“Fare come in Russia”: nuove domande sulla Rivoluzione a Silvio Pons

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Pubblichiamo oggi il seguito della lunga chiacchierata che la nostra Caterina Mongardini ha avuto con il professor Silvio Pons, sul tema della Rivoluzione russa e delle sue celebrazioni. Una vera e propria lezione, dicevamo la scorsa volta, nella quale lo storico, rispondendo alle domande della nostra redattrice, riesce a districare la complessità delle interpretazioni della Rivoluzione, offrendoci una chiave di lettura originale capace di farci percepire cosa davvero hanno significato per la nostra Storia quei “dieci giorni che sconvolsero il mondo”.

 

Caterina Mongardini, Venezia –

 

Molto spesso, nella vulgata manualistica, l’obiettivo dei bolscevichi è prendere il potere in Russia e instaurare la dittatura del proletariato. La problematica viene limitata, ma in realtà come dice lei è molto più complessa. Soprattutto riguardo alle reazioni che si ebbero, perché all’esterno si sperò nella “rivoluzione socialista”, si attese e si caricò di aspettative questa rivoluzione che si voleva esportare.
La battuta di arresto che si ebbe dopo la Guerra Civile creò molte disillusioni, venne molto ridimensionato l’aspetto internazionalista: come se fosse montata una marea di aspettativa che poi, sgonfiandosi, lasciò sul terreno molte conseguenze e fomentò reazioni a volte anche opposte, soprattutto all’esterno della Russia.

 

La questione è più complessa perché quando parliamo d’impatto europeo o mondiale della Rivoluzione Russa dobbiamo sempre ricordarci che le reazioni che provoca fanno riferimento a sentimenti molto diversi, spesso contrapposti. Ci sono le aspettative, ma ci sono anche la paura e il rigetto: I dieci giorni che sconvolsero il mondo (John Reed, 1919, n.d.r.) furono scritti da un giornalista americano che simpatizzava per i bolscevichi ma questi “dieci giorni” sconvolsero il mondo non solo perché si crearono grandi sentimenti di empatia, di speranze, di emulazione verso la Rivoluzione in generale  –  e quella bolscevica in particolare – ma perché risvegliarono anche il sentimento della paura della Rivoluzione. Un sentimento profondo, radicato nella storia europea, lascito della Rivoluzione Francese: certo le generazioni erano passate e non so se si possa parlare di memoria della “grande paura” dell’89 ma, insomma, parliamo di qualcosa di molto simile e che venne enormemente ingigantito.

In primo luogo, effettivamente, la Rivoluzione Russa non rimase confinata alla Russia – ha avuto dei seguaci e non sono state delle piccole minoranze ma potenzialmente masse proletarie di lavoratori o addirittura dei movimenti di liberazione anti-coloniale – e mise a repentaglio, nella percezione delle classi dirigenti e di una larga parte dell’opinione pubblica europea, uno stato di cose esistente che già era stato ampiamente sconvolto dalla guerra e che si cercava in tutti i modi di restaurare.

Quindi irruppe violentemente l’elemento di trasformazione rivoluzionaria che generò una forte paura non solo negli imperialisti reazionari europei, ma anche nei protagonisti dei progetti democratici liberali, come il presidente Wilson. Egli, infatti, fu in competizione con i bolscevichi sul piano delle idee: i suoi “14 punti” li stava preparando già da tempo e diventarono davanti all’opinione pubblica mondiale una risposta alla Rivoluzione Bolscevica. Perché si sente il bisogno di dare una risposta alla Rivoluzione Bolscevica? Se questa fosse stata percepita come un evento solamente russo, esecrabile nelle sue forme oppure da elogiare però sempre in un contesto confinato alla Russia, il problema non si sarebbe posto.

Evidentemente è stata percepita la possibilità – reale e concreta – che il processo innescato dai bolscevichi effettivamente, come era nei loro programmi, potesse diventare un progetto rivoluzionario su scala globale. In secondo luogo, questa grande paura – frutto, in ogni caso, di una inevitabile reazione – nei confronti della rivoluzione comunista in Europa venne enormemente amplificata dalla Guerra Civile Russa e dal Terrore Rosso, e trovò dei riscontri anche in Europa perché la Repubblica dei Consigli Ungherese fu la dimostrazione palpabile che potesse verificarsi la possibilità che una dittatura del proletariato venisse instaurata anche in Europa. Il governo di Bela Khun in Ungheria nel giro di pochi mesi scatenò un bagno di sangue; ci fu, inoltre, anche un altro bagno di sangue, quello bianco controrivoluzionario. Con ciò non sto asserendo che ci fu una responsabilità primaria da parte di qualcuno.

