Perché non allora? Rivoluzione industriale in attesa

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Pietro Marchesi – Pavia

 

Perché la civiltà cittadina della Grecia e dell’Italia […] fu incapace di creare le condizioni che avrebbero potuto assicurare  al mondo antico un continuo e ininterrotto cammino in avanti lungo la medesima strada dell’incivilimento urbano? In altri termini, perché la civiltà moderna dovette costruirsi con penosa fatica come qualcosa di nuovo sulle rovine dell’antica anziché essere la continuazione di questa?

(M. ROSTOVZEV)

Perché non vi è stato un progresso lineare dal tempo di Adriano al ventesimo secolo ma abbiamo invece avuto la sequenza che ci è famigliare di decadenza, Medioevo e Rinascimento?

(F. W. WALBANK)

Le domande, di due eminenti storici del Novecento, ci presentano quella che è stata definita come una frattura o una biforcazione evolutiva della storia d’Europa; la netta separazione tra civiltà classica e Occidente moderno. Al posto di una continuità abbiamo avuto una caduta per tornare, solo dopo quindici secoli, ad un livello tecnologico e quantitativo non dissimile a quello raggiunto dalla romanità nel II secolo d.C..

In altre parole, perché la Rivoluzione industriale ha dovuto attendere il XVIII secolo e non vi è stata alcuna continuità con il mondo antico?

Nel II secolo d.C. l’Impero Romano era esteso su tre continenti: dall’Oceano Atlantico al Caucaso, dalla Britannia e dal Reno fino al Sahara con un immenso patrimonio di risorse naturali. La cultura accumulata dalle civiltà precedenti era conservata e studiata nelle centinaia di biblioteche sparse nelle città dell’Impero. Risorse, popolazione, cultura le condizioni c’erano tutte per un volo ma al suo posto si ebbe, invece, un arresto e la soglia di un’economia diversa non venne mai superata. La nostra civiltà è più figlia del crollo della civiltà romana che la sua prosecuzione diretta. Le città europee, anche se erette su base romana, sono figlie di un’altra cultura, di un’altra economia. Quelle che hanno plasmato il nostro mondo.

Le risposte alle domande sulla mancata continuità tra mondo antico e Occidente possono essere cercate nella società, nella cultura e nell’economia romane.

Una responsabilità può essere attribuita alla schiavitù che impediva quell’allargamento del mercato tanto caro agli economisti classici e conseguenza del lavoro salariato. Le immagini di Smith dove le mogli il sabato, giorno di paga, aspettano i mariti fuori dalle fabbriche per spendere quel denaro nei negozi aperti sino a tardi sarebbero state per sempre ignote al mondo romano. Solo il salario, infatti, dà a milioni di persone un potere d’acquisto; gli schiavi erano mantenuti dai padroni ma non ricevevano un vero salario che consentisse loro di acquistare beni.

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Alla schiavitù potrebbe essere fatto risalire anche il fallimento del macchinismo antico che grande sviluppo aveva avuto in età ellenistica. Si era venuto a creare, infatti, un circolo vizioso già oggetto delle riflessioni di Aristotele: non c’erano le macchine perché c’erano gli schiavi e c’erano gli schiavi proprio perché mancavano le macchine.

Un’altra causa del crollo può essere vista nella struttura sociale fondata sulla proprietà terriera come requisito primario per l’accesso alla rispettabilità e alle cariche pubbliche. Mercanti e banchieri diventavano accettabili alla classe dirigente solo quando, convertendo in terre i loro guadagni, vivevano delle rendite di queste, lontani da ogni preoccupazione materiale; l’otium.

Le parole di Cicerone nel De Officis sono illuminanti: degno di lode era il mercante, il banchiere che compiva quest’operazione. Nessuna lotta tra industriali da un lato e proprietari terrieri dall’altro come nell’Europa moderna; solo parvenus che cercavano di diventare rentiers e assicurarsi l’ingresso tra i ceti dirigenti.

