La lunga eclissi della sinistra: Achille Occhetto e la dottrina dei due campi

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Caterina Mongardini, Venezia –

La dottrina dei due campi, delle sfere d’influenza divise e contrapposte: è questo, secondo Achille Occhetto, il cancro che ha divorato dall’interno il comunismo. Il tradimento dell’internazionalismo a vantaggio del socialismo in un solo paese che, come ben sapevano i vertici delle forze politiche più importanti, non avrebbe potuto essere l’Italia o qualsiasi altro stato al di qua del Muro. La cortina di ferro che divideva in due l’Europa, dunque, era il simbolo di questo male. Ma scavando a fondo nella cultura progressista facente riferimento al PCI, si nota che anche gli intellettuali erano, a loro volta, “dimidiati” – come ebbe a dire Italo Calvino – da una politica che li voleva militanti e un’etica civile che aveva difficoltà a scendere a patti con la militanza.

Dai vertici del Partito, alle sue propaggini culturali, la sinistra era divisa in due. “Tale doppia coscienza – scrive Occhetto – dopo la guerra, ha coinvolto la migliore intellighenzia in Europa”. Calvino, nel Barone Rampante cercò di esprimere l’anelito all’interezza, alla ricomposizione delle due metà: non visse abbastanza da veder cadere il simbolo di questo dimezzamento – il Muro di Berlino – ma, probabilmente, dopo l’esultanza del momento, non avrebbe potuto rallegrarsi.

Per constatare e analizzare La lunga eclissi della sinistra, per parafrasare il felice titolo del volume di Achille Occhetto (Sellerio, 2018), occorre partire anche dal riconoscere che, dopo il 1989, dopo che il muro fisico e morale che divideva il socialismo cadde, non vi fu una ricomposizione. Due metà, divise per troppo tempo, si guardavano vicendevolmente senza riconoscersi. E la sinistra non si riconobbe più: paradossalmente era stata più unita, quando il mondo era diviso.

 

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Il primo atto della tragedia si consumò nel 1956, durante la crisi ungherese, quando “si determinò […] una lacerazione tra verità e rivoluzione, che influì non poco sulla nostra formazione e sulla storia complessiva del PCI.” In quel frangente affiorarono le contraddizioni più profonde che avrebbero allontanato il PSI dal PCI e lacerato la sinistra dall’interno, a cominciare dalla recidiva, e già lesiva, divisione tra comunismo e socialdemocrazia: la politica di repressione, attribuita a Stalin, aveva avuto la meglio sulle proteste di operai e studenti – compagni – ungheresi, a discapito del processo di destalinizzazione che, con i suoi limiti, era sembrato lo spiraglio attraverso il quale incanalare i propri dubbi e i propri dissidi.

Nonostante lo shock, i comunisti in Occidente avevano cercato di superare lo scoglio dell’accettazione di un passato nascosto dal determinante e virtuoso antifascismo; ma c’era, secondo Occhetto, un impedimento di fondo, costituito dalla scelta di Togliatti – consumatasi durante la guerra – di aderire alla “politica di potenza” di Stalin, tradendo l’anelito gramsciano all’ “egemonia culturale”. L’elaborazione, in quell’anno terribile, avrebbe potuto rappresentare un drastico intervento genetico, la ricombinazione dell’elica del DNA comunista apertasi per un attimo all’intervento della morale. Un’occasione mancata? Probabilmente sì, ma il Partito di massa come avrebbe reagito ad una autocritica dei vertici?

Se consideriamo con accorto interesse la scelta di autocritica che alcuni esponenti del PCI hanno avuto il coraggio di fare, con riflessioni dall’alto profilo filosofico e politico, dall’altra parte, però, sorge spontaneo il dubbio su quale esito avrebbe avuto sulle masse, nel ’56 – come in qualsiasi momento successivo – un cambio di passo così repentino. Se consideriamo il PCI nella sua interezza, è possibile ritrovare nelle sue regole, nelle sue tradizioni, nella propaganda di sé, i caratteri antropologici di una comunità compiutamente organizzata. Ha i suoi miti: l’antifascismo, l’Urss, il socialismo reale; i suoi riti: i Congressi (provinciali, regionali, nazionali, ecc…), le manifestazioni e gli scioperi in cui si amalgamano le storie individuali di tutti; un proprio meccanismo di autorappresentazione che funge, allo stesso tempo, da didattica per le masse e da tradizione locale espressa dalle masse. Il crollo di una di queste componenti avrebbe potuto mettere a repentaglio la comunità-Partito: per questo motivo, chi provava in buona fede a riformare e a protestare veniva espulso. Era un meccanismo di autodifesa, abituati come erano ad essere assediati dalle forze capitaliste e dal “terrore bianco”. C’era, dunque, la reale possibilità di un’autocritica che non venisse vissuta dalla base come tradimento o violenza, o peggio, come “deriva intellettualistica” (tendenza, per altro, a Occhetto spesso imputata)?

