Dopo Parigi, Washington. La geopolitica del potere marittimo negli anni ‘20

trattato di washington, prima guerra mondiale, storia navale, storia diplomatica, novecento, disarmo, 1922

Stefano Grassia, Catania –

La conclusione del primo conflitto mondiale aveva messo fine alle corse agli armamenti navali, ma aveva anche lasciato a disposizione delle potenze vincitrici un arsenale bellico notevole e oneroso. La prospettiva di un disarmo coordinato a livello internazionale non fu solo un’opzione funzionale a garantire la pace, ma pure una necessità sul piano della sostenibilità economica, per liberare risorse che avrebbero finanziato il ripianamento dei debiti (contratti perlopiù verso gli Stati Uniti) e la spesa sociale, in drastico aumento.

Alla conferenza di Washington, tenutasi tra il 12 novembre del 1921 e il 6 febbraio 1922, presero parte Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, Francia e Italia; esclusi illustri furono la Repubblica di Weimar, ormai priva di flotta e giuridicamente interdetta a possederne una di rilievo, e l’Unione Sovietica, la cui esistenza era ancora lontana dall’essere riconosciuta diplomaticamente.

La conclusione dei lavori ebbe per esito la firma di alcuni trattati e di svariate risoluzioni, focalizzati su due ambiti tematici: Pacific Ocean and Far Eastern Questions, da un lato, e Limitation of Armaments, dall’altro, sul quale verterà la nostra analisi. Il principale scopo della Conferenza era, infatti, quello di interrompere i programmi di costruzioni navali in corso e di limitare quelli futuri, attuando una politica di parziale disarmo. Ne scaturì il “Trattato delle cinque potenze” (altrimenti noto come “Trattato di Washington”, siglato il 6 febbraio 1922), che comportò una rettifica formale dei rapporti di forza vigenti in ambito navale attraverso i suoi ventiquattro articoli, i cui elementi essenziali erano enunciati nel Chapter 1. La duplicità degli intenti prima accennati (mantenimento della pace e riduzione delle spese militari) fu resa esplicita nel preambolo, che ammetteva di volere contribuire «to the maintenance of the general peace, and to reduce the burdens of competition in armament».

 

ARTICLE IV: The total capital ship replacement tonnage of each of the Contracting Powers shall not exceed in standard displacement, for the United States, 525.000 tons (533.400 metric tons); for the British Empire, 525.000 tons (533.400 metric tons); for France, 175.000 tons (177.800 metric tons); for Italy, 175.000 tons (177.800 metric tons); for Japan, 315.000 tons (320.040 metric tons).

 

Il principio cardine dell’intero trattato era rappresentato dall’Articolo IV, che introduceva una nuova scala di rapporti di forza tra le varie potenze, stabilendo de facto un tonnellaggio massimo* per le singole nazioni in termini di navi capitali, all’epoca massima espressione della potenza marittima. Il trattato, al riguardo, asseriva che una nave andava considerata “capital ship” se possedeva almeno una di queste due caratteristiche: 1) dislocamento standard superiore a 10.000t; 2) calibro dei cannoni superiore ai 203mm.

La tavola 1 riporta i valori dell’Articolo IV e li integra con quelli dell’Articolo VII, nel quale si fissavano dei tetti massimi anche per la costruzione delle portaerei, all’epoca considerate ancora secondarie rispetto alle tradizionali corazzate monocalibro e definite “sperimentali” dall’Articolo VIII, fattore che indicava un’evidente stato d’incertezza sull’importanza strategica della nuova arma. Le somme complessive dei dislocamenti massimi rispettavano approssimativamente la seguente proporzione di forze fra le cinque potenze: 5-5-3-1.75-1.75, riformulando in tal modo la geopolitica del sea power.

L’accordo siglato imponeva inoltre l’interruzione delle costruzioni navali in corso o in programma (Articoli II e III) – fatte salve alcune eccezioni accuratamente stabilite e frutto di compromessi tra le diverse nazioni (che permisero un leggero scostamento iniziale rispetto ai valori fissati nell’Articolo IV) – e prescriveva che nessuna nave capitale imbarcasse cannoni di calibro superiore ai 406mm (Articolo VI). L’Articolo V precisava, poi, che le future navi capitali avrebbero dovuto dislocare non più di 35.000t, tenendo conto del dislocamento “standard” (o Washington displacement), corrispondente a quello dell’unità ultimata, completa di armamento, di munizioni e di ogni equipaggiamento e apparecchiatura, ma priva del carburante o delle riserve d’acqua da imbarcare (Part 4 – Definitions).

