Il Sessantotto che non avevano capito: Il Sessantotto sequestrato. Un libro a cura di Guido Crainz

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Enrico Ruffino, Venezia –

Dalla memorialistica che ormai, di decennio in decennio, ha affollato i cataloghi delle nostre biblioteche, alla storiografia tout court, le cinquanta candeline spente dal Sessantotto hanno visto mobilitarsi gran parte dell’intelligencija italiana in un’affannosa difesa o in un attacco (spesso ingiustificato) nei confronti dell’anno che diede, all’insegna di grandi auspici e grandi immaginari, il ad una stagione che naufragò quasi subito in una spirale eversiva.

Ma tra i pro e i contro, gli attacchi generazionali (non ultimo quello che proviene dalla generazione cui appartiene il sottoscritto) e quelli strumentali, questa celebrazione ha anche lasciato dei contributi storiografici di rilievo.

 

Saggi di qualità in un cinquantennale ricco di pubblicazioni.

 

Tra questi non parlo del bel progetto internazionale di Donatella Dalla Porta (Sessantotto, Feltrinelli, 2018), che appare rivolto più al presente che al passato; e nemmeno del libro, per certi aspetti raffinato, di Paolo Pombeni su cosa resta di quell’esperienza (Che cosa resta del ’68? – Il Mulino, 2018), anch’esso rivolto all’oggi.

Parlo anzitutto di tre volumi che, più di altri, hanno salato una pietanza un po’ sciapa, quale è quella dell’interpretazione storiografica su quest’anno “spartiacque”: si tratta della decisa presa di posizione di Marcello Flores e Giovanni Gozzini in favore della globalità dell’evento (1968. Un anno spartiacque, Il Mulino, 2018); del lungo e meticoloso studio (durato ben dieci anni) Di Francesca Socrate sulle due generazioni della “prima contestazione” in Italia (Sessantotto: due generazioni, Laterza, 2018) e non per ultimo il critico mea culpa di Guido Crainz e Anna Bravo ne Il sessantotto sequestrato (Donzelli, 2018).

 

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Soggettività dichiarate: forme ed esperienze di “militanza” che si fanno storiografia.

 

Volumi diversissimi tra loro, per tesi e metodologie, per domande e intenti, ma che si inquadrano in particolar modo per una (dichiarata) soggettività dei propri autori e curatori: tutti, tranne Giovanni Gozzini, militanti attivi a sinistra nel e del ’68. Militanti, in diverse forme e luoghi, di una generazione condannata alla politica. E ormai interpreti di sé stessi prima che di chi li ha preceduti. Tanto più se due di questi autori, Flores e Crainz, sono ormai assurti di diritto al rango di maître à penser storiografici della “stagione dei movimenti”.

Si tratta dunque di soggettività coerentemente dichiarate e vivide. Ma d’altronde, come ha scritto Gaetano Arfè, “la storiografia sull’Italia contemporanea è vissuta anzitutto come autobiografia”: di questa idea, tanto vera quanto ingannevole, un precursore è stato non a caso un altro storico di professione, Giovanni De Luna, che nelle pagine de Le ragioni di un decennio (Feltrinelli, 2009) ha cavalcato le sue riflessioni all’insegna di questo pensiero. Non è stato da meno Guido Crainz nel volume succitato, da lui curato e mosso da una coraggiosa constatazione:

 

«A distanza di cinquant’anni iniziamo forse a comprendere che nella storia successiva dell’Europa il ’68 non è tanto rilevante per quel che avviene a Parigi oppure a Torino e a Roma […] quanto per i rivolgimenti, i traumi e i processi che segnano i paesi che qui consideriamo [Polonia, Cecoslovacchia e Jugoslavia ndr]. Inizia da lì, dalla Cecoslovacchia e dalla Polonia, il percorso verso un’Europa non più divisa, e per esso molti hanno pagato un prezzo altissimo: eppure quegli studenti, quegli intellettuali, quei sostenitori di un socialismo dal volto umano non trovarono nei movimenti studenteschi dell’Occidente quel solidale sostegno che sarebbe stato necessario. Perché? […] E gli aspri interrogativi si rivolgono di queste pagine si rivolgono in primo luogo a chi, come noi, partecipò con convinzione alle speranze e agli abbagli di quei movimenti.»