La violenza del dopoguerra europeo è stata spaventosa: la Guerra Civile Russa è stata di una brutalità mai vista prima, si verificò l’annientamento tradizionale della separazione tra chi combatte e chi non combatte, separazione mantenuta fino alla Prima Guerra Mondiale. Il senso dell’onore, intento del codice d’onore, di un soldato venne completamente meno. La Guerra Civile Russa fu il crogiolo di violenza più spaventoso di tutti. Venne alla luce anche questo aspetto primitivo: una risposta non solo legata al timore che gli operai si impadronissero delle imprese, ma anche una sorta d’istinto di conservazione che avrebbe portato poi i liberali a simpatizzare con qualunque forza intendesse ripristinare l’ordine contro una possibile rivoluzione comunista.

Ciò spiega anche perché in Italia, per esempio, molti liberali simpatizzassero per il fascismo o addirittura che dei liberali europei avessero una certa simpatia per Mussolini. Il tema dell’impatto dei famosi “dieci giorni” è un tema che va visto costantemente in questa duplice chiave: il fatto che il progetto d’esportazione bolscevico esistesse – ed era l’obiettivo primario – e la risposta innescata da questo progetto, la paura. Si creò, quindi, una polarizzazione violenta che fu naturalmente un effetto della Grande Guerra, e non riguardò solo la Russia e non fu solo un effetto del ’17.

Questo processo dicotomico – azione/reazione, rivoluzione/paura – assunse un forte carattere ideologico. Assunse la parvenza di una rivoluzione e di una controrivoluzione; e questa è la chiave con cui i bolscevichi e anche i loro antagonisti hanno letto il dopoguerra: o la rivoluzione o la reazione.
In realtà gli storici dovrebbero vedere e sapere che le opinioni, le percezioni, le visioni degli attori di un’epoca vanno tenute in alta considerazione, ma vanno anche filtrate e riviste attraverso la prospettiva storica, per cui non si possono puramente e semplicemente prendere le loro opinioni e dire “è andata così”.

Questo paradigma – rivoluzione/controrivoluzione – è in realtà molto contestabile che sia effettivamente un paradigma adeguato a descrivere, a illustrare ed analizzare il dopoguerra in Europa. Però questo è un altro discorso.

 

 

 

A proposito dell’aspetto che assume la Rivoluzione: all’inizio parte dal basso – quindi le masse contadine e operaie che si sollevano – successivamente, dopo la Guerra Civile e poi ancora di più con Stalin, si parla al contrario di una Rivoluzione che in realtà si avventa dall’alto sui fenomeni. Quindi una rivoluzione dal basso all’inizio che poi però si trasforma in una rivoluzione dall’alto imposta dal regime instauratosi: questa dicotomia si può dire che descriva effettivamente cosa avvenne tra il ’17 e i primi anni ‘30? Se sì, come si è passati da una rivoluzione dal basso a una rivoluzione dall’alto?

 

Questa è una domanda più che giusta. Risponderei così: innanzitutto il progetto rivoluzionario originario dei bolscevichi fallì. Abbiamo detto che la rivoluzione europea in potenza era una realtà – non era un’immaginazione – e certamente era così, se contiamo soltanto quanti moti rivoluzionari e situazioni di potenziali conflitti sociali si svilupparono nell’Europa del dopoguerra, in forma anche violenta. Ci furono convulsioni sociali che si possono definire di carattere rivoluzionario.

Però, la rivoluzione socialista in Europa non si verificò, o venne sconfitta. Ognuno può avere le sue interpretazioni su questo: i bolscevichi credettero di aver assistito al grande tradimento della social-democrazia, in aggiunta alla forza che la controrivoluzione era stata capace di opporre sul piano militare. Ma il vero vulnus della prospettiva rivoluzionaria, così come la pensavano i bolscevichi o gli spartakisti, era l’assenza delle reali possibilità di svilupparsi in Europa allo stesso modo che in Russia.

