Per una storia sociale della rivoluzione industriale

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Andrea Castelletto, Venezia –

La rivoluzione industriale è stata un avvenimento – o sarebbe meglio dire un processo – spartiacque nella storia europea e un fenomeno globale, per l’egemonia che ha esercitato sul resto del mondo. Oggi siamo spesso portati a vedere l’industrializzazione europea come un fatto storicamente inquadrato all’interno di una rigida linea cronologica, grazie alla quale possiamo affermare che in un dato momento è iniziata, in un atro si è conclusa e da quel punto in poi si può acriticamente parlare di «società industrializzata». Inoltre, il progresso storico-scientifico tardo ottocentesco ha molto spesso trasformato e acclamato gli effetti della rivoluzione industriale in successi dell’umanità. Quello che dovremmo chiederci è: riuscirono tutti a restare al passo con i tempi? Detto altrimenti, ogni gruppo sociale, a livello nazionale o cittadino, riuscì ad adattarsi, a cambiare insieme – e in sintonia – con la rapidità delle trasformazioni apportate da una rivoluzione tanto profonda come quella industriale?

Possibili risposte a queste domande possono essere, a mio avviso, ritrovate nelle pagine delle prime testimonianze coeve sulle condizioni in cui versavano le città industriali. Queste analisi sulle trasformazioni apportate dall’industrializzazione sono state formulate «in presa diretta» da alcuni acuti osservatori contemporanei. Non si tratta mai o quasi mai del lavoro di storici, sociologi o altri accademici: se si esclude il contributo dell’igienismo tardo ottocentesco, una branca del sapere che potremmo definire medico-sociologica, ma che rimase comunque marginale, la stragrande maggioranza degli studiosi europei dimostrò una particolare cecità di fronte alle trasformazioni che la propria quotidianità stava subendo. Per trovare le prime rappresentazioni di questa nuova realtà, come spesso accade, dobbiamo rivolgerci alla letteratura. Dalla Coketown inglese di Dickens alla Parigi divoratrice di uomini di Zola, passando per quello straordinario monumento letterario che sono I miserabili di Victor Hugo (1862), l’Europa industriale di metà Ottocento venne indagata, fotografata, descritta, compresa da alcuni fra i massimi scrittori dell’epoca.

 

 

Vorrei, quindi, concentrare l’attenzione su un’opera sui generis e abbastanza trascurata di Émile Zola: i Taccuini. Pubblicati per la prima volta in Francia soltanto nel 1986, essi non sono un romanzo né un’opera di fantasia, ma contengono gli appunti presi dall’autore sull’ambiente sociale nel quale avrebbe ambientato i suoi capolavori. Infatti, prima che la sua fantasia si avventurasse tra i meandri delle barriere parigine egli era solito condurre lunghe e accurate osservazioni dei luoghi, delle abitudini e dei mestieri fra i quali si sarebbero districate le trame dei suoi romanzi. Per comprendere appieno i ceti sociali di cui voleva scrivere, Zola era solito trascorrere giorni e notti intere, matita alla mano, passeggiando come un flâneur baudelairiano, pronto ad osservare i recessi più nascosti di Parigi e ad annotare tutto sul suo diario. Ed è certamente questa scrupolosa abitudine, unita ad una straordinaria capacità di osservazione, a rendere i suoi appunti così importanti per scrivere una storia sociale della Francia del Secondo Impero (1852-1870). Come un vero etnografo che raccolga le proprie osservazioni sul campo con spirito critico, nei Taccuini di Zola non c’è posto per giudizi di valore o considerazioni morali. I suoi appunti sono una serie di fotogrammi di un’ideale pellicola, girata senza tralasciare di riprendere alcun cortile, angolo buio o scorcio nascosto. Lo storico della letteratura Henri Mitterand ha scritto che, unendo gli appunti e i romanzi di Émile Zola, possiamo arrivare a “mette[re] insieme il materiale di una piccola enciclopedia della vita sociale nel Diciannovesimo secolo”.

Quasi sempre, la preferenza del nostro autore andava ai sobborghi operai, le zone di Parigi più adatte a studiare in itinere le velocissime trasformazioni che la città stava vivendo. Ma com’erano i quartieri popolari della Parigi industriale raccolti dalla penna di Zola? Sulle strade strette, solcate da “rigagnoli sempre traboccanti d’acqua saponosa”, si affacciavano botteghe buie. Una semplice acacia nata nell’interstizio fra due case appariva allo scrittore così straordinaria da descriverla come la “gioia della strada”. Nei sobborghi più esterni, attraverso i quali ogni notte i contadini arrancavano con i carri colmi di verdura diretti al mercato delle Halles, iniziavano allora a spuntare i primi immensi caseggiati di dieci o più piani che avrebbero costellato le periferie di tutte le grandi città. Erano i quartieri di nuova costruzione, sorti in prossimità delle porte di Parigi, costruiti in fretta per dare alloggio agli abitanti della città che cresceva a velocità inaudita. Fra queste strade sudicie e buie, bettole fumose dai soffitti bassi, case malconce e vite disperate Émile Zola ha ambientato i suoi capolavori. Limitandoci ai romanzi più noti, possiamo qui brevemente ricordare Il ventre di Parigi (1873) e L’Assommoir (1877).

