Sul concetto di primitivo e le sue conseguenze nella contemporaneità

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Elena Palma, Venezia –

Primitivo è un termine che deriva dal latino primitivus, “che viene prima”, e si riferisce ad un soggetto da collocare ad uno stadio iniziale del tempo storico, precedente a quello attuale. Questo viene inoltre utilizzato nella contemporaneità per descrivere degli individui connotandoli con un carattere di inciviltà.

“Primitivo” è polisemico. Da un lato, esprime una categoria ermeneutica che può essere strumentalizzata in momenti di crisi e di conflitto per descrivere il nemico; dall’altro, è stato utilizzato, a partire dalla cultura romantica occidentale, per descrivere il paradiso terrestre e l’età dell’oro. Si parla di primitivo facendo riferimento al buon selvaggio di Rousseau, non contaminato dalla corruzione e dalla società; ma, al contempo, si fa riferimento ad un essere selvaggio, bestiale e, essendo governato da impulsi animaleschi, inferiore.

 

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Jean Jacques Rousseau

 

Il termine viene utilizzato attualmente per descrivere e connotare l’alterità, e come strategia di conferma della superiorità società occidentale. È possibile infatti, attraverso un gioco di specchi, capire come l’Europa ha costruito e continua a costruire se stessa e le proprie identità nazionali attraverso l’apposizione di etichette di primitività su altre popolazioni. In tutti i casi il primitivo è colui che deve essere addomesticato, educato, istruito, come un bambino.

Questo termine trascina con sé una problematicità che emerge già in Erodoto: infatti, nelle Storie, egli asserisce che l’essere “barbaro” – da leggere “primitivo” – non è una condizione oggettiva, quanto piuttosto un giudizio soggettivante che proviene da uno sguardo altro. Questo punto è di centrale importanza, poiché diversi paradigmi antropologici si sono basati sulla certezza dogmatica che i primitivi fossero oggettivamente primitivi e per molti decenni questa considerazione è rimasta immutata, creando delle convinzioni nel senso comune che tuttora permangono e che legano alcune persone, con determinati comportamenti, alla categoria di primitivo; questi comportamenti sono, ad esempio, il ricorso alla violenza o la pratica del nomadismo, o, ancora, la “cognizione situata” – contestualizzata, legata ad un contesto concreto e di forma narrativa – propria delle società non scolarizzate.

L’incontro più importante tra due forme umane fu quello che avvenne a partire dal XVI secolo con la scoperta dell’America. In questo contesto l’Europa si riaffermò come il centro del mondo, perpetrando l’idea di supremazia bianca e attuando forme di antropologizzazione, riuscendo in questo modo a creare un ordine tra quel caleidoscopio di molteplicità umana.

 

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Alcuni ritratti presi dalla serie fotografica “Before they pass away” (2015) di Jimmy Nelson, frutto di tre anni di lavoro e di vita, da parte del fotografo, tra numerose tribù indigene in tutto il mondo

 

L’atteggiamento antropologizzante degli europei si pose in contrasto con l’atteggiamento cosmologizzante dei nativi. Questi ultimi si ponevano un interrogativo più radicale, che era volto a stabilire in quale posto collocare l’europeo nel cosmo, mettendo in discussione la stessa corporeità dei bianchi. Infatti, Lévi-Strauss, nel suo saggio Razza e Storia del 1972, portò il caso dello sbarco sulle Antille di Colombo e della pratica degli indigeni di immergere i corpi degli europei in acqua per riuscire a relegare i soggetti nell’ambito naturale.

Durante il Cinquecento vennero elaborate molte teorie riguardanti la condizione dei nativi, che finirono per convergere in una concezione di matrice cristiana che permetteva agli europei di elevarsi al grado di educatori e civilizzatori dei cosiddetti popoli incivili.

Nel XVIII secolo, durante le esplorazioni dei Mari del Sud, si continuò a costruire, attraverso i viaggi, documentati dall’arte e dalla letteratura, il mito del paradiso incontaminato popolato dai primitivi, in totale contrasto con il grigiore delle nuove città industriali. In questo periodo si abbandonò l’idea della beatitudine del selvaggio, ma al contempo prese sempre più corpo la legittimazione alla conquista, dovuta ad una maggiore consapevolezza storica e ad una tecnologia più avanzata.

Da questi nuclei concettuali, formatisi durante i periodi analizzati, si propagarono idee di paternalismo che concepivano l’altro come un essere che doveva essere educato in quanto infantile ed inferiore. Questi atteggiamenti per molto tempo sono stati legittimati dalle ricerche scientifiche ottocentesche e dalle teorie antropologiche. Inoltre, come affermò Serge Latouche nel suo saggio L’occidentalizzazione del mondo, gli stessi indigeni erano convinti della loro primitività e legittimavano la sottomissione da parte degli occidentali alla luce di un’arretratezza tecnologica oggettiva, che si era fatta movente della loro condizione.

Il discorso sull’alterità nasce sempre da una relazione e da un confronto, che permette di scoprire l’altro in quanto diverso dall’osservatore. Due ordini di problemi nelle concezioni occidentali riguardanti il diverso hanno successivamente portato al quasi totale asservimento di intere popolazioni: l’aver creato categorie di giudizio soggettive che vennero percepite e applicate come oggettive; e non aver creato un discorso dell’altro intersoggettivo – in quanto i nativi non hanno mai avuto modo di descrivere i coloni, mentre coloro che venivano descritti non ebbero mai la possibilità di descriversi.

 

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La copertina di un mensile francese del XIX secolo

 

L’insieme degli atteggiamenti analizzati mostra un alto grado di etnocentrismo, che arriva fino alla contemporaneità e che sentiamo espresso in diverse forme retoriche nella politica e in molti altri contesti. Espressioni come “esportare la democrazia”, continuano a costruire una legittimazione morale e culturale ai continui e sempre nuovi metodi di colonizzazione messi in atto dai processi di globalizzazione.

Partendo da queste riflessioni teoriche sul termine “primitivo” e sulla sua storia, meritano la nostra attenzione gli atteggiamenti contemporanei, soprattutto le pratiche e le spedizioni civilizzatrici che i governi e la comunità internazionale mettono in atto da diversi decenni attraverso progetti di cooperazione allo sviluppo, campagne militari e missioni evangelizzatrici, tra popolazioni che hanno altre strutture economiche, altre strutture politiche e altre visioni cosmologiche.

Noi – società occidentale – ci siamo posti come apostoli e promotori di civiltà, considerando per secoli solo la nostra idea di civiltà, spesso senza considerare la concezione di “civile” dei popoli sottomessi e, soprattutto, senza considerare la differenza della ricezione delle nostre pratiche in società che hanno diverse visioni del mondo e delle conseguenze del loro radicarsi.

In questo momento, in cui si è sviluppata una certa sensibilità da parte della comunità internazionale, i processi di globalizzazione minacciano sempre di più, ancora una volta, la ricchezza e la molteplicità culturale, perpetrando un atteggiamento etnocentrico che rischia di perdere di vista la necessità di ascolto, di empatia e di mediazione. Sarebbe opportuno – a parere di chi scrive – che la politica e la comunità internazionale riformulino le proprie pratiche e la propria retorica, incorporando questi atteggiamenti di apertura per permettere uno sviluppo armonico del mondo e delle popolazioni che lo abitano.

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