Per una breve storia della monetazione medievale

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Giuseppe Catterin, Venezia –

Nel 539 d.C., mentre le forze romee fronteggiavano le sacche di resistenza ostrogote, sul fronte occidentale, sguarnito a causa dello sforzo bellico cui erano chiamati i discendenti di Teoderico, faceva capolino un’altra popolazione. Si trattava dei Franchi che, guidati dal loro re, Teodeberto, dilagarono ben presto lungo la Pianura padana, mettendo a ferro e fuoco le ultime vestigia di ciò che rimaneva della ricchezza della Penisola – che ebbe ampiamente modo di fiorire durante il regno esercitato dagli Ostrogoti.

Non si trattò, come forse speravano i comandi romei, di un semplice raid, finalizzato, com’era uso presso i popoli “biondi” – come ebbe modo di definirli, un secolo dopo, l’imperatore Maurizio – alla dura e pura razzia: questa volta, i Franchi facevano sul serio. Erano giunti per reclamare il bene più prezioso: il possesso di terre.

Teodeberto, tuttavia, compì qualcosa di più grosso, macchiandosi di una particolare forma di Hybris che non poteva sfuggire agli attenti occhi di Procopio. Lo storico di Cesarea annota, infatti, che il re franco, dopo essersi allietato allo spettacolo delle corse di Arles, decise di battere moneta d’oro. Fin qui, tutto sommato, non c’è nulla di cui stupirsi. La monetazione aurea, in fin dei conti, non cessò mai di circolare, men che meno lungo l’Italia retta dagli Amali.

Il problema era un altro, ed è presto spiegato: nessun sovrano barbaro poteva ardire di battere moneta recante la propria effige. Tale diritto era, anzi, prerogativa dell’unico detentore della porpora imperiale. Vale a dire, tutti colui il quale continuava a sedere a Costantinopoli.

Lo stesso Procopio, senza tacere l’orgoglio d’appartenere all’impero civile per antonomasia, ci suggerisce un altro dettaglio, che riesce a far comprendere la svolta epocale, quanto meno su di un piano squisitamente ideologico, di tale rivoluzionaria decisione. Stando alla nostra fonte, i pezzi coniati in oro da un re barbaro non venivano accettati nei commerci internazionali: brutte copie di quelli imperiali, gli aurei tondelli non avevano corso: a tanto, dunque, erano arrivati i Franchi.

 

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Ringraziando Procopio per il suo prezioso contributo, risulta necessario procedere a ritroso di qualche secolo. Con, però, una premessa necessaria: i denari che pagarono l’edificazione delle arterie stradali che congiungevano i più remoti angoli di Impero all’Urbe, o che venivano versati ai legionari, furono, per buona parte della storia romana, coniati in argento.

Certo, accanto ai pezzi argentei circolavano anche monete battute in oro. Si trattava di pezzi di valore (1/60 di libbra romana), molto pesanti, (l’aureo augusteo pesava sugli 8 grammi, passati a “soli” 7.2 sotto Nerone) e che presentavano elevate dosi di fino – e, cioè, materiale prezioso al netto dei metalli necessari alla lavorazione. Erano, però, monete che circolavano sporadicamente, giacché la base ponderale della monetazione standard romana fu a lungo prerogativa dell’argento.

 

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Esempio di aureo coniato durante il lungo regno di Augusto

 

Questa situazione di bimetallismo perdurò fino alla riforma monetaria introdotta da Costantino. Per fronteggiare al meglio il progressivo depauperamento dell’aureus, l’Imperatore decise di introdurre una nuova moneta d’oro, destinata a perdurare per buona parte del Tardo Antico nonché dell’Alto Medioevo. Si trattava del solidus, numerale che, a differenza del poc’anzi citato aureo, corrispondeva ad 1/72 di libbra romana. A conti fatti, il solido fatto coniare da Costantino era circa la metà di quello augusteo (per un peso, almeno nominale, di circa 4,5 grammi).

 

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Solidus fatto coniare durante l’impero di Costantino a celebrare le vittorie conseguite durante il suo lungo regno

 

Solidi erano, ad esempio, le monete prodotte dal basileus “bizantino”; solidi erano anche le monete coniate da Ostrogoti e perfino Longobardi che, nonostante la progressiva erosione dell’autorità imperiale sull’Italia, dovettero attendere molto prima di smarcarsi completamente dalla produzione di tremissi pseudo – imperiali: fu soltanto sotto Cuniperto che il Regnum iniziò una sua produzione autonoma (mentre in precedenza erano stati copiati i modelli fatti coniare da Maurizio, Eraclio e Costante II).

Il motivo di tale scelta è, in realtà, molto semplice. L’autorità imperiale, al netto della progressiva erosione dei territori posti sotto il suo diretto controllo, poteva comunque vantare una indubbia preminenza su di un piano eminentemente ideologico. A ciò si aggiunga anche un piano squisitamente economico: la fine del dominio imperiale in Occidente non segnò una cesura nei commerci. Il Mediterraneo, spogliato del suo status di “Mare nostrum”, continuava comunque a mantenere il suo ruolo di mare capace di congiungere popoli differenti: in una temperie storica, ove non esisteva un’autorità centrale che garantisse sul valore estrinseco della valuta, il solido imperiale garantiva una indubbia garanzia di stabilità – e, al netto del divario cronologico, aspetti simili si possono riscontrare anche durante l’Età moderna, quando fu l’Impero Ottomano a copiare la monetazione veneziana.

