La sfida dello storico. Pensieri sulla querelle Angela-Della Loggia tra scienza e divulgazione

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Lorenzo Genovese, Bologna –

Di recente, il professor Ernesto Galli Della Loggia si è espresso sulle colonne del “Corriere Della Sera” in difesa della categoria degli storici, criticando l’eccessivo sensazionalismo con cui il noto divulgatore Alberto Angela avrebbe promosso la sua nuova collana di romanzi storici, intitolata Come Eravamo, edita in collaborazione con il quotidiano “La Repubblica”. Nell’intervista pubblicata sulla stessa testata in occasione del lancio del primo volume, Angela aveva esaltato il taglio socioculturale che caratterizzerà i venti libri previsti per la collana, il cui intento è quello di ridefinire i canoni della scrittura dei libri di storia, i quali, a suo modo di vedere, sarebbero eccessivamente nozionistici:

 

« Quando apriamo un libro di storia troviamo date, re, battaglie, imperi e poi basta. Sfugge completamente la realtà e cioè che la storia è fatta di piccole storie. In questa serie, ogni epoca la vedremo attraverso una famiglia: ogni volume racconta di un padre, una madre, di figli, zie, ed esplora la loro vita quotidiana, i cibi, le strade, i commerci, i modi di vestire, come un padre si rivolgeva ai figli, come avveniva un matrimonio. Non è quello che tutti vorremmo sapere?»

 

La tendenza auto-celebrativa con cui Angela descrive il lavoro di ricerca delle «piccole storie» da lui redatto, seppur funzionale a livello di marketing, rischia però di sminuire il lavoro compiuto da anni dagli storici nell’ambito della ricerca professionale. È proprio Ernesto Galli Della Loggia a ricordarci che:

 

«Sono decenni – almeno sette od otto ma forse di più, caro Angela – che gli storici di professione che proprio degli sciocchi non sono hanno avuto le sue stesse curiosità e si sono messi a fare ricerche e a scrivere libri per soddisfarle. Ha mai sentito parlare, tanto per dire, di storia sociale, delle Annales, di storia delle donne? Pensi che negli anni 80 del ’900 l’editore Einaudi varò addirittura una collana che s’intitolava «Microstorie» e che aveva proprio il taglio che lei auspica: raccontare il micro, storie minute di vita, per spiegare il macro. E guardi che da molto tempo perfino il più triviale manuale scolastico è pieno (pure troppo) di «Gli antichi romani a tavola», di «Come si viaggiava nel Medio Evo» de «La moda e la Rivoluzione francese».

 

L’opera di divulgazione compiuta da Angela, come ammesso dalla stesso Galli Della Loggia, ricopre in ogni caso un ruolo importante per la diffusione del sapere storico, poiché riesce a calamitare l’attenzione del grande pubblico generalista verso la storia. La possibilità di aver accesso ad un così ampio bacino di fruitori di un prodotto storico/culturale comporta però anche delle responsabilità nei confronti di come viene trattata la disciplina storica: non si può infatti sminuire a tal punto la cosiddetta storia politica – cioè i re, le battaglie e gli imperi tanto vituperati da Angela – poiché, pur presentandosi come una tematica poco appetibile per il grande pubblico, resta comunque un aspetto fondamentale per la comprensione delle dinamiche storiche di un determinato periodo. In secondo luogo, sarebbe opportuno non promuovere la propria opera di carattere storico presentandola come innovativa quando invece, come afferma Della Loggia, «si parla di cose da tempo acquisite al sapere dalla ricerca professionale»: un atteggiamento simile porta inevitabilmente ad una svalutazione del lavoro svolto dai ricercatori nell’ambito storico, danneggiando l’intera categoria a livello sociale e culturale.

Il professor Galli Della Loggia si esprime dunque in difesa della propria categoria, riaffermando il valore e l’importanza della ricerca storica: ma la divulgazione di massa, come può essere definita quella di Alberto Angela, rischia davvero di ridimensionare il lavoro di ricerca degli storici fino a farlo diventare solo pura erudizione? Per provare a dare una risposta per certi versi equilibrata – che non si limiti all’autopreservazione della categoria stessa – bisogna innanzitutto ricondurre le prospettive della ricerca storica alla loro propria dimensione di lavoro intellettuale.

