Rileggendo “Patria” di Silvio Lanaro

Enrico Ruffino, Venezia –

Per la prima volta dopo tantissimi anni, un politico – e nella fattispecie il leader della Lega e Ministro dell’Interno Matteo Salvini – ha usato, seppur in modo ostativo e decisamente propagandistico, la parola “Patria”. Non si sentiva da un bel po’, questa espressione controversa. Fuoriuscita dal linguaggio politico-istituzionale italiano perché rappresentativa di un passato tenebroso, essa era assurta al rango di un vero e proprio tabù, mentre in altri Paesi, come la Francia, aveva assunto, e assume tutt’ora, un significato fondante e performativo nel linguaggio politico. Non una parola che evocava un passato di destra ma una parola che evoca sentimentalmente una comunità, un’intera nazione.

A sentire questa parola, un ragazzo della mia generazione – nato e cresciuto in Italia, senza patria e in periodo di piena globalizzazione – non può però che saltare in aria. Parola suggestiva, certo, ma in un certo senso “proibita” da un discorso pubblico fino a poco tempo fa imperante e che oggi, invece, ha mutato radicalmente il suo ordine. Insomma, potremmo parlare di uno scarto, di un qualcosa da tempo lasciato alle semantiche della maceria, che riaffiora dai meandri della mutazione politica per divenire nuovamente di attualità.

Lo straniamento percepito da chi scrive è infatti emblematico di un dirottamento, di un cambiamento d’ordine tanto repentino quanto efficace, ma in realtà stordente. Tanto più se anche i più “italo-centrici” tra gli storici ci hanno ricordato recentemente la difficoltà ad usare quella parola, a parlare di “Patria” senza essere soffocati dal significato pregnante e maligno che gli si era attribuito. Parlo di Mario Isnenghi in questo caso, che ricordava questa impossibilità a margine di un volume commemorativo nei confronti di un altro storico, Silvio Lanaro, che invece su quella parola aveva avuto il coraggio di tessere delle problematiche storiografiche, sfidando – e non senza conseguenze – quel sentire comune che imponeva la proibizione di stampo normativo della terminologia e quell’indifferenza storiografica sul tema dell’identità nazionale, considerata – per citare Alberto Mario Banti

 

un dato, una sorta di apriori dell’una o dell’altra costellazione politico culturale di ispirazione nazional-patriottica, più che come una dimensione analitica da esplorare”.

 

Proprio quel Lanaro che aveva iniziato a porre, in tempi non sospetti, la questione dell’identità non solo con il suo più famoso volume, Nazione e lavoro (Marsilio, 1979), in cui analizzava la costruzione della cultura borghese tra il 1870 e il 1925, ma anche con un volumetto edito da Einaudi dieci anni dopo (L’Italia nuova. Identità e sviluppo, 1988) in cui in maniera più ampia trattava del tema della coscienza nazionale italiana. Lavori che si tradussero in tanti elogi quante stroncature: quest’ultime tutte concordi nel vedere “un esercizio di virtuosismo e retorica storiografica” in tempi in cui le nazioni venivano considerate da gran parte della storiografia italiana dei “residui ottocenteschi, e che dunque occuparsi di storia – adoperando appunto la categoria di “nazione” – significa non capire nulla della modernizzazione, dello sviluppo economico, della sociabilità, della cultura di massa e quant’altro”; o nel rimproverare, come dimostrano le annotazioni di Alberto Asor Rosa su “Meridiana” (n.3,1988), di aver messo “in secondo piano quelli che, con un vecchio linguaggio, si potrebbero definire i grandi fenomeni strutturali, le modificazioni delle strutture di classe, delle strutture economiche, delle strutture sociali”. Sarebbero passati pochi anni e questo tipo di rifiuto si sarebbe paradossalmente trasformato in una sorta di imperativo, addirittura in un mainstream con quota di maggioranza nel mercato storiografico.

