Tracce di cellulosa: il tema della memoria in ‘Andarsene’ di Rodrigo Hasbún

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Paolo Perantoni, Verona –

 

“Si scrive per preservare la memoria o per rielaborarla? –
– Per me è più una rielaborazione. Non credo nella memoria, aggrapparsi alla memoria è stare fermi e a me interessa di più l’incertezza delle cose che cambiano.”

 

Così ha risposto Rodrigo Hasbún al termine dell’ultima presentazione italiana del suo Andarsene (Edizioni SUR, 2016, traduzione a cura di Giulia Zavagna).

Nel leggere il romanzo del giovane autore boliviano, che s’ispira alla vera storia della famiglia Ertl, i protagonisti sembrano in effetti soffrire dallo stare fermi in un luogo o addirittura in un tempo.

“Andarsene” diventa quindi l’imperativo per ogni membro della famiglia Ertl, a partire dal padre Hans che si getta in ogni più rischiosa avventura per fuggire da tutto ciò che può fargli mettere radici.

Inizia col lasciare una Germania in ginocchio al termine della seconda guerra mondiale per riparare in Bolivia con la famiglia, ma da qui partirà per mille avventure che lo vedranno impegnato sia a scalare le vette del Nanga Parbat e dell’Illampu quanto ad addentrarsi nel fitto della boscaglia equatoriale.

 

 

 

Finirà per scappare anche dalla sua famiglia, ultimo legame che gli rimane, per fuggire con una giovane amante che a sua volta se ne andrà lasciandolo solo in una tenuta in mezzo alla foresta.

Così anche le figlie, Monika, Heidi e Trixi – spesso combattute tra l’essere tedesche o boliviane proprio perché senza radici – ognuna a modo loro, sono in costante fuga dalla loro stessa famiglia e dal mondo che per un momento della loro vita hanno creduto di volere.

Monika lascia il marito e il lavoro per darsi prima alla politica e poi alla guerriglia; Heidi fugge in Germania dove non riesce a mantenere unita la famiglia; Trixi girovaga senza meta cercando di mantenere i rapporti con le sorelle soffrendo di una cupa nostalgia che le serve per dare valore al presente.

 

 

Monika Ertl e il padre Hans Ertl

 

Ma se è vero che tutti i protagonisti sono in una costante apprensione dal mettere radici, è altrettanto vero che lasciano ovunque tracce di sé e della loro memoria.

La spedizione che apre il libro, la ricerca della leggendaria città inca di Paititì, ne è il più significativo esempio. Il viaggio è compiuto da Hans e dalle figlie Monika e Heidi – Trixi è troppo piccola, rimane con la madre con la quale legherà moltissimo – attraverso una lunga spedizione tra i sentieri aperti dagli inca in cui si respira una storia secolare che affascina coloro che sono senza patria, senza radici; così Heidi:

 

Era inquietante pensarci, era affascinante e triste. Sapere che eravamo persi nelle viscere di un paese straniero, lontanissimi da casa, era tutte queste cose insieme.

 

La memoria della spedizione è affidata a fotografie e riprese fatte da Hans, già brillante collaboratore della regista Leni Riefenstahl; le sue opere sono tracce di sé, ma sono tracce finte, artefatte, il che sembra avvalorare la tesi – ripresa alla fine del romanzo – che “non è vero che la memoria è un posto sicuro”.

Ma tra tutte queste opere di finzione rimane una fotografia vera, scattata alla fine della spedizione, dove Hans è ritratto con le figlie sorridenti.

 

Monika Ertl

 

Sono proprio le fotografie, che non compaiono mai nel romanzo di Hasbún, le vere tracce che la famiglia Ertl lascia dietro di sé e di cui Hans e Monika non riescono a fare a meno; non a caso sulla copertina dell’edizione italiana a cura di Riccardo Falcinelli campeggia una macchina fotografica e un rullino.

La stessa Monika, colei che sembra la più inquieta e incline a un moto continuo – di luoghi quanto di rivolta – e che passerà alla storia come “la ragazza che vendicò Che Guevara, durante il suo travagliato vagabondare come guerrigliera non riesce a staccarsi da questi oggetti materiali che sono il vero legame con la propria identità.

 

Tu d’altra parte hai portato con te pochi ricordi: i diari delle spedizioni, vecchie lettere, non più di dieci foto e questo è tutto. Eviti di riguardarle, l’ultima cosa che vuoi è restare ancorata a luoghi che non esistono più e le foto, i diari e le lettere sono proprio la dimostrazione e la prova che non esistono più. Dovresti nasconderli meglio, forse dovresti disfartene […] eppure non lo fai, perché non sei ancora capace di farlo. Forse non lo sarò mai, pensi.

 

Anche quando cerca rifugio nella tenuta del padre – la Dolorosa – ovvero la gigantesca opera di radicalizzazione fallita che Hans mette in piedi nella giungla boliviana e che ricorda da vicino la follia dell’Almayer conradiana, Monika si sofferma a guardare le foto che sulla parete il padre ha conservato per raccontare la vita della famiglia.

 

Rodrigo Hasbun

 

Tra queste foto svetta proprio quella scattata in quell’ultimo giorno di spedizione: è la preferita del padre e a lei rimane particolarmente impressa nella memoria.
 Si tratta della stessa fotografia che emerge dal muro ricoperto di sporcizia della tenuta e che attrae magneticamente il lavoratore Lucho al termine del romanzo: “c’è qualcosa di ipnotico nel modo in cui guardano verso l’obiettivo”, pensa il boliviano.

Ecco che si forma così uno strano legame tra questa fotografia, la decadenza della tenuta e il lugubre lavoro che Lucho e Amadeo stanno portando a compimento. Quasi che essa finisca con l’essere la fotografia della tomba di famiglia, con il principale scopo di preservarne la memoria, sebbene anche “lì le cose si deformano e si perdono”.

R. Hasbún
Andarsene
Roma, Edizioni Sur, 2016
pp. 120