 

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Achille Occhetto oggi

 

In queste memorie l’ideatore della svolta della Bolognina ricorda come, nel fermento di quegli anni, lui fosse estremamente combattuto sulla posizione da prendere. Ricorda lo sbandamento, la volontà di critica nei confronti dell’intervento in Ungheria che lo animava e che lo spinse a scrivere articoli che si fecero apprezzare, ma che gli attirarono la disapprovazione di molti. Questo suo muoversi apparentemente con agio tra le pieghe della doppiezza comunista ha fatto di lui sicuramente un ottimo mediatore: ruolo che, anche in questo libro, non manca di riemergere.

Scomparse le sfere di influenza, su cosa si doveva concentrare la sinistra italiana e – in modo più urgente – il PCI, rimasto solo, isolato da un PSI che si proponeva come incorrotto dalle influenze sovietiche? C’è stato un totale spaesamento imputabile, secondo il nostro autore, da una parte alla “volatilità della cultura e dell’identità comunista” all’indomani del tradimento di Gramsci, e dall’altra all’incapacità di gestire e comprendere appieno l’inaspettata apertura del fronte della contestazione giovanile sessantottina che, con le nuove istanze femministe ed ecologiste, che erano controtendenza rispetto ad alcuni capisaldi della cultura di sinistra novecentesca,

 

« […] si scagliò improvvisamente contro il capitalismo e nello stesso tempo contro l’ortodossia marxista-leninista-stalinista. Non a caso il comune denominatore del movimento fu una miscela di anti-autoritarismo libertario e di anti-imperialismo che colpiva a carambola “il potere”, ad Est come ad Ovest.»

 

C’è stato un momento, forse, in cui il crollo del Muro apparve come una liberazione: la politica di potenza, collassata su se stessa, avrebbe potuto lasciare il posto a quell’internazionalismo, libero da barriere, sulle cui ali si sarebbe potuto rimettere in moto l’afflato umanitario del socialismo. Ma, nella visione di Occhetto – da tempo vicino ai vertici del Partito – la situazione era già apocalittica.

 

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Altro che improvviso crollo dell’89!”. Alla fine degli anni Settanta si era consumato un furto, un’appropriazione indebita da parte dell’Occidente, che avrebbe privato di forza propulsiva un internazionalismo ormai riciclato. La globalizzazione e le politiche transnazionali messe in atto dal capitalismo avevano preso il posto dell’internazionalismo, esportando sì il benessere e l’american way of life, ma non l’umanitarismo o l’uguaglianza, relegate, ormai sul fondo del vaso ideologico comunista ancora riempito dell’humus politico sovietico. Occhetto, nel descrivere questo fenomeno, parla di “chiasmo”: una figura retorica che rende molto bene il processo di slittamento delle parti che si innescò, ma che rischia di far slittare anche l’argomento sull’Occidente come aggressore o come campione della libertà; un rischio che è bene evitare se si sta parlando della crisi della sinistra, ossia dell’analisi di quanto siano state scarse le capacità di rivalsa culturale su posizioni ideologiche arroccate su loro stesse, fedeli alla scelta di campo operata quarant’anni prima.

Si può concordare con l’autore, da questo punto di vista: l’incapacità della cultura “di sinistra” a dare una risposta pratica allo sbandamento ideologico è stata evidente. Ma è altrettanto giusto, ci si potrebbe chiedere, etichettare come “assurda pretesa” l’ottimismo dei comunisti italiani che, fino al grande crollo, continuarono a considerare la propria condizione

 

non destinata a subire il contraccolpo del crollo di un mondo con il quale si era nati e di cui si era stati partecipi, sia nei numerosi momenti di subordinazione sia in quelli di coraggiosa e lungimirante rivendicazione della propria autonomia”?

 

Forse chi come lui era ai vertici, dall’alto, poteva avere la percezione che “il sol dell’avvenire” sarebbe sorto su ben altre speranze ad illuminare un futuro ben diverso da quello messianico prospettato dal socialismo; ma alla base, per ritornare su questo gap decisivo, come si poteva immaginare il crollo – e le sue modalità – del mondo così come era stato conosciuto fino a quel momento? Ma soprattutto, l’estinguersi dell’ideologia con la quale si era vissuto ed interpretato quel mondo? A posteriori, forse, si può riconoscere l’ingenuità, ma non apostrofare così la fede in un’idea: un cristiano non accetterebbe mai il pensiero che la fine dei tempi e il Giudizio Universale siano destinati a non realizzarsi.

Achille Occhetto afferma di essersi trovato – all’altezza degli anni ’90 – davanti alla difficile constatazione che ciò che differenziava le rivendicazioni del PCI da quelle di un qualsiasi altro partito socialdemocratico era, fondamentalmente, la stella politica alla quale facevano riferimento: quella rossa sovietica. Ma, continua più oltre, la “vera mancanza di cultura politica” ebbe come nido preparatore la mancata critica all’escatologia socialista: critica che gli autori della svolta ebbero il coraggio di fare perché ormai “diversi”. E proprio della diversità Occhetto si fa paladino, difendendo la svolta della Bolognina, rigettando le parole infamanti che si è sentito attribuire, ma sottolineando la scelta democratica di un intero Partito di Massa di convertirsi in qualcosa di altro, ma simile. Perché, spiega: come fa un solo uomo a decidere di “liquidare” un Partito? Domanda retorica a cui si risponde con la partecipazione democratica.