La seconda sezione del trattato (Chapter 2), intitolata Rules relating to the execution of the treaty, era sostanzialmente un’appendice, che specificava quali navi capitali potessero permanere in servizio nelle Marine delle potenze contraenti (Part 1) e quali invece ne sarebbero state escluse, con annesse le modalità della loro demolizione (Part 2). Un piano pluriennale regolava, peraltro, anche tempi e norme d’acquisizione del nuovo tonnellaggio, inteso nella forma di un replenishing, cioè di un rimpiazzo delle unità divenute obsolete. In ogni caso, ciascuna nazione era tenuta a rispettare una pausa dalla durata di dieci anni, ad eccezione di Francia e Italia che avrebbero potuto avviare nuove costruzioni già nel 1927 e nel 1929 (Part 3). A queste ultime era anche consentito il potenziamento delle unità in servizio, poiché le loro flotte erano le uniche prive di moderne navi “post-Jutland” (successive, dunque, al 1916). Infine, gli ultimi articoli dell’accordo (Chapter III) davano disposizioni sull’applicazione dello stesso e sulle modalità di rinnovo al termine della sua scadenza naturale (31 dicembre 1936).

Il trattato di Washington, avvantaggiando le flotte più moderne a scapito delle più numerose, comportò in primis un notevole ridimensionamento della Royal Navy, che nel 1919 poteva allineare 44 dreadnought contro le 17 statunitensi, le 9 giapponesi, le 7 francesi e le 5 italiane. La tradizionale egemonia marittima britannica sarebbe stata comunque destinata a venire meno: le allocazioni navali disposte dal Tesoro, pari a 356 milioni di sterline nel periodo 1918-1919, scesero infatti a 118 milioni per il 1919-1920 e a 56 milioni nel 1922. Pertanto, l’iniziativa statunitense fu accolta favorevolmente dai politici britannici, consapevoli che entro il 1924 il completamento dei programmi allora in atto e i tagli alla Royal Navy previsti avrebbero in ogni caso ristabilito la parità numerica con gli USA.

Una fotografia scattata durante la battaglia dello Jutland nel maggio-giugno 1916

Si spiega, in tal modo, il consenso inglese al disarmo, che d’altro canto ben s’adattava alle esigenze statunitensi, sintetizzate nel principio del possedere una flotta “second to none” e nell’opportunità di neutralizzare l’alleanza anglo-giapponese nel Pacifico. Proprio in questo teatro il Giappone riuscì a soddisfare le proprie ambizioni egemoniche e giocare un ruolo di primo piano, sebbene senza centrare l’obiettivo di un rapporto numerico più favorevole (si puntava a un 10:7 rispetto agli USA). Del tutto differenti furono i risultati strategici conseguiti delle altre due potenze coinvolte. La missione italiana ottenne in effetti un notevole successo diplomatico, assicurandosi una teorica parità rispetto alla Francia, che di conseguenza ne uscì politicamente umiliata.

La conferenza di Washington raggiunse così l’obiettivo di stabilizzare, nel cruciale decennio post-bellico, la situazione navale internazionale. È interessante notare che nessuna intesa vincolante fu invece raggiunta sulla costruzione di naviglio minore, sebbene alcuni articoli prevedessero dei limiti impliciti (è il caso dell’Articolo XI e del XII, che proibivano l’utilizzo di artiglierie dal calibro superiore ai 203mm riservandole alle sole navi capitali e imponevano un dislocamento pari o inferiore alle 10.000t). Soprattutto, nessun limite fu imposto ai sommergibili, che erano stati i protagonisti dei successi tedeschi nella Prima Battaglia dell’Atlantico e che avrebbero condizionato l’esercizio del potere marittimo anche nel secondo conflitto mondiale.

* L’unità di misura per il tonnellaggio adottata durante la conferenza fu il “long ton”, equivalente a circa 1.016Kg (a differenza del “metric ton” corrispondente a 1.000Kg). Per comodità, i dislocamenti sono comunque stati indicati come se fossero in tonnellate (t) e non in long ton.

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