Sulla violenza come metodo di azione politica: “Terrore e terrorismo” di Francesco Benigno

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Veronica Bortolussi, Venezia –

In un contesto come quello odierno, segnato periodicamente da attentati terroristici, l’indagine storica compiuta da Francesco Benigno, docente di Storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, colma una (finora) considerevole lacuna.

Nel suo Terrore e terrorismo. Saggio storico sulla violenza politica, l’autore ripercorre la storia del terrorismo dalle sue origini, radicate nel periodo del Terrore francese (all’interno del quale definisce Maximilien de Robespierre il «primo terrorista della storia»), ai giorni nostri, passando da Mazzini alla Rivoluzione russa, dalla Guerra fredda al terrorismo mediorientale, senza ovviamente dimenticare, soprattutto per quel che riguarda l’Italia, i cosiddetti “anni di Piombo”.

Il contesto di riferimento, dunque, è globale, nonostante anche Benigno, come già aveva fatto il giornalista Guido Olimpio nel suo Terrorismi. Atlante mondiale del terrore individui alcune caratteristiche comuni del fenomeno, di questo “fantasma del nostro tempo”. Anche lo storico, infatti, fa notare come vi siano «elementi di notevole continuità fra il “terrorismo” come lo conosciamo oggi e la concettualizzazione tradizionale dell’azione rivoluzionaria, specialmente anarchica», mentre riconosce come, ad esempio, i cartelli della droga sudamericani siano un’«esperienza storica» che applica metodologie “assai simili a quelle di ambiente musulmano, tanto nelle modalità propagandistiche quanto nell’efferatezza ostentata e nell’uso di strumentazioni militari altamente distruttive”.

La particolarità del saggio di Benigno, tuttavia, risiede nella sua relativizzazione del fenomeno. Se, infatti, l’autore cerca con la sua notevole ricerca di comprendere «se sia possibile individuare una tradizione culturale imperniata sull’uso politico del terrorismo», contemporaneamente ci mostra come il terrorismo sia un fenomeno

 

“strutturalmente bifronte: da un lato è una tradizione di uso della violenza politica per distruggere l’ordine costituito, fatta propria da movimenti di liberazione di varia natura; dall’altro una tecnica bellica a disposizione di chiunque possa o voglia impiegarla per modificare assetti politici avversari”.

 

Il tentativo di “condizionare la sfera pubblica mediante l’uso della violenza”, per Benigno, è dunque fatto proprio non solo da gruppi più o meno ristretti di rivoluzionari alla ricerca di un futuro diverso o dell’indipendenza del proprio popolo da una dominazione straniera, ma anche da poteri già costituiti e al governo, quindi anche da apparati statali a esso afferenti.

Il caso emblematico, per comprendere questa dualità, è la guerra di liberazione algerina. Iniziata nel 1954 per richiedere l’indipendenza dell’Algeria dalla dominazione francese, vide affrontarsi da un lato la popolazione autoctona e, dall’altra, i pieds-noirs, come erano definiti i francesi che vivevano nel Paese africano, considerato a tutti gli effetti parte vera e propria della Francia. Entrambe le fazioni, in lotta fra loro fino al 1962, utilizzarono metodi di matrice terroristica per cercare di sopraffare l’avversario. Il caso algerino dimostra in modo emblematico come l’uso della violenza politica sia stato in un certo senso istituzionalizzato: i generali dell’esercito francese, infatti, memori della recente sconfitta in Indocina, si resero ben presto conto che l’unico modo per sconfiggere i rivoluzionari era ricorrere alle loro stesse tecniche. È infatti in Algeria che vennero approntate le prime teorie e tecniche controrivoluzionarie, poi fatte proprie anche in Italia negli anni Sessanta per porre un freno all’avanzata comunista.

 

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Il saggio di Benigno, tuttavia, è anche significativo per l’attenzione posta dall’autore allo sviluppo del termine «terrorismo» e alla curata ricostruzione della letteratura precedente in materia, ovvero di come i contemporanei dei vari fenomeni ne trattarono. In questo contesto, è significativo l’esempio di Frantz Fanon, medico algerino autore del saggio I dannati della terra, che svelò «il ruolo della violenza come strumento di emancipazione: la violenza dei colonizzati […] non è la loro, ma la nostra». Per Fanon, dunque, la violenza ha una «funzione liberatoria»: «la violenza che ha presieduto all’assetto del mondo coloniale, che ha ritmato instancabilmente la distruzione delle forme sociali indigene, demolito senza restrizione i sistemi di riferimento dell’economia, i modi di comparire, di vestire, sarà rivendicata e assunta dal colonizzato». A queste teorie rispose Hannah Arendt, che nel suo saggio Sulla violenza rese esplicita la sua critica al «radicalismo della nuova sinistra» e al «suo scivolamento da posizioni non violente a una crescente attrazione per la lotta armata».

Il saggio di Benigno, dunque, offre al lettore, sia esso uno storico o semplicemente un curioso, una ricostruzione storica di gran pregio di un fenomeno con cui ancora oggi si deve convivere, mostrando come la violenza politica non sia lo strumento in mano a una sola fazione, ma a tutte, siano esse di destra o di sinistra, istituzionalizzate o meno. Comprendere, per trovare il modo di affrontare il fenomeno del terrorismo, resta imprescindibile.

 

Francesco Benigno
Terrore e terrorismo. Saggio storico sulla violenza politica
Torino, Einaudi, 2018
pp. 387