In limine: l’immagine del ‘muro’ nella poesia di Eugenio Montale

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Francesco Bastianon, Venezia –

In limine. Sulla soglia. Inizia su un confine il cammino poetico di Eugenio Montale. Un muro si staglia sin dalla prima lirica di fronte a chi accede alla poesia degli Ossi di seppia, una costruzione che, quanto più si procede addentro al cuore della raccolta, tanto più la si percepisce incombente – almeno sino alla metà dell’opera. Il lettore ha sempre la sensazione, nel leggere gli Ossi, di trovarsi in una paradossale stasi e che il poeta non lo conduca mai al di là de “l’erto muro”, ma che lo accompagni mantenendosi sempre nella dimensione citeriore. Montale sembra indurre il lettore a sperare in un superamento del limen; ben più convincente – e convinto – appare, invece, quando ammette l’inviolabilità – per sé solo? – del confine. Già nel primo componimento degli Ossi, sulla speranza di un miracolo che apra una breccia in questa muraglia, grava l’imbarazzante e imbarazzata immobilità del poeta che può solo affondare negli intrecci di memorie passate che giacciono al di qua del confine. Un muro, dunque, si erge, lucidamente definito dai critici del poeta ligure come “separazione (invalicabile) da zone edeniche, ovvero da una condizione finalmente felice” – così Alberto Casadei nella sua monografia su Montale -, concreto simbolo che si realizza in una delle immagini più efficaci del ricchissimo paesaggio dipinto dal verso dell’autore ligure, un ostacolo frapposto tra l’io poetico e la sua felicità nel quale vengono ipostatizzate situazioni di prigionia di varia natura – personale, socio-politica, esistenziale, metafisica.

Questa ipostasi tesse, sull’ordito paesaggistico, un filo conduttore interessante che collega i diversi componimenti degli Ossi di seppia. Le occorrenze di “muro” o di lessemi affini (come, ad esempio, “muraglia”) si registrano in poesie collocate, infatti, in posizioni sensibili, “strategiche” della raccolta.

Dopo In limine, è Fuscello teso dal muro… – composto nel 1926 – a rievocare, fin dal primo verso, questa immagine topica. Testo aggiunto alla seconda edizione degli Ossi di seppia, Fuscello teso dal muro… viene inserito da Montale appena prima della sezione eponima della raccolta, laddove, dunque, una tale lirica lasci presagire un evento eccezionale, delineato e preannunciato, del resto, dall’ambientazione, preparatoria al fulgore panico del mezzodì, nelle zone liminari del giorno – la sera della prima strofa e la mattina della seconda – e dallo stesso “miracolo” occorso al ramoscello – un velo che vi resta impigliato – che, altrimenti, proietta la sua ombra “sul tonaco/che imbeve la luce d’accesi/riflessi” – come, peraltro, “l’uomo che se ne va sicuro,/agli altri ed a se stesso amico” di Non chiederci la parola…, la cui ombra la canicola “stampa sopra uno scalcinato muro”.

 

È proprio Non chiederci la parola… il testo che, nella raccolta, segue Fuscello teso dal muro… e apre la sezione degli Ossi di seppia. La posizione iniziale ne sancisce l’importanza dal punto di vista programmatico e, in questa dichiarazione di poetica, Montale, infatti, si interroga sul tipo di poesia da adottare per proporre quel superamento del confine teorizzato e auspicato sinora soltanto per il “tu” di In limine; ma, nella seconda strofa, il poeta sembra sospirare con costernazione per coloro che, ignari, non si curano di quel muro che incombe, muto, sulle loro esistenze, privandole della libertà di oltrepassarlo.