 

Di questo “aspro” interrogativo – che permette di pensare e pensarsi in termini storiografici – vorrei discutere. Se non altro perché in questo segmento autobiografico si inseriscono temi, problemi e contraddizioni di una stagione ancora ricca e bisognosa di spunti interpretativi: a partire dagli “abbagli” e dalle “speranze” che, come si potrà intuire, erano ben diverse dalle speranze e dalle esigenze dei loro coetanei d’oltrecortina.

 

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Il Sessantotto sequestrato: un libro coraggioso.

 

Pubblicato nel primo mese del cinquantennale, quando le fanfare avevano appena iniziato a strombettare per celebrare l’evento, il Sessantotto sequestrato si è infatti subito posto su un piano diverso e altro rispetto alle pubblicazioni e alle celebrazioni che nei mesi successivi avrebbero riempito le librerie.

Diverso, persino dai libri dapprima citati, perché la riflessione è stata volutamente impostata dal suo curatore non su di una narrazione monocorde, eminentemente “occidentale”, su di un dialogo quindi tutto interno a chi non aveva capito, ma su una coralità in cui spiccano le voci degli autoctoni delle zone “sequestrate” dall’Unione Sovietica: non solo il polacco Wlodek Goldkorn, che dalla Polonia trovò rifugio nel nostro Paese proprio in quel fatidico ’68, o la psicologa slovena Nicole Janigro, ma anche studiosi come il ceco Pavel Kolàr, allora bambino di otto anni e oggi docente di storia comparata all’Istituto Universitario Europeo.

Ma diverso anche per l’eco che si può sentire dalle “vive” carte di quei mesi, pubblicate in questo volume, da cui è possibile sentire l’evaporazione del sogno di un “socialismo dal volto umano” non solo da parte di intellettuali del calibro di Zygmunt Bauman ma anche e soprattutto dai colleghi oltre cortina degli studenti in rivolta dell’occidente. Un sogno che svanì nelle normalizzazioni repressive dei “sequestratori” sovietici dando avvio a processi complessi, che sarebbero culminati nella caduta del muro di Berlino.

Altro perché, a comparare documenti e riflessioni dei “sequestrati” con gli analitici mea culpa dei due italiani, non si può restare indifferenti al coraggioso e (spero) fruttuoso tentativo di porsi con un altro approccio, che è quello dell’analisi documentale, ad interrogativi dolorosi perché vissuti in prima persona.

 

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“L’Europa che non abbiamo capito”

 

A leggere il saggio introduttivo di Guido Crainz non si può infatti restare indifferenti dinanzi a parole che, lette oggi, dipingono un imbarazzante ritratto della sinistra radicale italiana di allora, la quale – con evidente appannamento ideologico – non riusciva ad uscire, salvo qualche rara eccezione, da un abbaglio interpretativo: quello che vedeva negli avvenimenti di Varsavia e di Praga, nelle richieste di un “socialismo democratico” da parte di intellettuali e studenti d’oltrecortina, “il passaggio da una forma gerarchizzata di direzione dell’economia pianificata […] ad un processo che marcia verso l’economia di mercato”  in cui vi era lo spettro di “una involuzione antisocialista”.

Oreste Scalzone – allora leader studentesco e prossimo a fondare Potere Operaio – avrebbe, ad esempio, apertamente contestato le aperture del segretario del PCI, Luigi Longo, alla Primavera sostenendo che “ciò che deve preoccupare è la possibilità che questo discorso sia fatto in chiave di rilancio di una logica democratica e di uno spirito di tolleranza”.