I bolscevichi dovettero prendere atto – in modo riluttante o dissimulato – che il progetto rivoluzionario concepito nel ’17 era fallito: non c’è una data per questo. C’è stato però un momento in cui emerse un paradosso nella rivoluzione bolscevica e direi che fu il 1920, quando l’Armata Rossa arrivò alle porte di Varsavia sotto le quali venne respinta; nello stesso tempo però i bolscevichi avevano vinto la Guerra Civile in patria: perché si tratta di un paradosso? Perché i bolscevichi, Leninin primis, erano convinti di non riuscire a sopravvivere se non si fosse verificata la Rivoluzione in Europa. Ma niente di tutto ciò si verificò: non si verificò la rivoluzione in Europa come loro si aspettavano; ma nonostante tutto vinsero la Guerra Civile e mantennero il potere.

Questo è il paradosso che è al cuore della questione che pone lei. Cosa accadde? Il bolscevismo al potere si trovò a dover governare il paese – che tra l’altro si stava ricostituendo attraverso la riacquisizione o la riconquista di alcune parti dell’ex impero – e vincere la Guerra Civile comportò che i rivoluzionari si prendessero la responsabilità di governare. Dovevano quindi creare un governo basato sul socialismo e ricostruire il paese fuori dall’emergenza che era stata affrontata – parzialmente – dal comunismo di guerra, una vera e propria economia della povertà e della scarsità ammantata di un’ideologia.

Anche Lenin lo capì: si trovavano davanti ad un’enorme prospettiva. Governare la Russia significava costruire il socialismo in Russia. Parallelamente, cosa era successo alla “Rivoluzione mondiale”? Cambiò o finì tale progetto? Questa è una domanda a cui nessuno seppe dare una risposta chiara, nemmeno Lenin. La Rivoluzione mondiale continuò a essere una prospettiva ma declinata in una forma “processuale”: si trattava quindi di organizzare le forze di una rivoluzione, ossia i partiti comunisti nei vari paesi del mondo; ma allo stesso tempo lo Stato Bolscevico avrebbe dovuto prendere parte alla “Rivoluzione mondiale”.

Nel momento in cui i bolscevichi costruirono uno Stato diverso da tutti gli altri, si pose il problema della sua funzionalità come strumento della Rivoluzione. Il problema già si era posto durante la Guerra Civile poiché l’Armata Rossa era lo Stato bolscevico: essa esisteva, benché fosse un mezzo miracolo costruito con metodi di terrore e persuasione, ed era un esercito moderno. La leva di massa così organizzata diventò la base dello Stato bolscevico.

Si apre quindi una duplice questione. Da una parte si pone la costruzione del socialismo che vuol dire governare e realizzare i compromessi sociali: la NEP è un esempio di grande compromesso sociale volto alla rinascita del Paese, che riconosce che non si può esercitare la dittatura del proletariato senza trovare delle forme di compromesso con i contadini. Dall’altra parte si riflette su come questo stato debba operare nel mondo, quali rapporti debba instaurare con gli altri partiti comunisti e cosa questo significhi per la rivoluzione mondiale.

La questione è molto complessa e non c’è un passaggio lineare da un’idea di rivoluzione dal basso a un’idea di rivoluzione dall’alto. Anche qui c’è una narrazione storica un po’ semplicistica che, mi sembra, sia andata per la maggiore anche nei decenni passati: l’idea che viene proposta, in sintesi, è che la Rivoluzione in Europa non scoppi; che i bolscevichi ne debbano prendere atto e che, perciò, il progetto bolscevico diventi il socialismo in un solo paese.

Trockij e pochi altri rigettano tale prospettiva, ma vengono messi a tacere; da qui in poi si parla dell’evoluzione nel governo di Stalin. Perciò, in questa narrazione c’è un passaggio da un progetto rivoluzionario in cui i bolscevichi avevano creduto, anche se in fondo erano comunque dei nazionalisti, ad una “internalizzazione” della Rivoluzione. Non l’internazionalizzazione, ma l’internalizzazione: non so nemmeno se esista in italiano questa parola, gli inglesi la usano – “internalization” – per chiarire che la Rivoluzione si ripiega al suo interno.

Diciamo che non è facile proporre una narrazione altrettanto lineare, però questa è troppo semplice perché in realtà trascura tante cose. Trascura soprattutto il fatto che per molti comunisti – molti bolscevichi – e non soltanto comunisti russi, la costruzione del socialismo in Russia ha un significato internazionale. È molto importante: questo significato è simbolico in primis, mitologico se vogliamo – per gli operai e per i piccolo borghesi che credono nella proposta di una società nuova – ed è molto importante dal punto di vista internazionale, addirittura decisivo per il futuro del comunismo.

