Tarrare, o della fame insaziabile: un incontentabile polifago negli anni della Francia rivoluzionaria

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Samuele Sottoriva, Roma –

Mitologia, letteratura e storia forniscono in abbondanza numerosi esempi di golosi, ghiottoni e crapuloni.

Ovidio racconta nelle sue Metamorfosi di un tal Erisittone che per saziare il suo appetito arrivò a dilapidare ogni ricchezza finendo infine per divorare sé stesso. La passione per la buona tavola, in particolare per gli amati funghi, fu fatale anche all’imperatore Claudio, mentre qualche decennio prima l’abbondanza dei banchetti offerti da Lucullo, da cui l’omonimo termine, passò alla storia.

Doveroso ricordare poi i golosi menzionati da Dante: il concittadino Ciacco, punito da una violenta bufera “per la dannosa colpa de la gola”, e papa Martino IV, grande amante delle anguille del lago di Bolsena e della Vernaccia di San Gimignano. Celebri anche i banchetti offerti dal re d’Inghilterra Enrico VII, dai gusti ricercati e raffinati, e il vasto seguito di cuochi e pasticcieri che Caterina de Medici fece giungere a Parigi nel Cinquecento.

La storia di Tarrare ha però una sfumatura radicalmente diversa rispetto agli appetiti enunciati in precedenza, comparabile forse solo a quella dei giganti Gargantua e Pantagruel nati dalla fantasia di Rabelais. Si trattò infatti di una fame mostruosa, raccontata con dovizia di particolari dal dottor Baron Percy ai primi dell’Ottocento. La sua relazione medica, comparsa nel Journal de médecine, chirurgie, pharmacie del 1804, costituisce la principale fonte di questo articolo.

Tarrare (o Tarare) era il nome, o forse il nomignolo, di un incontentabile polifago nato non molto lontano da Lione nel 1772; forse proprio nell’omonimo modesto villaggio, a una quarantina di chilometri dall’antica Lugdunum.

Fuggito presto dalla casa paterna, dopo aver mendicato e rubato per qualche tempo, si unì giovanissimo a una delle tante fiere itineranti che percorrevano la Francia. Come fenomeno da baraccone sfidava il pubblico a saziare la sua fame, uscendone sempre vincitore: mangiò in qualche minuto un intero cesto di mele; ingurgitò senza alcun problema delle grosse pietre e dei tappi di sughero; divorò in una sola giornata un quarto di bue del suo stesso peso.

 

 

I suoi “successi” non erano però senza spine. Più di una volta fu costretto a cercar ricovero per delle terribili coliche all’Hotel-Dieu di Parigi, il più antico ospedale della capitale. Appena ripresosi dai dolori, si cibava avidamente e senza alcun ritegno di ciò che trovava direttamente sul posto.

Rischiò di esserne diretto testimone l’orologio del chirurgo Giraud, ma il medico salvò la preziosa cipolla togliendola prontamente dalla vorace bocca di Tarrare.

Un giorno – racconta il dottor Percy – i dottori dell’ospedale tentarono di spaventare il giovane, facendogli credere che l’unica soluzione per la sua polifagia fosse aprirgli quanto prima il ventre. Alla sola vista del finto tavolo operatorio Tarrare fu preso dal panico e fuggì a gambe levate: tale fu la paura che non vi fece più ritorno.

Il giovane continuò a dar letteralmente prova della sua “capacità” per le strade di Francia fino allo scoppio della Rivoluzione Francese, quando si unì all’Armée révolutionnaire.

È facile comprendere come le normali razioni destinate ai soldati fossero per Tarrare largamente insufficienti. Fortemente debilitato fu così portato all’ospedale militare di Soultz, al confine con la Svizzera. Là ritrovò il dottor Courville, un medico che lo aveva già avuto in cura a Parigi, che decise di tenerlo con sé per indagare meglio la strana natura del suo male.

Per calmare il suo appetito Tarrare ricevette una porzione quadrupla rispetto agli altri degenti, preparata spesso con resti della cucina e avanzi degli altri meno affamati pazienti. Ma non era sufficiente: Tarrare fu infatti trovato più volte nella farmacia dell’ospedale a divorare addirittura dei cataplasmi, impasti curativi a base vegetale da applicarsi sulla pelle.

 

«Si immagini» – scrisse il dottor Percy – «tutto ciò che gli animali domestici e selvatici, i più immondi e più avidi, sono capaci di divorare e si avrà l’idea dei gusti e dei bisogni di Tarrare: gli stessi cani e i gatti fuggivano alla sua vista come se presagissero, in un certo qual modo, la sorte che li attendeva».

 

Un giorno Tarrare riuscì a catturare proprio uno sfortunato felino: davanti ai medici gli squarciò con i denti il ventre, ne bevve avidamente il sangue e in poco tempo non lasciò che le ossa. Mezz’ora più tardi rigettò la pelliccia della sua sventurata preda, al modo di alcuni animali carnivori.

Tarrare amava particolarmente la carne di serpente e affini. Consapevoli di questa sua ghiottoneria i medici lo sfidarono a mangiare un’intera anguilla viva: Tarrare ne schiacciò la testa tra i denti e la ingoiò senza problemi in un sol boccone. In un’altra occasione divorò la cena preparata per quindici operai tedeschi, consistente in due enormi pasticci di carne e ben quattro galloni di latte.