 

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Ne Il ventre Zola ha esplorato i recessi più segreti, tratteggiando straordinari ritratti dell’umanità che viveva intorno al mercato delle Halles, gli immensi padiglioni di vetro e ghisa sorti sotto Napoleone III. Studiando giorno e notte queste imponenti costruzioni, senza trascurare di esplorarne le cantine o di lasciarsi ammutolire dalla visione su Parigi offerta dai loro tetti slanciati, Zola annotava sul suo diario che “si ha l’impressione di intravedere una grossa macchina, un ordigno ignoto e mostruoso” che scandendone il tempo quotidiano controllasse le vite di migliaia di persone. Mentre trascorreva la notte attendendo l’arrivo dei venditori, Zola si soffermava ad ammirare una “Parigi mostruosa presagita nel silenzio, nel vuoto, torreggiante […] in fondo alla fila regolare di luci”. Il silenzio notturno delle immense Halles è spezzato intorno alle due del mattino dall’arrivo delle prime vetture trainate da cavalli o da muli. La penna dello scrittore descrive con poche semplici pennellate la stanchezza cronica che affliggeva queste persone, per le quali il riposo era pressoché interamente concentrato nel tempo trascorso sui carri diretti nella capitale.

Un altro celeberrimo capolavoro parigino, ambientato questa volta fra gli operai, è L’Assommoir, la tragedia familiare di una lavandaia e di un carpentiere distrutti dai debiti e dall’alcol. Tra i romanzi che più di tutti hanno saputo immergersi – per dirla con Zola stesso – “nell’ambiente appestato dei nostri sobborghi”, L’Assommoir contiene già nel titolo la tragedia umana che racconta. L’ammazzatoio a cui fa riferimento infatti, non è il macello che si trovava in Rue de la Gotte-d’Or (la via racchiusa “fra un mattatoio e un ospedale” nella quale si svolge la vicenda), bensì l’omonima osteria gestita da père Colombe, famosa nel quartiere per la sua acquavite. Nelle celebri pagine ambientate nella bettola, Zola descrive lo sconcerto e l’angoscia con cui la giovane protagonista Gervaise Macquart osserva per la prima volta, attraverso i vetri opachi di sporcizia e “un vapore di alcol che sembrava gonfiare e ubriacare il pulviscolo ondeggiante nei raggi del sole”, l’alambicco che distilla la potente e mortifera acquavite per la quale gli uomini del quartiere spendono la paga quotidiana.

 

«L’alambicco […] aveva un aspetto cupo […]. Senza una fiamma, senza un guizzo di allegria nei riflessi spenti del rame, continuava sordamente a lavorare, lasciava colare il suo sudore di alcol, come una sorgente lenta e ostinata, che alla lunga doveva riversarsi nella sala, scorrere sui boulevards esterni, inondare la voragine immensa di Parigi.»

 

La macchina era una cosa viva, respirava, mormorava, ronfava e produceva i suoi effetti deleteri sulle famiglie del quartiere. Siamo lontani dalla visione idilliaca della macchina come bene assoluto: agli occhi dell’attonita ragazza a comporre il marchingegno era “un armamentario del diavolo”.

Il contrasto fra le botteghe del soffitto basso, le trattorie buie con tendine sudicie sui vetri opachi di sporcizia e le luminose sale da ballo che si affacciavano sui viali ampi e alberati della Parigi belle époque, la Parigi della Tour Eiffel e delle Esposizioni Universali (che Walter Benjamin avrebbe definito “luoghi di pellegrinaggio al feticcio merce”) non potrebbe essere più marcato. L’intelligenza di Zola riuscì già nel 1882 a cogliere come la merce straripante Al paradiso delle signore, nome di fantasia dato dall’autore a uno dei primi grandi magazzini, avrebbe preso il sopravvento sui prodotti artigianali venduti nelle botteghe di strada. Le righe dei Taccuini con cui concludeva le sue osservazioni sul nascente commercio di massa hanno un suono tristemente profetico: “il grande magazzino distruggerà il piccolo commercio”.

 

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Vediamo quindi  come una stessa città metteva a nudo senza veli la profondità delle contraddizioni insite nel progresso capitalista: Parigi era – citando nuovamente Walter Benjamin – la “capitale del lusso e delle mode”, ma conteneva al tempo stesso i sobborghi mefitici nei quali si moriva di tubercolosi e di fame. L’empatia di Benjamin e Zola è stata sempre rivolta a questi ultimi, ai vinti o ai “dannati” – come li avrebbe definiti il rivoluzionario Franz Fanon – della terra. E ad essi, auspicava Benjamin, avrebbe dovuto rivolgersi anche l’empatia degli storici. La storia deve essere scritta, sosteneva il filosofo nelle sue Tesi di filosofia della storia, dal punto di vista dei vinti. Il pericolo sempre in agguato a minacciare lo studio del passato, affermava nella sesta tesi, è che essa si riduca

 

a strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla”.

 

 

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“L’angelo della storia” di Benjamin, come è noto, vede, dove a noi “appare una catena di eventi, […] una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine”. Questa figura ultraterrena, ripresa dal dipinto Angelus Novus di Paul Klee, sta correndo verso una disastrosa tempesta, i cui venti sono così forti da impedirle di chiudere le ali. Ma in realtà nemmeno ci prova a frenare il suo folle volo perché non può accorgersi della direzione in cui sta andando: nella sua corsa l’angelo avanza di spalle con il volto rivolto all’indietro, alla distesa di macerie dalla quale il vento “che spira dal paradiso” non gli permette di distogliere lo sguardo. La caustica conclusione di Benjamin è che “ciò che chiamiamo il progresso è questa tempesta”.

LE LETTURE CONSIGLIATE:

  • W. Benjamin, I passages di Parigi, 2 voll., Einaudi, Torino, 2007;
  • W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, Mimesis, Milano, 2012;
  • E. Zola, Un’etnografia inedita della Francia, Bollati Boringhieri, Torino, 1987;
  • E. Zola, Al paradiso delle signore, Rizzoli, Milano, 2000;
  • E. Zola, L’Assommoir, Mondadori, Milano, 2010;
  • E. Zola, Il ventre di Parigi, Rizzoli, Milano, 2015.