Dare una definizione precisa del ruolo e della funzione sociale svolto dagli intellettuali non è mai stata un’impresa di facile riuscita: per profondità di analisi e argomentazione spiccano senza dubbio i contributi di Antonio Gramsci, in particolare alcuni paragrafi dei suoi Quaderni del Carcere in cui il tema centrale è la riflessione sugli intellettuali e l’organizzazione della cultura, inseriti successivamente proprio nella raccolta Gli Intellettuali e l’organizzazione della cultura, e più recentemente di Zygmunt Bauman, con la sua opera La Decadenza degli Intellettuali.

 

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Seppur distanti nel tempo e difformi nell’approccio, le considerazioni dei due autori- a cui andrebbe dedicato uno spazio apposito ma non è questa la sede per farlo- partono entrambe dal presupposto fondamentale che la definizione di intellettuale debba in qualche misura riferirsi ad un elevato grado di istruzione e di cultura. Bisogna ricordare che in passato la possibilità di aver accesso ad un istruzione superiore era riservata ad una porzione relativamente elitaria della popolazione e di conseguenza era più facile avere coscienza della propria appartenenza alla classe intellettuale, soprattutto tra coloro che orbitavano nell’ambiente accademico.

Nella società odierna, il possesso di un’istruzione superiore non è più considerata come elemento distintivo di appartenenza alla classe intellettuale: il termine intellettuale, piuttosto, appare svuotato della sua caratura originale, andando ad assumere sempre più una connotazione semi-dispregiativa di teorico improduttivo. Non basta più essere un intellettuale nel suo significato strettamente culturale; piuttosto è necessario che la propria produzione intellettuale raggiunga il maggior numero possibile di persone attraverso un utilizzo efficace dei mass media. Ciò avviene con grande intensità anche nell’ambito storiografico: secondo un’amara constatazione del professor Giovanni De Luna

 

«il lavoro degli storici è ormai pienamente coinvolto sulla scena mass mediale» con «l’obiettivo esplicito di incidere sulla formazione del senso comune attraverso la revisione del giudizio sui grandi eventi della contemporaneità».

 

La storia d’altronde sembra appartenere sempre meno agli storici: l’uso speculativo e strumentale della storia è un fenomeno che esiste da sempre, ma la recente “crescita intellettuale” di cui si parlava in precedenza, per via della sua natura quantitativa e non qualitativa, ha reso la disciplina storica un sapere ormai dato per scontato, alla mercé di chiunque. La svalutazione degli studi storici deriva da un uso pubblico della storia scorretto, poiché legato ad un paradigma di acquisizione della conoscenza del passato che si basa fondamentalmente su una lettura superficiale e acritica delle dinamiche storiche. Complice di questa situazione è anche l’atteggiamento di chiusura adottato negli ambienti accademici: molti studiosi “di categoria” hanno adottato una strategia estremamente difensiva, barricandosi nella proprie fortezze intellettuali iper-specialistiche ed ergendosi a unici custodi della verità del tempo. Il mancato adeguamento ai nuovi linguaggi e ai nuovi messaggi ha di fatto privato le scienze storiche del proprio carattere di comunicabilità: la storia si limita così a configurarsi come uno studio scientifico oggettivo basato sulla raccolta di dati e documenti e rivolto unicamente ad un pubblico ristretto di studiosi.

Se realmente lo storico, in qualità di intellettuale, vuole tornare a svolgere un ruolo attivo all’interno della società, dovrà farsi carico di guidare le persone verso una conoscenza storica più profonda che non solo metta in luce tutte le possibili interpretazioni di un evento o di un epoca, ma che dia anche spazio ad una visione critica del presente in relazione agli eventi passati. Se si scava oltre lo strato superficiale della concausalità degli eventi, ci si addentra nel significato più profondo della Storia: essa è l’ontologia dell’essere umano e lo storico diventa, in questo senso, la figura-tramite tra l’uomo e il suo essere presente-essere stato

Bisognerebbe, in conclusione, riconsiderare lo studio della storia nella sua complessità: l’eccessiva specializzazione può nuocere alla disciplina storica, spezzandone l’aspetto olistico che la contraddistingue e che la rende una dei pilastri della conoscenza umana. La storia deve essere sempre raccontata per ciò che vi è di più istruttivo sotto il trasparente velo degli avvenimenti: solo a questo punto, come afferma lo storiografo tedesco Johann Gatterer

 

«la storia sarà ciò che essa è raramente e ciò che dovrebbe sempre essere di diritto: una maestra del genere umano».

 

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