Certo, non mancavano le eccezioni come quelle rappresentate dalla linea intrapresa dal “Manifesto” o dall’articolo di Guido Neri sui “Quaderni Piacentini”: ma anche qui se si volge lo sguardo alla posizione che questa rivista – tra le più importanti e innovative nell’area della sinistra antagonista – prese “provvisoriamente” sull’evoluzione in Cecoslovacchia ci si accorge che la questione è molto più complessa di quello che sembra:

 

«chi ritiene che con l’intervento l’Unione Sovietica abbia “tradito il socialismo”, nutre ancora delle illusioni sul “socialismo” dell’Unione Sovietica. E chi crede, di fronte al fatto dell’intervento di dover prendere posizione a favore di Dubcek e di vedere una soluzione nel ritiro delle truppe del patto di Varsavia, segue la politica dell’Unione Sovietica nel senso che fa proprie le alternative apparenti che essa stessa ha presentato.» (“Quaderni Piacentini”, Anno VII, n.36, novembre 1968, pp.4-10)

 

Né con l’Unione Sovietica né con Varsavia. In virtù del fatto che se si vuole lavorare in senso rivoluzionario

 

qui nelle metropoli industrializzate dell’imperialismo, la nostra analisi dello sviluppo del “campo socialista” non deve arenarsi continuando a caratterizzare genericamente come Paesi socialisti l’Unione Sovietica, le Repubbliche popolari della Bulgaria, Jugoslavia, Polonia, Romania, Cecoslovacchia e RDT, né continuando ad evocare un “socialismo democratico”.

 

La posizione – sfuggita a Crainz nel suo saggio – tocca il punto delle sostanziali differenze che intercorrevano tra i movimenti dell’est e quelli dell’ovest. “Un modo angusto d’intendere l’Europa”, come sostiene lo storico friulano riprendendo i pensieri dello scrittore Milan Kundera: le patrie del “socialismo reale” non interessavano più né suscitavano entusiasmi perché il mito della “rivoluzione d’ottobre” era scemato dentro lo stalinismo.

Gli sguardi dei movimenti erano dunque rivolti alle nuove patrie del socialismo e le utopie si intensificavano nell’immaginazione rivoluzionaria, mentre i movimenti dell’est viaggiavano più sullo scetticismo post-rivoluzionario. La rivoluzione si doveva fare in Italia, in Francia, negli Stati Uniti. Era già stata fatta in Polonia, in Cecoslovacchia e Russia: e adesso il capitalismo tentava di entrare attraverso i processi di destalinizzazione.

 

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Il nodo della libertà tra oriente e occidente

 

Così i fermenti e gli entusiasmi si rivolgevano ai guerriglieri dell’America latina piuttosto che alle domande “di libertà economica” degli studenti cecoslovacchi: non c’è pane senza libertà” diceva uno slogan degli studenti di Varsavia – scrive Anna Bravo – mentre i loro coetanei francesi, italiani, tedeschi erano abituati a pensare il contrario: non c’è libertà senza pane”.

E in fondo, scrive ancora la Bravo, “per chi lotta all’est il Comunismo è altra cosa” e “quantomeno va posto a critica”: come non citare la splendida introduzione di Zygmunt Bauman ad un volume che introduceva i documenti delle agitazioni polacche del ’68 (in Italia: Contestazione a Varsavia, Milano, Bompiani, 1969).

Il sociologo polacco scriveva: “si rendevano conto (gli studenti ndr) che il socialismo era in pericolo. Erano dei socialisti e volevano difenderlo”. Difendere il socialismo dall’oppressione sovietica: in ballo c’era la libertà, la libertà senza cui non “c’era pane”. Libertà “socialista” e non “comunista”. Ecco: è questa forse la discriminante maggiore.

La partita tra oriente e occidente si è giocata – a sinistra – “a colpi di cuore” (per citare un volume di Anna Bravo) tra due libertà diverse. Inconciliabili, allora, l’un con l’altra. Ma comunque “paradigmatiche” viste oggi dallo sguardo distaccato dello storico.

 

Guido Crainz (a cura di),
Il Sessantotto sequestrato. Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia e dintorni,
Donzelli, Roma 2018,
pp. 196.