 

 

Seguendo la ricostruzione del dottor Percy, Tarrare non pesava più di cinquanta chili ed era di corporatura gracile. Il suo aspetto non aveva nulla di feroce: sguardo timido, pochi capelli biondi molto fini, guance pallide e smorte all’interno delle quali potevano però trovar posto ben dodici uova o alcune mele molte grosse.

Tra la bocca e lo stomaco si sviluppava un lungo canale dirigente, praticamente diritto, che permetteva di ingoiare, senza il minimo problema, interi cilindri di addirittura 30 centimetri. Tarrare sudava in continuazione e dal suo corpo spesso bollente usciva una sorta di fumo, estremamente sgradevole all’olfatto e addirittura percepibile con la vista.

Una condizione che si aggravava dopo un lauto pasto: il vapore aumentava, gli occhi si arrossavano e una sonnolenza brutale, al limite dell’ebetudine, si impadroniva del giovane per ore e ore. Infine, il ventre di Tarrare, solitamente floscio e così rilassato da poter fare quasi il giro del suo corpo, si gonfiava come un pallone una volta saziato.

La facilità con cui deglutiva qualsiasi cosa fece venire un’idea al dottor Courville: chiese a Tarrare di inghiottire una voluminosa cassa di legno, di forma cilindrica, all’interno della quale chiuse un foglio arrotolato. Tarrare lo inghiottì senza problemi e il giorno seguente lo riportò intatto (e lavato) al dottore.

Notando come il foglio fosse rimasto in buono stato, Courville poté constatare la buona riuscita dell’esperimento: forse il giovane poteva essere utilizzato come corriere militare trasportando documenti segreti oltre le linee nemiche.

Tarrare fu quindi inviato al generale Alexandre de Beauharnais che, dopo averne constato personalmente la particolare dote, si convinse della bontà dell’idea. Al soldato fu così ordinato di ingoiare una cassa contenente una lettera per un colonello francese fatto prigioniero dai prussiani.

Gli fu detto che si trattava di una comunicazione della massima importanza, ma si trattava in realtà di una semplice richiesta al graduato prigioniero di dare sue notizie attraverso l’insolito mezzo e l’altrettanto inusuale messaggero.

Tarrare, travestito da semplice contadino, si diresse in territorio nemico e fu presto intercettato da un’avanguardia prussiana a poca di distanza da Landau. Non parlando una parola di tedesco fu subito sospettato di essere una spia, venne prima bastonato e poi rinchiuso in prigione.

Interrogato per una seconda volta, fu picchiato nuovamente e placò la fame divorando un numero indefinito di gallette sotto gli occhi stupefatti e divertiti dei soldati prussiani. Nel frattempo il contenuto era da più di trenta ore all’interno del suo corpo e chiedeva con insistenza di uscire: un grave problema per Tarrare che avrebbe dovuto evacuarlo senza essere visto dai soldati e poi, sempre a loro insaputa, obbligare il messaggio al percorso inverso ingoiandolo nuovamente.

 

 

Il fallimento aveva un solo scontato esito: il giovane sarebbe finito appeso al primo albero disponibile. Nonostante la difficoltà Tarrare riuscì nella duplice operazione e dopo una terza dose di legnate poté ritornare al campo francese e da lì all’ospedale di Soultz.

Conclusa l’ingloriosa esperienza di corriere, Tarrare espresse il desiderio di essere guarito dalla sua triste situazione. Fu curato con delle bevande acide, del laudano (tintura d’oppio) e delle pillole di tabacco. I vari rimedi si rivelarono però inutili e il francese continuò a mangiare smodatamente, dovendo spesso soddisfare da sé i suoi insaziabili appetiti sovente a detrimento di ovili, cortili e cucine altrui, disputando spesso a lupi e cani randagi qualche vile avanzo.

Alcuni infermieri giurarono di averlo visto bere il sangue salassato dai malati e dei pazienti lo accusarono di saziare la fame addirittura nell’obitorio. Nessuno lo avvicinava più e tutti ne erano profondamente spaventati. Quando scomparve un bimbo di qualche mese i sospetti caddero, forse ingiustamente, su Tarrare e divenne così inevitabile il suo allontanamento nel 1794.

Per quattro anni di lui non si seppe più nulla. Il dottor Percy lo rintracciò in pessime condizioni nel 1798 all’ospedale di Versailles, con una tubercolosi in stato ormai avanzato. Tarrare confessò al dottore di aver nello stomaco una forchetta d’argento, da ben due anni, e di essere convinto che fosse quella la causa della sua consunzione. Il giovane dichiarò inoltre che la malattia aveva da tempo messo fine alla sua ormai proverbiale voracità.

Nel giro di un paio di mesi lo sventurato Tarrare morì, sfiancato infine da una violenta diarrea. Qualche ora dopo la morte i medici effettuarono una rapida autopsia. Sfidando il disgusto e il pericolo, si cercò nell’immenso stomaco la forchetta di cui si era lamentato il ghiottone. Non fu trovata.

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