Il nome e la cosa: centosessant’anni di storia della mafia

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Enrico Ruffino, Venezia –

Alla fine degli anni ’80, sulla scia del maxiprocesso e dell’emergere del problema mafioso, la casa editrice Einaudi pensò di tradurre, nella collana “microstorie”, il libro di Anton Blok, La mafia di un villaggio siciliano (ediz. originale: 1960; edizione italiana: 1986). L’anno successivo, all’interno della nuova rivista scientifica “Meridiana”, diversi studiosi iniziarono a discutere dell’argomento proprio a partire dal confronto con questo testo. Fu l’inizio di un florido periodo di studi sul fenomeno mafioso in Italia.

La mafia era ormai emersa dal sottosuolo e in quell’evento, in quell’arena dibattimentale, divenuta oggi un vero e proprio luogo della memoria, le si era dato un volto. L’interesse verso un fenomeno che, fino a quel momento, era rimasto marginale nel panorama degli studi, soprattutto storiografici, nasceva dunque dall’emergere di Cosa Nostra quale problema visibile. Un problema divenuto inevitabilmente politico.

Già di per sé questo “episodio” dovrebbe confermare la tesi fondamentale del nuovo libro di Salvatore LupoLa mafia. Centosessant’anni di storia (Donzelli 2018) – che è significativamente anche uno dei protagonisti di quella proficua discussione e colui che, forse più di altri, si è distinto nella florida stagione di studi degli anni Novanta sul fenomeno. Il libro è una sorta di summa di un lavoro pluridecennale, una grande sintesi che non tarda però a proporre una nuova interpretazione: alla base di questo nuovo lavoro si ritiene infatti che “la mafia non solo viene colpita ma anche emerge dal sottosuolo, diviene visibile, quando si propone e viene recepita come problema politicoed è proprio in quel momento che “gli intellettuali fanno funzionare il loro cervello, i governanti mobilitano i loro poliziotti e […] gli storici hanno le fonti su cui lavorare”. Insomma, quando avviene la pubblicazione del libro di Blok? Quando comincia l’interesse storiografico nei confronti del fenomeno mafioso? Proprio nel momento in cui s’innesta quel meccanismo di sfida\risposta allo Stato che produce l’emersione del fenomeno. È allora che “gli intellettuali” fecero funzionare il loro cervello e i governanti mobilitarono i poliziotti.

Questa dialettica tra i nomi e le cose è in realtà una costante della storia della mafia; e sfata anche uno dei tanti miti ‘ontologici’ che aleggiano su di lei: ossia, che non si sia mai parlato di mafia e proprio su un pactum di omertà essa abbia potuto radicarsi. A ben vedere, la questione è molto più complessa: anzi si potrebbe dire che in centosessant’anni di storia sulla mafia c’è stata una proliferazione di discorsi enormi, tutti ascrivibili alla dialettica che intercorre tra la mafia e l’antimafia. Insomma, tra ciò che emerge e il significato, le ideologie e gli strumenti che si danno per far fronte a questa emersione.

 

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Le origini

Prendiamo la parola stessa. Lupo ci dice infatti che la parola “maffia” apparve per la prima volta in una rappresentazione teatrale di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca del 1863. Siamo primissimi anni dell’Unità d’Italia e la commedia – che illustrava le vicende di alcuni detenuti palermitani invitati ad abbandonare la via del crimine per creare una società di mutuo soccorso per difendere i loro interessi nel nome dell’Italia Unita – era ambientata nel 1854, in periodo borbonico: ‘l’innovazione terminologica’, volta a celebrare il nuovo corso politico, andrebbe spiegata secondo lo storico con il fatto che

 

il Regno Delle Due Sicilia rifiutava le idee liberali di costituzioni e sovranità della legge; viceversa l’Italia Unita, che si rifaceva a modelli liberali, trovò utile o necessario attribuire un nome che indicasse o stigmatizzasse lo scarto tra la teoria e la pratica”.

