Prima di Piazza Fontana: come fu preparata una strage

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Veronica Bortolussi, Venezia –

 

«Dopo due mesi, nell’aprile del ’69 scoppiano questi due ordigni a Milano, alla Fiera campionaria e all’Ufficio cambi della Stazione. Il 25 aprile è una data importante perché segna la liberazione dal fascismo del nostro Paese. Sicché insieme ad altri compagni come me, giovani, ragazzi e ragazze, eravamo una quindicina, siamo andati a festeggiare fuori Livorno, in campagna, e lì abbiamo passato la giornata. Dopo due giorni, il 27 era domenica, c’era una riunione in Federazione e andai anch’io. Qualcuno mi avvisò che c’erano due della squadra politica che mi cercavano. Si vede che non mi trovarono, non so, io ero dentro. Torno a casa, mi metto al tavolino per pranzare, bussano alla porta ed erano questi due della politica che mi chiedono se ero disposto a seguirli, perché il questore mi doveva parlare. Io dico: è domenica, se non c’è proprio qualcosa di così urgente vengo domani. E loro: no, ma sa, se viene subito si leva il pensiero, cinque minuti. Son tornato a casa dopo due anni e un mese».

 

Così racconta Paolo Braschi, uno degli anarchici indagati per una serie di attentati tra i quali, soprattutto, quelli del 25 aprile 1969, alla Fiera campionaria e all’Ufficio cambi della Stazione di Milano. La sua è solo una delle testimonianze riportate nell’originale saggio di Paolo Morando, giornalista e vicecaporedattore del «Trentino», che nel suo Prima di piazza Fontana. La prova generale (Editori Laterza, Bari-Roma, 2019) affronta per la prima volta, in maniera sistematica e puntuale, la serie di attentati – più o meno dimostrativi – precedenti la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969.

Incrociando gli atti processuali conservati presso l’Archivio di Stato di Milano e le cronache quotidiane dell’epoca, oltre che la sterminata bibliografia esistente sull’argomento, Morando ricostruisce una vicenda spessa relegata a puro corollario nei volumi dedicati alla strategia della tensione ma, soprattutto, getta nuova luce su due attentati sconosciuti ai più e ai quali è dedicato un interessantissimo capitolo: quelli ai grandi magazzini Rinascente di Milano, avvenuti il 30 agosto e il 15 dicembre 1968.

 

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Questi e numerosi altri attentati verranno attribuiti dal commissario dell’Ufficio politico della Questura di Milano Luigi Calabresi e dal giudice istruttore Antonio Amati – unilateralmente e con indagini che definire raffazzonate sarebbe riduttivo – a un gruppo di simpatizzanti anarchici gravitante attorno al capoluogo lombardo e, in particolare, conoscenti dell’editore Giangiacomo Feltrinelli. Uno scenario e dei protagonisti che si ripresenteranno pochi mesi dopo, proprio in occasione della strage di piazza Fontana. Un caso? Difficile poterlo sostenere.

 

«Addossando questi attentati a noi, assieme a tutta l’altra serie, si creava il presupposto per poi addossare qualcosa di ben più grave», disse Paolo Braschi. «Valpreda venne a Milano perché era stato convocato appositamente dal giudice Amati […]. Fu come un tranello. Io ti faccio venire a Milano proprio nel giorno che scoppia la bomba. Te sei qui a Milano e noi ti si incrimina. […] Lui non aveva altri motivi per venire a Milano quel giorno lì. C’è da pensare che tutto sia avvenuto con una regia ben precisa».

 

Una regia che, però, sbagliò clamorosamente nella scelta dei suoi protagonisti, primo fra tutti il testimone chiave dell’accusa, la professoressa Rosemma Zublema, una donna psicologicamente instabile, invaghitasi di Braschi e la cui inaffidabile testimonianza fu usata per portare i giovani anarchici alla sbarra.

 

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Pietro Valpreda durante un’udienza sulla strage di Piazza Fontana

 

L’instancabile lavoro degli avvocati di Braschi e compagni, insieme all’onestà intellettuale del pubblico ministero Antonio Scopelliti, riuscirà a determinare le assoluzioni degli indagati mentre per la strage di piazza Fontana stava iniziando a emergere la responsabilità di una «pista nera», legata alla destra estremista.

La storia gli darà ragione. Le sentenze relative alla strage milanese, infatti, porteranno alla luce la reale matrice degli attentati, giungendo alla conclusione che gli attentati alla Fiera campionaria e all’Ufficio cambi della stazione di Milano, esattamente come le bombe sui treni dell’agosto del 1969 e l’eccidio di piazza Fontana, furono attuate e perpetrate dal gruppo padovano di Ordine nuovo, con la copertura dell’Ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno (da ora, UAaRr), già tra gli accusatori del gruppo di anarchici.

L’UAaRr, assurto da una certa vulgata a deus ex machina della cosiddetta «strategia della tensione», nelle persone di Umberto Federico D’Amato e Silvano Russomanno, verrà in seguito incastrato, oltre che dai documenti rinvenuti negli anni Novanta nell’ormai noto «archivio della via Appia», dalla significativa testimonianza di una delle sue fonti, «Turco», al secolo Gianni Casalini, infiltrato in Ordine nuovo, e alla cui collaborazione si mise rapidamente fine proprio quando cominciò a parlare degli attentati del 25 aprile 1969. Lapidario il commento, in merito, del magistrato Guido Salvini che lo interrogò a più riprese:

 

«Negli anni ’70 Casalini aveva già detto tutto anche nei particolari. E […] era stato impedito che tutto quanto aveva detto arrivasse all’Autorità giudiziaria, che proprio allora stava indagando su quegli attentati».

 

Una «prova generale», quella analizzata da Morando, destinata sì a ripetersi con la strage di piazza Fontana ma, grazie all’impegno di chi ha sempre cercato la verità, fortunatamente fallita.

 

Paolo Morando
Prima di piazza Fontana. La prova generale
Laterza, Bari-Roma, 2019
pp. 381