 

 

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Ma in quel novembre 1989, nel pieno degli anni del riflusso, quando l’individualità prendeva il sopravvento sulla partecipazione civile, quali potevano essere le reazioni disperate ad un processo svoltosi nell’arco di tre anni cruciali, caratterizzati dalla presenza di vertici e rappresentanti di un’etica politica in declino e dall’estinzione della “stella rossa” di riferimento? Potevano essere quelle dei conservatori, si potrebbe dire: ma quale forza potevano avere da un lato i rappresentanti di un passato additato come colpevole dell’accettazione della teoria dei due campi, e dall’altro i veri traditi, i militanti più semplici e accaniti che d’improvviso vengono lasciati a loro stessi dalla presa di posizione dei “nuovi diversi”. Come spiegare ad un militante che da quarant’anni crede nell’ideologia comunista che questa è stata tutta una grande bugia, che la bandiera rossa non trionferà e che il sol dell’avvenire è sorto una volta, con l’antifascismo, ma che non sorgerà più? Annichiliti, gli uni e gli altri, che reazione avrebbero potuto avere?

La difesa a spada tratta del processo di cui Occhetto si è fatto rappresentante lancia non poche ombre sulle considerazioni che si potrebbero fare sul presente. Nell’evidenziare il processo disgregatore in atto alla fine degli anni Ottanta, c’è stato il merito di voler trovare anche nel proprio passato i germi di una degenerazione che ha dato i suoi risultati più venefici nell’oppressione dei paesi oltre cortina; ma se con lo stesso procedimento, cioè nel rintracciare una deviazione a priori, l’autore non mette sotto la lente di ingrandimento anche il suo gruppo di rinnovatori, dai quali – per sue stesse convinzioni – partì il “nuovo corso” della politica italiana, allora il filo logico-metodologico che lo ha guidato per gran parte del libro si sfilaccia, marginalizzando le proprie responsabilità.

Il Partito Democratico della Sinistra, la cui gestazione durò tre anni, non beneficiò della sorpresa e dell’attesa riservata ad un nascituro; sembrò, piuttosto, il frutto maledetto di un’unione frettolosa tra le istanze riformatrici e il crollo dell’Unione sovietica. La sensazione che il PDS fosse una ristrutturazione di facciata per salvarsi dal proprio passato, rigirava il coltello nella piaga della mancanza di una elaborazione culturale alternativa originale. Il richiamo all’esperienza antifascista come tradizione originale della sinistra italiana ebbe il merito di pescare il meglio della e nella sinistra italiana; dall’altra aprì le forze (ex) comuniste al dialogo e ai presupposti per una comunanza con le altre forze di sinistra, sulle quali però – pochissimo tempo dopo – si abbatté la scure della magistratura. Il neonato PDS sì trovò di nuovo isolato dall’insorgere della “questione morale” e si avvalse del suo diritto all’alterità, ma ormai il terreno politico era stato contaminato. Nonostante Occhetto sostenga che la sinistra dopo Tangentopoli, nonostante Berlusconi, fosse ancora in piedi, non si può dire altrettanto della cultura di sinistra da lui tanto vagheggiata. Lo scontro post-Mani Pulite si concentrò sulla gara a chi fosse più “puro”, a chi avesse meno a che fare con i vecchi Partiti: non fu una battaglia culturale, ma politica. “A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro… che ti epura”, diceva Pietro Nenni.

Una battaglia talmente aspra ed esclusiva a cui la sinistra che abbiamo conosciuto in questi ultimi tempi non ha potuto non aderire per una questione di sopravvivenza, legittimando i propri gesti – anche quelli meno edificanti, ma frutto di questa aggressione violenta di contrapposizione e della scarsa cultura identitaria sfaldatasi anni or sono – con il manto dell’antifascismo e dell’umanitarismo, svuotandoli del significato militante e prendendone solo le manifestazioni più esteriori. Delegittimandoli e svilendoli.

La cultura di sinistra si sfaldò certamente sotto i colpi inferti a Gramsci, ma non fu con la svolta della Bolognina che rinacque dalle sue ceneri, nonostante la naturale, encomiabile ma forse esagerata difesa del proprio operato da parte del nostro autore. La cultura di sinistra, in politica, non è mai più rientrata da allora, e proprio a causa dell’insignificanza politica ma soprattutto culturale dei suoi rappresentanti.

Achille Occhetto
La lunga eclissi. Passato e Presente del dramma della sinistra
Palermo, Sellerio, 2018
pp. 230