Un lanzichenecco in Lomellina

lanzichenecchi

Pietro Marchesi – Pavia

L’esercito alemanno al comando del conte Rambaldo di Collalto…”. Tutti ricordiamo le parole con le quali Alessandro Manzoni introduce il racconto della discesa in Italia dei Lanzichenecchi inviati dall’imperatore Ferdinando II a dare manforte agli spagnoli impegnati nella guerra del Monferrato. La marcia dei Lanzi – come erano chiamati – segnata da violenze, avrebbe portato in Italia il flagello della peste.

Oltre alle pagine manzoniane che cosa è rimasto nelle nostre contrade di quelle vicende? Poco o nulla, pensiamo. Eppure, cercando, qualcosa si trova. Un segno che il passato non scompare mai del tutto.

L’archivio parrocchiale di Sannazzaro de’ Burgondi (Pavia) conserva, tra gli altri registri, quello contenente le annotazioni dei decessi dell’anno 1629. Proprio in quei fogli si rinviene una traccia del passaggio di quelle milizie tanto temute. All’epoca il borgo era sede di una guarnigione spagnola che, dalla fortificazione edificata su di un costone alluvionale affacciato sulla sottostante vallata del Po, controllava il transito sul fiume che allora (diversamente da oggi) scorreva molto più in prossimità dell’abitato.

Il letto attuale è il risultato di una gigantesca inondazione avvenuta nell’anno 1706 al termine di uno dei più rigidi inverni mai registrati. La fotografia presenta il tratto rimasto della cinta muraria con le feritoie a trapezio per il fuoco incrociato.

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Altre prove della presenza di militari spagnoli sono rintracciabili nei citati registri parrocchiali dove sono riportate annotazioni relative alle vicende dei componenti della guarnigione: battesimi e funerali. L’annotazione qui riprodotta è proprio relativa alla morte di un ufficiale avvenuta nel borgo il 23 settembre 1629.

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La zona dove la fortificazione era stata eretta è ancora oggi denominata il quartiere, un chiaro ricordo delle funzioni militari che un tempo vi erano svolte. Tenuto conto della composizione e della disciplina degli eserciti nel XVII secolo, non si trattava certo di un luogo vicino al quale scegliere liberamente di vivere: tutta una varia umanità marginale gravitava, infatti, attorno agli accampamenti. Una prova è, stando alle testimonianze, il disvalore sociale che, ancora nei primi decenni del secolo scorso, colpiva chi vi andava a risiedere.

La fortezza svolse le sue funzioni anche una volta tramontato il dominio spagnolo. Tra le sue mura si acquartierarono, infatti, le truppe dei Savoia nei primi anni del XVIII nel corso della guerra di Successione Spagnola, poi quelle russe del generale Suvorov durante le guerre napoleoniche.

Torniamo al passaggio dei lanzichenecchi. Il giorno 29 ottobre 1629 il parroco Jacopo Antonio Scoppa annotava sul registro:

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Joannes Albertus de Lotuit, luteranus usque ad praesentem die in quo vulneratus ad mortem et Spiritus sanctus illuminatus petiit restitui Communione santae Romanae Apostolicae Ecclesiae, et sic habiuratis prius hereticos fuit ab excommunicatione maiori et ab omnia peccatis absolutus, ac Sancta Mater Ecclesia restitutus qui postea animam Deo redditit in Communione eiusdem cuius corpus sepultum fuit in coemiterio ecclesiae.

Chi era quel giovane? Da dove veniva? Nulla al di fuori del nome, italianizzato, e dell’età riportati nell’annotazione del registro ci dice qualcosa in più di lui. Di certo era un lanzichenecco e ne fa fede il termine luteranus che il parroco poneva in evidenza.

Ma proviamo ad andare oltre le pur scarse informazioni per cercare di capire la realtà che i suoi contemporanei si trovavano a vivere. Il giovane era entrato in contatto con i militari spagnoli della guarnigione?

Possiamo supporlo, forse per ricevere dei rifornimenti, per informazioni, non sappiamo. Quello del quale siamo certi è che venne ferito mortalmente. Una rissa tra soldati? Non è da escludere. Possiamo, però, anche avanzare l’ipotesi che il ferimento sia avvenuto in seguito alla reazione di qualche abitante che voleva difendere i suoi beni, la sorella, la moglie, la figlia da qualche aggressione da parte dei mercenari e che il giovane ne abbia subito le conseguenze.

In un caso e nell’altro qualcuno, visto il ferito a terra, si era sentito in dovere di chiamare il sacerdote per assicurare la salute dell’anima prima di quella del corpo. Don Jacopo giunse in tempo per sentire il giovane confessare la propria fede nella Riforma, ma l’annotazione ci dice, indirettamente, qualcosa d’altro.

In quale lingua si saranno parlati? Forse nel suo vagare da mercenario il giovane aveva appreso qualche espressione di italiano oppure si era espresso in spagnolo, una lingua che il parroco, data la situazione, forse non ignorava. Ci pare quasi di sentire il dialogo tra il sacerdote e il ferito che dichiarava la propria fede religiosa giungendo in extremis all’accettazione del cattolicesimo.

Sarebbe suggestivo pensare anche a un’alternativa: che in un’epoca di violente contrapposizioni religiose a don Jacopo sia importato, prima di tutto, confortare quel giovane nel momento del passaggio senza chiedergli di abbandonare la fede nella quale era cresciuto, per poi annotare sul Registro invece quanto gli veniva richiesto dai canoni circa l’abiura come condizione necessaria per impartire il viatico.

I nostri due protagonisti stavano vivendo nel pieno della guerra dei Trent’anni, in un’epoca che vedeva nella tolleranza un bene raro; eppure quel sacerdote, forse, diede in quel momento la dimostrazione che quel valore universale non era del tutto scomparso pur nella tragedia che avvolgeva l’Europa.

Letture consigliate:

G. Garbi, Una ricerca sul campo: per una storia demografica di Sannazzaro de’ Burgondi, in “Annali di Storia Pavese”, n. 8 – 9, 1982 – 1983, pp. 349 – 356.

L. Gazzaniga, Storia di Sannazzaro de’ Burgondi, (1891) rist. anastatica a cura dell’Amministrazione Comunale, 2005

V. Wedgwood, La Guerra dei Trent’anni, Il Saggiatore, Milano, 2018

P. Bloom, Il primo inverno, Marsilio, Venezia, 2018