Dalla schiavitù e dal predominio terriero sarebbero derivate, così, la noncuranza – quando non il disprezzo – per ogni attività pratica considerata indegna dell’uomo libero.

Ancora oggi ci stupiamo delle opere ingegneristiche romane ma conosciamo i nomi dei progettisti di ponti, terme, acquedotti? No, non ci è stato tramandato, non si riteneva utile farlo.

Da molte fonti emerge come la tecnologia fosse rispettata solo come produttrice di comodità (bagni, vetri, riscaldamento centrale) mentre la conoscenza del reale non era un compito attribuito alla scienza ma alla speculazione filosofica. La natura non andava studiata ma rispettata: tra uomo e natura v’era un equilibrio che andava comunque conservato.

Roma non giunse mai a concepire l’economia come un processo endogeno che si autoalimenta con l’allargamento del mercato al quale risponde l’incremento della produzione. La ricchezza non veniva prodotta all’interno ma ricavata dalle guerre di conquista, poi consumata in spese ostentative, oppure prendeva la strada dell’Oriente trasformandosi in profumi, spezie, animali, tessuti. Terminate le guerre il flusso di ricchezza s’esaurì e non fu più possibile riprodurla.  Anche l’archeologia non ha restituito nulla che si avvicini ad un’officina, a una fabbrica, o a un opificio sia pure paragonabili a quelli del XVIII secolo.

Nell’istruzione dei futuri membri della classe dirigente romana trovavano spazio la retorica, la dialettica, la grammatica ma non la scienza e neppure l’economia. Da Roma non ci è pervenuto nessun trattato, anche elementare, di economia, nessun prontuario di contabilità.

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La partita doppia, le società commerciali, gli strumenti del credito sono un’invenzione dei mercanti medievali così come la @ delle nostre mail.

Non dobbiamo però dimenticare che la stessa economia politica è una scienza nuova, nata – tra le altre cose – da una diversa valutazione del lavoro, del profitto, della produzione ed apparsa proprio quando l’innovazione tecnologica ed economica si legarono in modo tale da spezzare in due la storia rendendo improponibile un qualsiasi confronto con il passato.

Vi è dell’altro. Chiedersi il perché di un mancato percorso è forse frutto di un’idea lineare della storia, come se ad un passo debba obbligatoriamente seguirne un altro nella stessa direzione.

La storia è fatta anche di fratture; la Rivoluzione industriale non è stata il frutto di un destino ineluttabile, non era scritta nelle stelle, insomma poteva anche non avvenire e non vi è solo l’esempio di Roma. Altre civiltà giunsero nel passato ad un livello tecnico – economico simile a quello dell’Europa nel XVIII secolo ma quel passaggio non scattò.

Il progresso, è stato scritto, non è una legge di natura, ma un cammino difficile con possibilità di crolli e ritorni indietro. Quanto avvenuto alla civiltà romana dopo il massimo raggiunto nel II secolo d. C. lo dimostra.

Letture consigliate:

M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell’Impero Romano, La Nuova Italia, Firenze, 1953

F.W. Walbank, The Decline of the Roman Empire in the West, Cambridge University Press, London, 1953

J.M. Finley, L’economia degli antichi e dei moderni, Laterza, Roma – Bari, 1969

A. Schiavone, La storia spezzata. Roma antica e Occidente moderno, Laterza, Roma – Bari, 1995

A. Smith, La Ricchezza delle Nazioni, Newton Compton, Roma, 1997

L. Russo, La rivoluzione dimenticata, Feltrinelli, Milano, 1997

A. Koyre, Dal mondo del pressappoco all’Universo della precisione, Einaudi, Torino, 2000

F.L.A. Fisher, Storia d’Europa, Newton Compton, Roma, 1995

G. Galasso, Storia d’Europa, Laterza, Roma – Bari, 2019