 

La premessa politica del termine è quindi fondamentale. Tanto più se si pensa che l’introduzione della parola nel linguaggio istituzionale avvenne nel 1865 ad opera del prefetto di Palermo, Filippo Gualterio: egli fece coincidere il termine, nel magma politico-insurrezionale della stagione post-rivoluzionaria, col partito repubblicano guidato allora da Giovanni Corrao – colui che, qualche anno prima, alla testa di una milizia di volontari, aveva fatto sparare sui soldati regi – e dai suoi luogotenenti, Badia e Bonafede, amnistiati ma tutt’altro che propensi ad accettare l’ordine monarchico. Sostiene infatti lo storico catanese che

 

l’operazione fatta con la citata relazione del Prefetto Gualtiero” era quella di “mettere insieme promiscuamente l’aspetto politico e quello criminale, addebitando i drammatici eventi al complotto della mafia. Fu quello il momento in cui la parola cominciò generalmente ad affermarsi”.

 

Si trattava, insomma, di una ricercata confusione concettuale perché, continua Lupo, la mafia “non era un partito politico” quanto piuttosto “le varie fazioni che la componevano si collocavano all’interno dei vari partiti”. Ma una confusione che impose il termine nel discorso pubblico. Tant’è vero che da quel momento molti s’interrogarono – certo “con risposte confuse e strumentali” – su cosa fosse questa nuova entità.

Anche in questo caso le risposte che ne vennero date, a cominciare dal ’74-’76, definirono la mafia nel ‘fuoco dei conflitti politici’: ed è qui che Lupo si muove nella tesi più golosa del volume, quella che vede profilarsi una dialettica tra uno sguardo esterno alla prospettiva isolanacoincidente in parte con la Destra storica – e uno sguardo interno della classe dirigente locale schieratasi a sinistra; ossia tra chi legge da fuori e chi invece legge da dentro alla prospettiva siciliana. Una dialettica che, sia chiaro sin da subito, non poteva non partire da emergenze reali quali la gestione dell’ordine pubblico.

 

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Carabinieri che scortano briganti meridionali appena arrestati

 

Sguardi interni e sguardi esterni

L’ultimo governo della Destra Storica, quello del 1874, guidato da Minghetti osservò infatti il “problema Sicilia” sotto il cappello della legislazione di emergenza: una legislazione “straordinaria” che partiva dal presupposto che era impossibile controllare con metodi “normali” l’ordine pubblico siciliano. Uno sguardo condiviso da prefetti settentrionali impiantati in Sicilia che, vedevano, tranne in qualche raro caso, questa nuova entità ‘criminale’ come “generale abbassamento morale” delle popolazioni siciliane e ritenevano impossibile contrastare la criminalità con ‘normalità’ in quanto non vi era “un popolo colto come almeno nella parte superiore dell’isola”. Uno sguardo esterno, ma “impotente e al contempo autoritario, che, dunque, contribuiva a dirigere l’attenzione sull’isola e in particolare sul problema “mafia”.

Seguendo questa particolare attenzione, due esterni all’isola come Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti condussero la loro Inchiesta in Sicilia avvalendosi di fonti interne: e proprio da questa dialettica tra rappresentanti interni ed esterni si riesce ben a capire in che termini si definisse la cosa. Una dialettica che dall’esterno proiettava la mafia in una sfera antropologica, mentre dall’interno in una dinamica politica. Se per Franchetti il comportamento mafioso si originava dalla natura stessa della società siciliana, per Francesco Gestivo – una delle sue fonti, avvocato del capo mafia Giammona di “sinistra” e “sicilianista” – non c’era alcuna “mancanza di senso morale”, alcun tratto endemico ma una questione meramente politica, caratterizzata da un odio atavico nei confronti del governo centrale.

