Patrizi e Plebei: un’annosa questione romana

Giuseppe Barone – Roma

La tradizione storiografica ci ha consegnato l’immagine di un mondo romano contrassegnato dalla convivenza conflittuale tra patrizi e plebei. Gli elementi che le fonti ci forniscono non consentono, tuttavia, di definire con certezza l’origine di tale distinzione sociale.

Le testimonianze letterarie la fanno risalire già all’età monarchica. Dionigi di Alicarnasso (Antichità Romane II, 8, 1) narra, ad esempio, che fu Romolo, seguendo il modello ateniese, a suddividere la popolazione in questi due ordines, dividendo gli “insigni per virtù e ricchezze” dagli “oscuri, abietti e poveri”. Nel compimento di tale atto egli avrebbe compiuto un “beneficio” giacché le due parti, avendo ciascuna compiti diversi, dipendevano reciprocamente. Ai plebei, infatti, sarebbero state affidate l’agricoltura, la pastorizia e le attività commerciali, mentre ai patrizi le funzioni sacerdotali (il privilegio, cioè, di prendere gli auspici che giustificava l’accesso esclusivo da parte di tale gruppo alle magistrature del periodo repubblicano), l’amministrazione della giustizia, la possessio dell’ager pubblicus e le magistrature. Quest’ultimo diritto, tuttavia, risulta inspiegabile in età regia e trova una ragione unicamente se si tiene conto del carattere palesemente senatoriale dell’opera dello storico greco.

Non dissimile è il racconto liviano (Ab Urbe Condita I, 8), secondo il quale il fondatore di Roma avrebbe nominato cento senatori (patres) dai quali poi sarebbero discesi i patrizi. L’autore dà spiegazione anche del numero: esso fu determinato sia dal fatto che tale quantità fu ritenuta sufficiente sia dal fatto che non vi erano altri uomini ritenuti degni di ricoprire tale ruolo.

Non meno importante è quanto egli scrive in seguito, parlando di un’affluenza di maestranze etrusche a Roma in seguito alla politica di lavori pubblici adottata dai successori di Romolo, anch’essi etruschi: ad esse si deve, per citare un esempio, la costruzione delle fondazioni del tempio di Giove Capitolino. Tale testimonianza, confermata dai dati archeologici, ha indotto alcuni studiosi a ritenere che tale gruppo di manovali, unitamente ad elementi provenienti dalla clientela, abbia ingrossato un ipotetico nucleo originario della plebs.

Contrariamente a quanto sostenuto da Mommsen, è, tuttavia, da ritenersi erronea un’originaria identificazione tra clientes e plebei, benché le fonti, nello specifico Dionigi di Alicarnasso (Antichità Romane II,8, 1-2) e Cicerone (De re publica II,16), pongano l’accento sul rapporto tra le due categorie sociali. Esse, infatti, presentavano caratteristiche differenti: i clienti erano dei sottoposti all’interno della gens patrizia, i plebei dei sottoposti all’interno dello Stato (ciò spiega perché i clientes nel corso delle lotte di classe appoggiarono i patrizi e non la plebe); gli uni adoravano le singole divinità delle singole gentes a cui appartenevano (ad esempio, nel caso della gens Horatia, Iuno Sororia), gli altri avevano una religiosità unitaria incentrata sul culto della dea Cerere.

Altre teorie asseriscono che i patrizi, strutturati in families e gentes, costituissero originariamente la cavalleria reale: essi rappresenterebbero, dunque, un’aristocrazia di cavalieri divenuti poi grandi proprietari terrieri. A sostegno di tale ipotesi, non è irrilevante un dato: il loro abbigliamento, mantenuto ancora ai tempi di Cesare e costituito dall’anello d’oro (anulus aureus), dalla striscia di porpora sulla tunica (clavus), dal mantello corto (trabea), dal calzare alto a stivaletto con strisce di cuoio (calceus patricius) e dalle piastre rotonde ornamentali di metallo prezioso (phalerae), farebbe pensare all’originario equipaggiamento equestre.

I plebei, al contrario, non organizzati in clan, andrebbero identificati con i fanti. Se, però, inizialmente chi apparteneva a un’organizzazione gentilizia faceva parte automaticamente del patriziato, in seguito la situazione mutò: i gruppi gentilizi immigrati potevano, infatti, essere relegati nei ranghi plebei, pur avendo gli iura gentilitatis. Non mancarono, inoltre, casi di mobilità sociale verticale: poteva accadere, come nel caso della gens Marcia che fu declassata in seguito all’episodio del passaggio di Coriolano ai Volsci, di essere retrocessi nei ranghi plebei oppure, come avvenne ai Claudii Marcelli e a Clodio, di passare alla plebe in conseguenza dell’adrogatio, ossia l’adozione di un gruppo famigliare da parte di un famiglia plebea.

