra esploratori ed equipaggio, salpò dall’Inghilterra il 1° agosto 1914, appena tre giorni prima della dichiarazione di guerra: una volta appreso che la Royal Navy non aveva bisogno degli uomini né della nave, Shackleton proseguì la sua missione verso Sud.

Il 10 gennaio, dopo una breve sosta in Georgia del Sud, l’Endurance arrivò nel mare di Weddell dove iniziarono i primi problemi. L’estate antartica era stranamente troppo fredda: sia il pack che gli iceberg bloccavano la navigazione verso sud, costringendo l’equipaggio a continui cambi di rotta per avvicinarsi al punto di inizio della missione di terra.

La situazione si aggravò ulteriormente il 19 gennaio, quando attorno alla Endurance si strinse la morsa dei ghiacci antartici. A nulla valsero i tentativi da parte dell’equipaggio di rompere il ghiaccio e guadagnare il mare aperto: la nave era intrappolata in un pack che andava inesorabilmente alla deriva verso nord ovest. La radio di bordo a quella latitudine era inutilizzabile, nessun’altro, tranne l’equipaggio, era quindi a conoscenza del grave pericolo che incombeva sulla spedizione.

Shackleton decise quindi di attrezzare la nave per poter svernare in quelle situazioni, sperando nel disgelo della successiva primavera. Dopo 9 mesi di convivenza con le terribili pressioni del ghiaccio, il 27 ottobre la nave dovette essere abbandonata per motivi di sicurezza: sbarcate le strumentazioni, le provviste e i cani – che nel frattempo si erano ridotti del 50% a causa di una malattia per la quale non avevano medicine – gli uomini allestirono un campo attorno all’Endurance (Dump Camp); un mese dopo, il 21 novembre, la nave fu completamente distrutta dalla pressione del ghiaccio e poco dopo affondò.

Gli uomini rimasero così in attesa per un mese in quello che fu ribattezzato Ocean Camp, passando il tempo a caccia di foche e pinguini per poter incrementare le scarse razioni; la missione ora era quella di sopravvivere e trovare un modo per salvarsi in quanto nessuno sarebbe mai venuto alla loro ricerca.

Il 29 dicembre, a inizio estate quindi, l’equipaggio trascinò, lungo il lastrone di ghiaccio del pack, due delle tre scialuppe di salvataggio dell’Endurance, poggiate sulle slitte, allo scopo di trovare una via d’uscita verso il mare aperto e l’isola di Paulet dove Shackleton era a conoscenza di un ricovero con provviste. Ma i continui cambi di temperatura resero il ghiaccio del pack instabile sia per le slitte che per le barche, gli uomini dovettero quindi allestire un nuovo campo e attendere l’occasione giusta per fuggire, lo chiamarono Patience Camp. Rimasero sulla banchisa per quattro mesi, riuscendo a recuperare la terza scialuppa, ma dovendo sacrificare tutti i cani per poter sopravvivere alle terribili condizioni di scarsità di cibo.

Nel frattempo i venti spingevano la banchisa verso nord-ovest: il pack superò sia l’isola di Paulet che quella di Joinville, senza che gli uomini avessero la possibilità di raggiungerle in slitta a causa del ghiaccio troppo sottile. Shackleton dovette quindi cambiare obiettivo: la speranza ora si chiamava isola di Elephant o quella di Clarence, viceversa si sarebbe dovuto puntare verso la Georgia del Sud e le possibilità di successo sarebbero state prossime allo zero.

Nei giorni successivi il pack su cui galleggiavano iniziò a sciogliersi, non ci fu altra alternativa che salire a bordo delle scialuppe e navigare verso l’isola Elephant evitando gli iceberg, le balene e le orche. Partirono l’8 aprile 1916 e vi giunsero il 15 dopo una traversata molto impegnativa che provò fortemente uomini e scialuppe.

