Mangiare tardi è un gioco di classe: i costumi a tavola dal Settecento ad oggi

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Paolo Perantoni, Verona –

Non credo di essere l’unico che, a un invito per l’aperitivo, si chieda di continuo a che ora esattamente incontrarsi: a seconda del luogo in cui ci si trova, infatti, si possono sperimentare usanze e orari diversi. A Verona ho sempre preso l’aperitivo tra le 18.00 e le 19.30, mentre a Roma mai prima delle 20.00.

Questa confusione sugli orari (e sui nomi) dei pasti non è un’invenzione recente. Se oggi siamo sommersi da brunch, ape, happy hour, apericena, etc. nelle ore più disparate, allo stesso modo tra XVIII e XXI secolo ci si dannava l’anima per capire a che ora si era stati invitati a pranzo o a colazione.

Con la consueta chiarezza e capacità narrativa, Alessandro Barbero ci spiega origini e motivazioni di tutta questa confusione nel suo breve saggio A che ora si mangia? (Quodlibet, 2017) uscito nella collana Elements, una selezione molto interessante di brevi saggi scientifici che abbracciano più discipline.

Lo storico torinese si muove con agilità tra varie fonti narrative, epistolari, e soprattutto resoconti di viaggio e testimonianze dell’epoca tra quanti attraversavano l’Europa moderna a cavallo tra Sette e Ottocento in particolare tra Inghilterra, Francia, Italia, Germania e Russia.

Il quadro che si delinea da questa ricerca, che si basa fortemente su analisi linguistiche – sulla strada tracciata dalla cultural history di scuola inglese – è presto detto: gli orari dei pasti principali – e così i loro nomi – hanno subito uno slittamento in avanti nell’arco della giornata fino a tornare ai blocchi di partenza.

Tutto ruota attorno al pranzo (dîner, dinner), ovvero al pasto principale della giornata; esso era talmente importante e abbondante che spiega come mai molti, come Federico il Grande o Kant, avessero perso l’usanza di cenare la sera. Di norma esso veniva consumato attorno alle 12, per cui espressioni come “dopopranzo” indicavano il pomeriggio. Ma tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento iniziò a diffondersi in Inghilterra l’usanza, a partire dall’aristocrazia, di spostare in avanti quest’orario, chi si ostinava a mantenere i vecchi orari era visto come piccoloborghese o comunque un provincialotto. Questa moda portò con sé anche aspetti grotteschi: quando nel 1863 i rappresentanti della Camera dei Comuni discussero l’opportunità di creare un ristorante all’interno della Camera lo fecero perché gli orari dei lavori parlamentari non coincidevano più con le usanze del dinner. Un tempo trovarsi alle 16 per iniziare i lavori significava che tutti avevano pranzato, ora non è più così e alle 19.30 la Camera si svuota mentre si stanno svolgendo importanti dibattiti. In modo del tutto analogo capita di continuo che persone invitate a pranzo arrivino agli orari più disparati, creando imbarazzi e malumori riportati nelle lettere e nei resoconti di viaggio.

Allo stesso modo Parigi fece sua l’usanza inglese di spostare in avanti l’ora del pranzo, giustificandola con motivi di ordine razionale: spostare in avanti l’ora del dîner significava avere più tempo per gli affari.

In realtà, avverte Barbero, questo slittamento era dovuto a una questione sociale: le classi aristocratiche e borghesi avevano trovato un nuovo modo, un nuovo status symbol, per rimarcare la differenza tra loro e gli altri, tra la capitale mondana e la provincia bigotta. Laddove un’alimentazione ben scaglionata durante la giornata rappresenta il sostentamento per il lavoro fisico, la rottura di questo schema indica la non appartenenza alla working class.

Comunque la si veda questa moda causò la progressiva scomparsa della cena (souper, supper) e della merenda (goûter) con la relativa comparsa di un nuovo pasto, ovvero la colazione abbondante, il déjeuner à la fourchette, consumata a metà mattinata. Il souper, quando ancora viene servito, diventa un pasto notturno, da consumarsi a notte fonda o all’alba dopo il balletto, ma mantiene la sua natura di pasto caldo. La giornata mondana delle élites franco-inglesi (e di chi le imita come quelle italiane e russe) è quindi così suddivisa: robusta colazione a metà mattina, pranzo alla sera, eventuale cena a notte fonda; solo in America il veloce spuntino di metà mattina (breakfast) anticipa il pranzo (dinner), ma, al di là del tè delle 17-18 del pomeriggio, gli americani non mangiano altro.

Questo slittamento dei pasti modificò anche la struttura della giornata, poiché era assurdo continuare a chiamare mattina la parte che precede il dîner, in Francia si iniziò a considerare la mattina quel lasso di tempo tra il risveglio e il déjeuner. Tuttavia pure quest’ultimo tendeva a slittare avanti a orari assurdi, tanto che durante il primo impero si diffuse l’abitudine di invitare la gente a colazione. Fu a questo punto che in Italia si optò per tornare ai vecchi nomi: la colazione tornò a essere il pranzo (o in alternativa la seconda colazione), e il pranzo la cena.

Solo con l’inizio del XXI secolo in tutti i paesi la rotazione si completò tornando al punto di partenza, e in alcuni casi – come in Inghilterra – si dovette creare ex novo una parola che designasse il pranzo, ecco che nacque il lunch anche per distinguerlo dal breakfast (una parola d’oltreoceano usata per indicare la colazione, ossia la “vecchia” supper che mantiene la caratteristica di essere un pasto caldo).

Di tutta questa vicenda rimangono quindi le testimonianze linguistiche, ed ecco perché Barbero le ha utilizzate così saggiamente lungo il dipanarsi del suo ragionamento: ancora oggi, sul web e non solo, si possono riscontrare discussioni se sia più corretto il termine dinner o supper per indicare la cena, o su quale sia l’orario giusto per cenare o per bere un semplice spritz.

 

Alessandro Barbero
A che ora si mangia? Approssimazioni storico-linguistiche all’orario dei pasti (secoli XVIII-XXI)
Quodlibet Elements
pp. 87