 

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Crollato il muro del socialismo reale a Berlino, l’emergere dei conflitti interetnici e di spinte etno nazionaliste – caratterizzate dall’esplosione dell’area balcanica e dall’acuirsi dei flussi migratori – provocò infatti una nuova ondata di studi sul nazionalismo e sull’identità. Fu il periodo di massima influenza dei saggi che, negli anni ’80, avevano aperto nel mondo anglosassone il varco agli studi sul nazionalismo. Non solo l’Invenzione della tradizione di Eric Hobsbawn e Terence Ranger (edizione originale: 1983; traduzione italiana, Einaudi 1987) ma anche le Comunità Immaginate di Benedict Anderson (1983, 1992 e finalmente nel 1996, con traduzione italiana da Manifesto Libri) in cui l’antropologo proponeva una interpretazione della Nazione come

 

“comunità politica immaginata,[…] immaginata in quanto gli abitanti della più piccola nazione non conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti, né li incontreranno, né ne sentiranno mai parlare, eppure nella mente di ognuno vive l’immagine del loro essere comunità”.

 

Autori e studi con cui Lanaro, a partire dagli anni ’90, iniziò un confronto serrato, non prima di essersi preso i meriti del precursore: se da un lato il bersaglio polemico contro cui lo storico veneto si scagliava era la predisposizione da parte di Hobsbawn  a “minimizzare l’attitudine alla “parola” tenendo in scarsissima considerazione la “gagliardia e la vitalità dei sentimenti di appartenenza, che spesso sono superiori a quelle del lealismo istituzionale” quando sosteneva che “non sono le nazioni a fare gli stati e a forgiare il nazionalismo, bensì il contrario”;  con Anderson si mostrò più incline ad emendare la sua definizione sostenendo che “la nazione vive sì nell’immaginario, perché la sua quidditas non scaturisce da nessuna pattuizione” a patto che il discorso interpretativo non si risolvesse in una considerazione immateriale della Nazione, poiché

 

essa reifica proiettivamente fattori materiali di aggregrazione, molto spesso antecedenti ad ogni regolamentazione da parte dello Stato”.

 

 

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Ma in un buona sostanza per Lanaro il “peccato originale”  della storiografia anglosassone era quello di faticare “non poco a rendere conto delle molteplicità all’interno dei confini dello stesso Paese”: studioso Veneto e del Veneto, che aveva visto nascere e crescere la Lega Nord nel suo oggetto di studio, polemizzando aspramente sui miti identitari padani e sulle apologie del “modello veneto”, lo storico dell’Università di Padova non poteva che essere più attento e più sensibile ai fattori micro-identitari all’interno di uno stesso Paese rispetto ai suoi colleghi anglosassoni. Una sensibilità derivata anche dalla sua opposizione al discorso leghista che – credo – possa ben spiegare la sua perplessità nei confronti dello scenario, allora “possibile”, di una “Europa delle regioni” per il quale

 

è lecito nutrire sospetto e scetticismo, perché è probabile che l’invocazione di crescenti franchigie, mascheri la rinascita di una mai spenta xenofobia dei “piccoli”.

 

Ricordando, infatti, che i “patriottismi locali hanno generato quasi sempre movimenti politici estranei alla cultura democratico liberalee che “la vocazione comunitaria delle regioni sembra ancora più tiepida e calcolatrice di quella degli Stati” non nasconde poi i possibili esiti di questa attitudine

 

che potrebbe rivelarsi poco più di un grimaldello buono per scassinare obbedienze avvertite come onerose oltre che per assicurare – alle area potenzialmente più ricche – lauti privilegi in campo economico”.

 

La tentazione forte, se non fosse ahinoi impossibile, sarebbe quella di chiedere a Lanaro, alla luce di questa sua preoccupazione, cosa ne pensasse della “autonomia regionale differenziata”, richiesta a gran voce da quelle aree “ricche” in virtù di un “merito” di crescita e buona gestione che si traduce immediatamente in uno sciovinismo identitario che affonda le sue radici nella mitologia della Serenissima. Ma potendo solo accontentarci di dialogare con i suoi testi, mi pare utile confrontarci con le riflessioni di uno storico che ha dedicato una “vita” storiografica all’Italia.