L’Elephant è uno sperone di roccia disabitato e completamente ricoperto dai ghiacci, impossibile dirsi salvi, in quanto l’isola è fuori anche dalle rotte dei balenieri che incrociavano in quel mare.

Shackleton decise quindi di compiere un’impresa disperata: a bordo della scialuppa in migliori condizioni, la James Caird, decise di partire con altri 5 uomini – Frank Worsley, Tim McCarthy, John Vincent, Thomas Crean ed Harry McNish – per cercare di raggiungere l’arcipelago della Georgia del Sud, distante 700 miglia marine (circa 1.300 chilometri).

Avevano lasciato quello stesso arcipelago il 5 gennaio 1915 e da allora non si avevano più notizie in patria dell’Endurance, dove peraltro la spedizione era stata “dimenticata” a causa delle sorti della Grande Guerra.

Shackleton lasciò il comando degli uomini rimasti sull’isola Elephant al suo secondo, l’esperto e popolare Frank Wild, che nei difficili mesi sul pack era diventato sempre più un trascinatore per tutto l’equipaggio. Wild utilizzò le due scialuppe rimanenti come ripari, nello stesso modo utilizzato secoli prima dai Vichinghi in Groenlandia, ovvero rovesciandole allo scopo di creare un tetto poi rinforzato da tutto quel poco di equipaggiamento che avevano ancora.

La loro resistenza fu eroica, ma altrettanto lo fu il pericoloso viaggio intrapreso da Shackleton e i suoi cinque compagni.

Partiti il 24 aprile, a bordo della Caird, sfidarono i cosiddetti “cinquanta urlanti”, ovvero i famigerati venti gelidi che sferzano il canale di Drake, oltre il 50° grado di latitudine sud: Shackleton ricorda nelle sue memorie che quel viaggio per mare fu quanto di peggiore avesse mai provato fino al quel momento. I sei riuscirono ad attraccare nell’arcipelago della Georgia del Sud dopo quindici giorni di navigazione, ma non erano ancora salvi. Attraccarono, infatti, nella parte meridionale dell’isola principale, una zona disabitata nei pressi della baia di re Haakon, un punto diametralmente opposto alla civiltà e quindi alla salvezza.

Non potendo circumnavigare l’isola a causa dei forti venti non restava altro che raggiungere la stazione baleniera di Stromness (nel nord dell’isola) via terra, ma si doveva superare la catena Allardyce, un sistema di monti che supera i 2.000 metri e su cui si stagliano il monte Paget (2.934 m.) e il ghiacciaio Fortuna.

Con la scarsissima attrezzatura e le poche provviste ancora a disposizione, Shackleton, Crean e Worsley, compirono un’altra impresa: in sole 36 ore riuscirono ad attraversare 48 chilometri di creste e ghiacciai – mai esplorati fino a quel momento – arrivando a Stromness il 20 maggio.

Da lì Shackleton organizzò subito il recupero degli altri tre uomini lasciati sulla parte meridionale dell’isola ma, specialmente, iniziò instancabilmente i preparativi per il soccorso di quanti erano rimasti sull’isola Elephant.

Si andava ormai verso l’inverno antartico e le condizioni del mare e della temperatura peggioravano sempre di più con il passare dei giorni, finché – al quarto tentativo – il rimorchiatore cileno Yelcho, comandato da Luis Pardo, non riuscì a trarre in salvo gli ultimi superstiti capitanati da Wild, che erano riusciti a sopravvivere nutrendosi di alghe, foche e pinguini.

Era il 30 agosto 1916, tutti e 28 gli uomini salpati dall’Inghilterra due anni prima poterono quindi ritornare sani e salvi alle proprie abitazioni.

L’impresa di Shackleton, a causa della rovinosa spedizione di Scott e delle sorti della guerra, passò praticamente sotto silenzio, solo in anni molto recenti è stata rivalutata inserendola a diritto tra le grandi imprese dell’Antartico; oggi viene usata come caso studio nei corsi di problem solving.

 

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