Il “tradimento della Resistenza”: gli “uomini di Mussolini” riabilitati dalla Repubblica

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Veronica Bertolussi, Venezia –

 

“In un biennio più di ottocento ostaggi furono giustiziati nella sola città di Lubiana […] Nella sede della questura si interrogavano tra tormenti, percosse e torture a morte tutti quelli che erano stati casualmente «razziati» per le strade. Il nome del direttore della polizia Ettore Messana resterà a lungo nel ricordo del popolo sloveno come quello di una belva feroce […] Senza aver subito neanche un interrogatorio quarantamila sloveni furono trasportati in campi di concentramento italiani […] Continuavano ininterrotte le fucilazioni di ostaggi”.

 

Questa testimonianza, tratta da una lettera pubblicata dal quotidiano L’Italia libera il 20 maggio 1944, è solo una tra quelle, numerose, riportate dallo storico Davide Conti, già consulente dell’Archivio Storico del Senato della Repubblica, nel suo ultimo saggio, Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana (Einaudi, Torino, 2018).

 

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L’importante, necessario volume presenta le biografie, corredate da una notevole mole documentaria, di alcuni dei più noti «criminali di guerra» che, alla fine del Secondo conflitto mondiale, senza essere mai stati processati per i propri crimini, furono reintegrati in posti di responsabilità nella neonata Repubblica italiana. Così, accanto a Ettore Messana, troviamo la figura dell’ispettore Ciro Verdiani, ma anche i colonnelli Ugo Luca e Rosario Barranco, tutti in seguito protagonisti della «questione siciliana» scoppiata all’indomani della Liberazione, rappresentata in particolar modo dalle drammatiche vicende della strage di Portella della Ginestra e dell’omicidio del bandito Salvatore Giuliano. Accanto a queste figure, che potremmo definire «di transizione» nell’Italia passata dal fascismo alla democrazia, Conti aggiunge, tra le altre, le biografie dei generali Giovanni Messe e Giuseppe Pièche, riciclati dallo Stato italiano come baluardo alla tanto temuta invasione comunista all’interno del nuovo quadro rappresentato dalla Guerra fredda.

La cosiddetta «mancata Norimberga» fu, come ben spiega l’autore, una scelta compiuta in nome della continuità dello Stato, ed è in questo contesto che

 

“le biografie qui selezionate costituiscono in questo senso un elemento importante, in quanto personaggi che avevano ricoperto ruoli e funzioni centrali nell’apparato repressivo fascista o ai vertici del regio esercito vennero scelti dai governi della Repubblica nel quadro della ricostruzione dei servizi di sicurezza e dei dispositivi per il controllo dell’ordine pubblico caratterizzati dal nuovo contesto geopolitico della Guerra fredda”.

 

Una decisione, da parte della neonata Repubblica democratica, che non mancò di essere estremamente divisiva, al punto di creare una vera e propria «frattura non componibile dell’alleanza antifascista internazionale e la rottura in ambito nazionale italiano tra il processo di ricostruzione dello Stato e l’eredità della Resistenza».

Emblematico del fallimento dell’epurazione, in questo senso, è il caso del generale Mario Roatta, già comandante del Corpo truppe volontarie italiane schieratesi con Francisco Franco durante la guerra civile spagnola e, tra il 1934 e il 1939, capo del Sim, il Servizio informazioni militare. Con la Liberazione, Roatta fu il primo a comparire nella lista dei presunti criminali di guerra italiani stilata dalla Jugoslavia e consegnata alle Nazioni Unite, mentre, a Roma, il 22 gennaio 1945 iniziava il processo istruito dall’Alta corte di giustizia per chiarire il suo ruolo nell’omicidio dei fratelli Carlo e Nello Rosselli: condannato, non scontò mai la sua pena poiché fatto fuggire in Spagna nel marzo, alla vigilia della sentenza (per poi godere, tra i tanti, dell’«amnistia Togliatti» e tornarsene in Italia da uomo libero). Nei suoi confronti, come segnala Conti, fu messo in atto un vero e proprio

 

“atto di esfiltrazione con una matrice e un significato politico più ampi, progressivamente compostisi e resisi visibili nel crescendo d’interventi: a) degli Alleati sul governo Bonomi; b) del governo Bonomi su Mario Berlinguer e sul presidente dell’Alta Corte di giustizia Maroni; c) della commissione d’inchiesta per la «mancata difesa di Roma» sulla ricostruzione del quadro politico complessivo. La fuga di Roatta rappresentò un passaggio stretto in cui trovarono scomposizione e ricomposizione interessi difformi sul piano nazionale e internazionale, nonché conflitti intra-istituzionali che, rimasti sino ad allora latenti, emersero in prossimità della fine della guerra”.

 

Come dimostra l’autore attraverso le biografie presentate nel suo saggio, quello di Roatta non fu un unicum, tanto che la scelta – deliberata – per la riabilitazione dei presunti «criminali di guerra» può essere considerata, come già denunciato in una lettera a Emilio Lussu da Gaetano Salvemini, una sorta di «tradimento della Resistenza», le cui origini vanno ricercate sia nel mutato contesto storico e politico sia nella necessità, fatta propria dalla Democrazia cristiana, di superare la dicotomia fascismo-antifascismo nel nome di una legittimazione dello Stato democratico. Fu in questa nuova realtà, in una sorta di presa di coscienza anche istituzionale, che l’anticomunismo, parola d’ordine del nuovo corso all’interno del blocco statunitense, poté appoggiarsi agli uomini e alle strutture del vecchio sistema fascista, considerati ora «strumento funzionale alla condotta dello scontro con le forze politiche della sinistra».

Il lavoro certosino di Davide Conti, dunque, si rivela degno di nota non solo per la quantità e la qualità dei documenti consultati e delle testimonianze riportate, ma anche e soprattutto per il tentativo, riuscito, di dare una nuova, efficace chiave di lettura alla transizione dell’Italia dal fascismo alla Repubblica.

 

Davide Conti,
Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana,
Einaudi, Torino, 2018
pp. 376