In fondo, Pensare la Nazione – come i suoi allievi e amici hanno intitolato il libro a lui dedicato per i 70 anni (Donzelli, 2012) – è stato il suo grande mantra storiografico. Patria – da cui sono tratte le precedenti citazioni – mi sembra il lavoro più esemplificativo di questo interesse: una vera e propria “circumnavigazione” – come recita il sottotitolo del volume – attorno l’emisfero pluri-concettuale che dà materia a questa idea controversa. Uno studio che, letto oggi, appare illuminante persino alla luce di una nuova emersione del termine e del riversamento concettuale dal “nazionalismo” al “sovranismo”. Il volume, con uno sguardo d’analisi rivolto alla Francia ma con il pensiero silenziosamente rivolto al nostro Paese, si muove infatti da quell’attenzione alla “parola” contestata a Hobsbawn, da quel “vocabolario nazionale” che Lanaro non smette di definire deciduo, cangiante e sfuggente, per questo difficile da afferrare se non a rischio di sovrastare le strutture di significato.

 

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In altre parole, Patria e Nazione non sono sinonimi, perché se la seconda “è la comunità politica che tramite apposite istituzioni organizza una popolazione insediata su un determinato territorio, tutelandola all’esterno e rappresentandone la proiezione “identitaria” in senso forte”, la prima è, anche e soprattutto, “un luogo principe dell’immaginario, dove simboli e miti garantiscono quell’autorappresentazione, senza la quale nessun gruppo sociale è in grado di vivere e sopravvivere”. Prima di giungere ad una “struttura” completa ed organizzata, la nazione la si deve pensare dandole struttura concettuale, un’aspirazione ad essere qualcosa, a rappresentarsi come elementi di una comunità che diventa quindi nazionale, come un noi che diventa un io collettivo. Il significato di Patria precede la Nazione perché, in un certo senso, la crea, diventando elemento imprescindibile della sua costruzione.

C’è in questa definizione sia Anderson (l’immaginazione) sia l’emendazione ad Anderson (la nazione) ma c’è anche un’attenzione morfologica ai concetti che, probabilmente, affonda le radici nel conto che il nostro storico aveva aperto con Foucault quando pubblicò il succitato Nazione e lavoro, facendolo partire con l’analisi dell’episteme liberale e proseguendo sulla scia di una sorta di genealogia della cultura borghese italiana dal 1870 al 1925. E in questo reticolo di debiti e rielaborazioni, di scavo critico e meticoloso, di dialettica serrata con gli studi e di confutazione attraverso le fonti, si rintracciano temi e problemi che, alla luce dell’attualità, dovrebbero indurre ad un uso più critico delle parole che utilizziamo. Non si tratta di far parlare oggi Silvio Lanaro, nemmeno di affermare che lo storico aveva ragione, ma di far attenzione alla lezione che la sua storiografia ci ha dato: mettere sotto esame critico il sentimento – decostruendone i significati, le parole per dirlo – tenendo presente che esso andrebbe poi fatto relazionare e dialogare con gli elementi materiali che produce.

 

La formazione di una coscienza nazionale segue percorsi, tormentosi, accidentati, labirintici e dipende in misura minima dal cosiddetto “nazionalismo”

 

ci dice ancora Lanaro ammonendo chi si adopera in sovrapposizioni di significati: ciò significa che la “Patria” non serba in sé quel sentimento di nefasta alterità che gli è stata attribuita dai traumi della guerra ma ha rappresentato, e rappresenta forse tutt’ora,“l’unico luogo di aggregazione morale, civile e spirituale in grado di garantire la pluralità delle esperienze esistenziali di cui oggi possono godere gli uomini”. Che non significa in alcun modo cedere e dare manforte alle spinte autoritarie, rifiutare la mobilità o l’accoglienza, chiudersi a riccio senza proporsi nel mondo ma semplicemente avere uno sguardo verso il futuro, verso l’utopia, verso il mondo senza negare un sentimento per il proprio Paese. Ridare immaginazione a quel bisogno di Patria che gli italiani stanno mostrando e che i populisti stanno capitalizzando. Riappropriarsi di un Paese che è nostro. Come scrisse Marc Bloch nel ’40:

 

non ho mai pensato che amare la Patria impedisca di amare i propri figli: né riesco a vedere come l’Internazionalismo spirituale o di classe sia inconciliabile col culto della Patria. […] E’ un cuore ben povero quello a cui è vietato racchiudere più di un affetto”.

 

Silvio Lanaro,
Patria. Circumnavigazione di un’idea controversa
Venezia, Marsilio, 1996
pp. 160