La produzione della monetazione aurea, limitatamente all’Europa Occidentale, registrò la sua momentanea interruzione sulla fine dell’VIII secolo, per effetto della riforma monetaria carolingia. Riforma che, di fatto, sancì il monometallismo argenteo, anche alla luce delle mutate esigenze economiche: la graduale diminuzione dei traffici commerciali, unitamente alla contrazione delle spese dello stato centrale (che, ad esempio, non doveva più mantenere eserciti permanenti) aveva reso superfluo continuare a produrre le ben più preziose monete in oro.

La riforma monetaria prevedeva, nel suo semplice e immediato pragmatismo, che da una libbra di argento “buono”, vale a dire lega con alte percentuali di metallo prezioso, si producessero 240 denari. Denari che, d’altro canto, rappresentarono a lungo l’unico numerale regolarmente coniato: i suoi multipli, la suddetta lira e il soldo (che, essendo composto da 20 denari, costituiva 1/12 di lira), erano monete “virtuali” nonché le uniche unità di misura adoperate nei contratti di locazione, così come in quelli di compravendita fondiaria.

 

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Esempio (fronte e verso) di un denario fatto coniare a Pavia, zecca in funzione anche presso i Longobardi, durante il Regno di Carlo Magno. Da notare come il mutare degli orizzonti culturali abbia influito anche sulla monetazione: gli standard classici, quali la raffigurazione del sovrano, vengono sostituiti da motivi cruciformi.

 

Per comperare un bene immobile, come ad esempio un terreno con sopra una vigna, si procedeva alla stipula di un contratto che, per quanto concerne la parte economica, quantificava l’esborso in lire. Per entrare in possesso di un terreno dal valore di 10 lire, tuttavia, bisognava avere spalle e schiena di ferro: il versamento avveniva, infatti, mediante….il versamento di 2.400 tondelli!

Come si può evincere, la matematica giocava un ruolo cruciale. Al contempo, la situazione poteva andare bene unicamente per contrattazione di ridotto cabotaggio – come l’entrare in possesso di fazzoletti di terra, o l’acquisto di beni mobili di ridotto valore. Per volumi più generosi, lo strumento finanziario rischiava di risultare insufficiente, oltre che oltremodo scomodo.

A ciò si aggiunga anche il progressivo depauperamento dello stesso sistema “libbra” – denaro: l’unità di misura di partenza venne rivista, a partire dalla dinastia degli Ottoni, al ribasso di circa un etto. Inoltre, a variare – a volte anche da città a città – era la quantità di fino. Per buona parte dell’XI secolo, ad esempio, i denari prodotti dalla zecca di Verona valevano circa il doppio di quelli prodotti a Venezia. Di riflesso, i contratti di affitto, di locazione o di compravendita indicavano espressamente la zecca di produzione, così da evitare eventuali raggiri sulla quantità di metallo prezioso.

Le risposte per eludere e risolvere queste problematiche giunsero dalla Venezia di fine XI secolo. Alla luce della necessità di coniare un nuovo strumento finanziario, indispensabile per soddisfare al meglio i crescenti volumi del commercio lagunare, sotto il dogado di Enrico Dandolo venne coniato il denaro grosso – conosciuto anche con il termine di “grosso matapan”, dall’omonima località ellenica.

Se la si volesse descrivere icasticamente, il grosso rappresentò indubbiamente il dollaro dell’epoca. Era, infatti, pesante (c.a 9 grammi) e plasmata da metallo molto buono, con altissime quantità di fino (argento 965). Ma, soprattutto, valeva ben 26 denari.

 

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Grosso “Matapan” coniato durante il dogado di Enrico Dandolo. La raffigurazione, curata secondo canoni stilistici tipicamente bizantini, mostra San Marco nell’atto di consegnare il vessillo veneziano, ancora privo del caratteristico Leone, al Doge in persona.

 

Al contempo, la monetazione aurea non sparì del tutto. Essa, infatti, rimase il paradigma di riferimento per buona parte dell’Oriente, bizantino e non. Nel Meridione della Penisola, inoltre, questa particolare tradizione non andò mai persa: il Regnum fu, ad esempio, patria dell’Augustale, moneta che, in fatto di nome e impianto iconografico, attingeva ampiamente da modelli romani. Ad essa, a partire dagli anni ’50 del Duecento, si affiancarono le ben più preziose monete coniate a Firenze e Genova: a differenza della “collega” sveva, quest’ultime presentavano un fino pressoché puro (c.a 24 carati, contro i 20,5 dell’Augustale).

 

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Augustale coniato a Messina negli anni ’30 del Duecento. Come si può evincere, l’iconografia è ritornata a concepire modelli di chiara ispirazione classica.

 

Presto imitate in Italia e non solo, Genova e Firenze contribuirono dunque a stimolare il ritorno del bimetallismo monetario, dopo una pausa durata quattro secoli: l’oro ritornava, così, a circolare tra le scarselle dei mercanti italiani.

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