Alcuni studiosi, invece, prediligono una diversa identificazione: i patrizi sarebbero stati coloro che svolgevano attività militare e i plebei coloro i quali, essendo proletari, ne erano esentati.

Nel corso degli studi vi è stato anche chi non ha escluso che la distinzione abbia avuto alla base l’elemento etnico secondo due possibilità: dopo la caduta della monarchia, i nuclei famigliari etruschi (i patrizi), forti del loro monopolio del sapere religioso, avrebbero tentato di estromettere le famiglie latine dal potere; al contrario, secondo l’altra tesi antitetica, le famiglie latine (i patrizi) avrebbero avuto la meglio sotto il profilo economico e politico a scapito dei clan etruschi (i plebei).

In mezzo a tutti questi dubbi che rendono la quaestio tuttora aperta, un unico dato trova il consenso unanime degli storici: il censo non fu in esclusiva l’elemento discriminante tra i due ordini. All’interno della stessa composizione plebea, infatti, vi erano forti differenziazioni economiche. Il conflitto sociale, dunque, non ebbe motivazioni soltanto economiche, ma anche politiche.

Patrizi 1

Quasi totalitario è anche l’accordo degli studiosi su un altro elemento: lo scontro tra patrizi e plebei si radicalizzò nel V secolo a.C. allorché i plebei, essendo aumentato considerevolmente il loro impegno nel nuovo esercito, avanzarono delle rivendicazioni riguardanti l’abolizione del nexum (la schiavitù per debiti), l’equa spartizione dei bottini di guerra e l’accesso alle magistrature. All’inasprimento dei conflitti sociali contribuì, inoltre, la grave crisi economica causata dalla riduzione dei traffici commerciali.

La prima conquista plebea è datata 494 a. C., anno in cui Roma si trovava a far fronte all’incursione dei Volsci e dei Sabini. I plebei si ritirarono fuori dalle mura di Roma, applicando la strategia della secessione, sotto la guida, stando alla testimonianza liviana, di un certo Sicinio. Gli studi recenti tendono a considerare la figura di questo personaggio priva di storicità, trattandosi, secondi alcuni, di un’anticipazione di un Sicinio che ricoprì la carica di tribuno nel 76 a. C., secondo altri, di una confusione con Siccio Dentato, anch’egli tribuno.

Dionigi di Alicarnasso ci fornisce un’ulteriore indicazione: a capo della rivolta ci sarebbe stato anche Lucio Giunio Bruto. Anche l’identificazione di tale personaggio non è stata esente da discussioni: si tratta di un patrizio appartenente alla gens Iunia patrizia o di un plebeo? Tale atto non poté, comunque, non allarmare i patrizi giacché esso metteva a repentaglio la pax deorum, ossia il favore degli dei. Fu, così, inevitabile, l’invio da parte loro di un rappresentante, Menenio Agrippa, il quale pronunciò il noto apologo.

Ottenuto il diritto di riunirsi in un’assemblea chiamata concilium plebis, i rivoltosi rientrarono in città. Tale conquista non fu di poco conto, giacché tale organo eleggeva annualmente due edili, preposti alla manutenzione del tempio di Diana e del tempio di Cerere, Libero e Libera (entrambi situati sull’Aventino). Nominava  soprattutto due tribuni della plebe, i quali funsero da “magistrati-ponte” tra i due ordini. Essi, che godevano del privilegio dell’inviolabilità, prestavano assistenza giudiziaria ai plebei contro gli abusi dei magistrati patrizi e potevano opporre il veto alla deliberazione di un magistrato patrizio, rendendolo nulla. I Romani chiamavano questi due diritti ius auxilii e ius intercedendi.

Con il trascorrere del tempo, inoltre, i plebei incominciarono a spingere con insistenza per la codificazione del diritto, che ottennero tra il 451 e il 450 a. C. con le XII tavole.

Le letture consigliate:

G. Cresci Marrone- F. Rohr Vio-L.Calvelli, Roma antica: storia e documenti, Il Mulino, Bologna, 2014

G. Franciosi, Corso storico di diritto istituzionale romano, G. Giappichelli Editore, Torino, 2014

E. Gabba, Dionigi e la storia di Roma antica, EdiPuglia, Bari, 1996

E. Gabba, Roma arcaica: storia e storiografia, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 2000

M. Pani, La repubblica romana, Il Mulino, Bologna, 2010

G. Poma, Le secessioni della plebe (in particolare quella del 494-493 a.C.) nella storiografia, “Diritto e storia”, VII, 2008

E. Santamato, Dionigi politologo: ragionamenti politici e società augustea, LED, Milano, 2018

A. Ziólkowski, Storia di Roma, Paravia B. Mondadori Editori, Milano, 2000

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