Allo stesso tempo, però, la costruzione del socialismo, con questo forte impatto simbolico, fu possibile perché nacque uno Stato socialista che s’impose come grande potenza – sto parlando dei tardi anni ’20 o addirittura primi ‘30. Non poteva non essere una grande potenza perché era accerchiato dai grandi stati capitalistici. Quindi c’è una combinazione tra la potenza dello Stato e la costruzione dall’alto del socialismo da parte dello Stato stesso: tutto questo si può descrivere come “internalizzazione”, ripiegamento su se stessi? Secondo me no.

La costruzione di una potenza socialista ha un forte impatto globale e internazionale che, non a caso, le viene riconosciuto. La missione internazionale continua ad esistere: esiste nella forma della Grande Potenza; nel fatto che questo Paese non è come tutti gli altri e determina una divisione del mondo.
È un’eredità del ’17: il mondo è spaccato in due già dalla Rivoluzione. Da una parte c’è l’URSS e dall’altra tutti gli altri. Ecco questa visione del mondo non è un’ “internalizzazione” della rivoluzione.

Trockij pensava che questo atteggiamento fosse un tradimento della rivoluzione mondiale: forse per certi aspetti lo era stato – nel senso che Stalin per la costruzione dello Stato era disposto a sacrificare i comunisti in qualunque modo e lo dimostrò nel corso del tempo; il punto è che dietro quella costruzione dello Xtato non c’era solo una concezione nazionalista o occidentale dello Stato ma anche l’idea che era quella la strada da seguire per attuare la trasformazione dell’idea della rivoluzione mondiale. La “Rivoluzione mondiale” viene rimandata, ma rimane nell’orizzonte ideologico.

 

 

Furet ne “Il passato di un’illusione” (Mondadori, Milano, 1995, n.d.r.) sostiene che la Rivoluzione Bolscevica non abbia lasciato un’eredità e che sia stata più che altro una parentesi: una tesi molto assertiva che comunque tralascia tutto il vissuto delle generazioni che sono passate per questa “parentesi” che ovviamente non ne escono indenni…

 

Infatti, dobbiamo capire come milioni di persone o fior di intellettuali hanno avuto un rapporto di attrazione per il comunismo: erano tutti matti? Non credo. Fa parte dei processi storici che noi dobbiamo capire. Dietro l’idea del rapporto tra il comunismo e la globalizzazione c’è tutto un discorso che giunge fino alle eredità del comunismo. Anche solo in questa chiave – Stato, Modernizzazione, Politica – ha lasciato un’eredità che come minimo si vede molto bene in Cina.

Possiamo tranquillante affermare che il comunismo cinese è fuori dall’influenza del comunismo novecentesco perché esso aveva un’idea di modernità alternativa, non capitalistica; il comunismo cinese è ovviamente una modernità capitalistica. Quindi si può dire che è fuori dall’orbita del comunismo sovietico. Allo stesso tempo, però, il regime cinese è retto da uno stato le cui basi si sono formate entro l’esperienza della Rivoluzione del ’17: senza di essa non ci sarebbe stato probabilmente. Allora come facciamo a dire che è una parentesi? Questo paradigma non funziona, non regge più, non è mai stato vincente.

 

 

Quindi commemorare questo centenario deve farci riflettere su quanto cent’anni passati dalla Rivoluzione non possano essere interpretati come ottant’anni di parentesi e venti di riscatto.

 

Sì, non è una visione storica all’altezza dei nostri tempi. I nostri sono tempi confusi, caotici, ma abbiamo una capacità di lettura della storia basata su paradigmi molto consolidati. Però ogni generazione scrive la Storia e noi dobbiamo capirla partendo dal nostro presente, dal mondo in cui viviamo. E nel mondo in cui viviamo le tracce lasciate dall’esperienza comunista del ’17 sono visibili, anche nell’esperienza cinese. Poi qualcuno potrebbe obiettare che questo non è quello che volevano o immaginavano i bolscevichi. Ma questo lo sappiamo tutti: è l’eterogenesi dei fini, quello che i bolscevichi volevano fare non è quello che poi si sarebbe inverato. Ciò non toglie che poi, quello che hanno fatto ha avuto un decisivo impatto sugli eventi.