Nolens intestatus decedere: librai, tipografi e testamenti. La trasmissione del mestiere a Venezia in età moderna

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Sara Cavatton, Verona –

Per definizione, il testamento è un documento pubblico rogato dalla figura autorevole del notaio: è un atto giuridico unilaterale e personale, redatto mortis causa per mezzo del quale un individuo manifesta il proprio volere e dispone dei suoi diritti per il tempo in cui avrà cessato di vivere.

Le dichiarazioni ivi presenti hanno generalmente contenuto patrimoniale in grado di produrre effetti giuridici. Il lascito testamentario viene, inoltre, considerato una preziosa e specifica fonte storico-documentaria che interessa sia l’ambito religioso sia quello sociale.

Se ben analizzata permette, infatti, di indagare le caratteristiche della religiosità locale e personale, le forme generali della pietà e dell’atteggiamento nei confronti della morte e della vita.

A tal proposito, la diffusione della pratica testamentaria a partire dall’età tardo medievale fu direttamente legata anche all’affermazione di una maggiore consapevolezza e coscienza religiosa, la quale rimanda a una formula ricorrente e ben nota: nolens intestatus decedere. Nessuno voleva morire senza aver fatto testamento, risultava quindi pressante il desiderio di salvarsi l’anima.

Salvo alcune necessarie modifiche e naturali evoluzioni, la tipologia del documento notarile e il relativo processo di creazione rimasero pressoché invariati nel corso dei secoli.

Negli archivi si possono ritrovare diversi tipi di atti di ultima volontà: in primo luogo si annoverano tutti i documenti, definiti donationes mortis causa, che un testatore ha redatto in maniera autografa o che ha fatto redigere in modo allografo, generalmente quando si trovava in una situazione di precario stato di salute.

 

 

Vi sono poi quei documenti, le donationes post obitum, redatti dal notaio in un momento qualsiasi a seguito della dettatura delle proprie intenzioni da parte del soggetto interessato. Si tratta quindi di una forma di atto che nasce come orale e assume poi la forma scritta: è definito testamento nuncupativo.

Per quanto concerne la Serenissima Repubblica di Venezia, la storia del notariato ebbe le sue origini già prima dell’anno Mille, anche se soltanto nel 1514 l’autorità statale ordinò la creazione di un apposito Collegio.

Da quel momento poterono quindi esercitare il mestiere soltanto coloro che avessero sostenuto e superato l’esame per diventare nodaro veneto. La legge limitò poi a sessantasei il numero di notai ordinari, definiti numerarii e aventi determinati requisiti.

In laguna, connessa all’attività notarile vi era anche quella tipografica: una consistente parte della prima soddisfaceva proprio le esigenze di bibliofili e stampatori. Generalmente i tipografi e i librai si rivolgevano a un notaio per sbrigare le pratiche legate al loro esercizio commerciale e, naturalmente, in quanto cittadini veneziani, quelle relative alla vita quotidiana, civica e personale.

Per mezzo dell’autorità notarile stipulavano contratti societari e di acquisto, vendita o affitto di beni; stabilivano per iscritto accordi e convenzioni con altri professionisti del settore; davano disposizioni riguardanti la loro eredità attraverso la redazione di uno o più lasciti testamentari.

A tal proposito, bisogna ammettere che non è agevole trattare in maniera completa ed esaustiva delle questioni ereditarie degli stampatori cinquecenteschi, dal momento che erano imprenditori come tanti altri e che i lasciti di bottega in bottega erano sempre legati a diverse tipologie di ragioni.

Inoltre, rimane difficoltoso nella maggioranza dei casi rintracciare il notaio cui un tipografo usava rivolgersi. Non è quindi possibile codificare le attività e le volontà testamentarie: tuttavia, attraverso lo studio degli annali inerenti alcune famiglie di editori si ritrovano informazioni riguardanti la storia aziendale, privata e familiare, unita in alcuni casi alla trascrizione di atti notarili e testamenti.

È questo il caso dell’officina Tramezino – si è qui deciso di utilizzare la corretta dizione del cognome, ripristinata negli ultimi anni da alcuni studiosi, pur riconoscendo che in certi documenti alcuni membri della famiglia utilizzarono la versione con la doppia zeta.

 

 

Michele Tramezino e suo fratello Francesco furono editori e tipografi di origini venete, attivi a Venezia e a Roma nel corso del XVI secolo: mentre nella città dei papi Michele fu soltanto editore, nella sua bottega veneziana all’insegna della Sibilla fu per lo più tipografo-stampatore e mercante di libri di ogni genere – storia, teologia, letteratura classica e cavalleresca, geografia, archeologia e gastronomia.

Nel corso della sua vita fece testamento in due occasioni distinte: il 13 gennaio 1561, malato, chiamò al suo capezzale il notaio Carlo Bianco per dettargli le sue volontà e nominare erede universale il fratello. Scampato alla morte una prima volta, questa sopraggiunse però nel 1579: Tramezino lasciò allora un secondo testamento, scritto di suo pugno il 28 giugno 1578, il quale fu aperto dopo la sua morte dal notaio Antonio Callegarini.

Dopo aver dato le consuete disposizioni riguardo alle esequie e alla sepoltura, questa volta nominò erede universale il pronipote Michele il giovane insieme ai suoi figli maschi, essendo Francesco deceduto qualche anno prima. Con una tale decisione voleva esprimere la volontà di continuazione della tradizione familiare nel campo della tipografia, come effettivamente avvenne tra successi e liti familiari fino al 1592.

Ciò che si evince dai due lasciti – il primo una donatio mortis causa e il secondo olografo – è la stregua determinazione a lasciare beni e libri della decennale attività di stampa ai più stretti membri familiari maschi, affinché portassero avanti l’impresa e ottenessero buoni profitti.

Inoltre, è bene notare che Michele Tramezino si affidò a due notai diversi per sbrigare le pratiche testamentarie: tuttavia, si può concludere che il notaio di fiducia fosse il Callegarini, dal momento che a lui si rivolsero anche gli eredi per compilare altri atti e stipulare ulteriori accordi riguardanti l’impresa tipografica.

 

 

Gli Annali tipografici dei Tramezzino non rappresentano, però, l’unica fonte di informazioni relativa alle disposizioni di stampatori della prima età moderna. Ci sono pervenute, tra le altre, anche quelle di Lazzaro de’ Soardi.

Originario del Piemonte, nel 1490 stampò a Venezia il primo libro – l’ultimo nel 1517, anno della sua morte. Usò caratteri gotici e romani, ma ne impiegò anche uno nuovo, la lettera galante, di cui parla proprio nel testamento. L’atto – datato 1514 – fornisce una panoramica sui vari rami della sua attività tipografica e ci informa che molti librai, in Italia e all’estero, vendevano le sue opere e che altri gli erano debitori.

Mentre eredi legittimi divennero i figli di sua sorella, parte dell’attrezzatura della stamperia passò nelle mani di Simon de Lovere, amico di Lazzaro; si sa poi che Giorgio de’ Rusconi acquistò alcune sue silografie: ecco quindi un altro caso di lascito rivolto a famigliari, amici e colleghi, appartenenti al medesimo ambito professionale, con l’intento che possano usufruire e sfruttare al meglio la strumentazione per stampare altre opere.

Pur essendo impossibile affermare che tale fosse la norma prescelta e applicata in tutte le numerose vicende relative ai testamenti degli stampatori, anche questo caso conferma quindi l’abitudine secondo cui fosse un famigliare/collega-collaboratore ad aggiudicarsi l’eredità di una bottega tipografica.

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