Subito dopo, un ulteriore connotato viene conferito a questa immagine dalla struttura circolare e ricorsiva di Meriggiare pallido e assorto, secondo testo della sezione degli Ossi. Qui, la barriera metafisica si incarna nel “muro d’orto”, arroventato dal meriggio estivo e nella “muraglia/che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia” – cocci che rendono il confine insuperabile e invincibili l’isolamento individuale e la prigionia esistenziale. Nel mezzo tra queste due occorrenze del muro, sta tutta una serie di osservazioni riportate in uno stile nominale che, pur a fatica, il poeta ancora non riesce a ricondurre ad un ordine universale: dunque, la “muraglia”, infine, ribadisce questa limitatezza.

Conclusa questa “trilogia del muro”, esso riappare più oltre, in Gloria del disteso mezzogiorno…, testo definito da Montale in una lettera ad Angelo Barile del 12 agosto 1924 come “il migliore per me, l’unico anzi che mi piaccia davvero”. È nel momento – glorioso – in cui la pienezza luminosa dell’ora meridiana irrora, attorno, le forme fino a far perdere loro concretezza che il miracolo – intensamente atteso in questa lirica -, paradossalmente, si fa più concreto; ma anche qui, “l’ora più bella è al di là del muretto/che rinchiude in un occaso scialbato”.

È nell’ultimo testo della sezione degli Ossi di seppia che ricorre per l’ultima volta il muro. Terminata la canicola opprimente del mezzogiorno, esso si erge contro il tramonto e proietta la sua ombra sui “sedili rari”, chiudendo all’io poetico la vista della volta celeste nella sua completezza: pur nella consapevolezza che, assieme a tutto il resto, l’indomani riapparirà anche “la muraglia” e nel ricordo dell’abbacinante ora del meriggio, nell’attesa delle mattine a venire, “ancorate come barche in rada”, è riposta la speranza di fuga dallo sbarramento esistenziale e individuale dell’io poetico, che si volgerà, invece, nella successiva sezione, Mediterraneo, verso le immensità del mare.

La lettura di questo ridotto gruppo di liriche traccia un percorso interpretativo che si dipana in una duplice direzione: l’ostacolo costituito dal muro, insormontabile – almeno per il poeta -, lo induce a concentrarsi sull’unica gioia possibile, ovverosia l’attesa speranzosa di un miracolo che rompa la catena delle necessità – così in Fuscello teso dal muro… e Gloria del disteso mezzogiorno… -, almeno a vantaggio di qualcun altro – come nel caso di In limine -, se non di se stesso; mentre la constatazione dell’impasse, dell’immobilità che deriva da questa condizione di sbarramento lo costringe ad una sofferta valutazione del fine del suo far poesia – si legga Non chiederci la parola… o Meriggiare pallido e assorto… -, che non trae, come si potrebbe scontatamente sperare, la felice e consolante conclusione del superamento della barriera. In Sul muro grafito… entrambe queste linee sembrano trovare un punto d’incrocio – nell’ammissione dell’inevitabilità di un’esistenza contro cui, ripetitivamente, il poeta è costretto a sbattere e nelle frantumate aspettazioni della rivelazione di un accadimento eccezionale, almeno nelle forme sinora incontrate negli Ossi di seppia. Questo corto circuito paradossale spinge il poeta fuori dal mondo chiuso del paesaggio costiero ligure verso l’immersione nell’infinito del mare della sezione di Mediterraneo: la fuga dallo scacco esistenziale è, dunque, una fuga dalla terra verso un’equorea indefinitezza. Sul muro grafito… è un testo che – in maniera più nitida delle altre liriche del muro, ma non in misura maggiore – dialoga con un altro Infinito, quello di Leopardi: anche nell’opera del poeta recanatese, così come in Montale, la soluzione allo sbarramento è un naufragio in un mare; mentre, tuttavia, in Leopardi esso è lo stadio conseguente al superamento dell’ostacolo, nell’autore ligure il rivolgimento al mare costituisce una fuga e una rinuncia ad oltrepassare la barriera, che continua a ergersi – insuperata e insuperabile – di fronte al poeta.

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