Eppure, lo stesso Franchetti, come analista al di fuori della prospettiva isolana, sembrava fosse ben conscio delle relazioni tra alto e basso della scala sociale e la stessa dialettica tra quello che sta dentro e quello che sta fuori (pur non riuscendo a fare chiarezza sulle strumentalizzazioni politiche che certi esponenti della sinistra fecero dell’elemento criminale). Tuttavia, non riuscendo a tradurre l’analisi in efficaci soluzioni governative, quest’ultime orientate verso l’attitudine “centralista” della destra storica e all’esclusione dei siciliani dal governo dell’Isola, Franchetti, più che proporre soluzioni, contribuì al vizio di risolvere la questione “mafia” in criminalizzazioni collettive e para-razziste. Qui Lupo è più che perentorio nel combattere questa impostazione e nel notarne le conseguenze:

 

la storia e la cultura dei siciliani o degli italiani d’America non possono essere ridotte a mafia, così come la storia della mafia non può essere ridotta a questo discorso para-razzista. Però non può ignorarlo o ignorare la conseguenza più importante: su entrambi i versanti l’ideologia mafiosa si è a sua volta presentata nella veste della rivendicazione identitaria rispettivamente americana e italo-siciliana”.

 

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Sidney Sonnino

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Leopoldo Franchetti

 

Criminalizzazioni collettive

Sempre a proposito di sguardi esterni e criminalizzazioni collettive non possiamo sorvolare sul capitolo dedicato all’America e alla dialettica tra rappresentazioni e autorappresentazioni della mafia. Alla fine degli anni ’80 del XIX secolo negli Stati Uniti si era infatti iniziata a diffondere l’immagine di una setta straniera “impegnata a complottare contro le libertà americane”.  La diffusione di complotto straniero e dell’invasione – do you remember right now? – è una costante dei fenomeni migratori. Ragion per cui iniziò a diffondersi una vera propria mitopoiesi mafiosa.

Questa mitologia, ci dice Lupo, “era in parte frutto del razzismo o pregiudizio anti-italiano ma per un’altra parte risentiva di un’apologetica filo-mafiosa”. Dipingere se stessi come rappresentanti di un popolo oppresso e membri di un’organizzazione che “da secoli” difendeva il popolo siciliano doveva servire ad indurre “l’america a solidarizzare con i siciliani”; ma, di contro, si risolse nella criminalizzazione di tutti i siciliani, anche quelli che, in realtà, avevano deciso di collaborare con le autorità americane.

Passando avanti in questa storia americana, potremmo notare come un frutto tossico del proibizionismo come Lucky Luciano – sul quale è sempre aleggiata un’aura di suggestiva mitologia, spacciata spesso per dato storico – diventasse l’archetipo di quello sguardo esterno, ma interno al sentire comune americano, che vedeva i siciliani affetti da “infantilismo, istintività, primitivismo, servilismo, pigrizia.

Arriviamo dunque al termine “Cosa Nostra”. “Pare indicativo – come evidenziato nel saggio – che il termine Cosa Nostra si materializzasse prima in America e dopo in Sicilia”: negli Stati Uniti, tra le numerose etno-bande, i mafiosi siciliani sentivano il bisogno di un nome con cui definirsi e distinguersi da altri gruppi criminali. Per parte mia noto che qui siamo sempre nel solco di una dialettica da un discorso interno ed uno esterno perché, come dice Lupo, “i mafiosi sempre mettono insieme etero-rappresentazioni e auto-rappresentazioni. Insomma, se la gang criminale ha necessità di definire sé stessa per distinguersi da altri gruppi operanti in un scenario multi-etnico, è pur vero che l’autorità ha sempre bisogno di definire il nemico: il termine Cosa Nostra “si affermò nel vocabolario criminale gradatamente, specularmente a una qualche decadenza del termine mafia. D’altronde era più che altro l’America ufficiale ad aver bisogno di un nome ufficiale con cui indicare il nemico. Il nemico si adattò.” A ben vedere, si potrebbe parlare di una sorta di inconsapevole pactum nomino-normativo, di uno scambio tra l’esigenza di definirsi internamente e quella di essere definita esternamente.

 

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Lucky Luciano

 

Scienza della parola, scienza dei soldi, scienza della violenza

Proprio questa costante ci conduce agli anni ‘60 con una nuova emersione della mafia con la bomba di Ciaculli. Un’auto bomba – si dice destinata ai Greco – scoppiò nella borgata palermitana di Ciaculli uccidendo tre militari. Ci dice lo storico:

 

una cosa del genere non accadeva dall’uccisione di sette carabinieri a Passo di Rigano-Bellolampo nell’agguato teso dalla banda Giuliano. Ma allora l’azione era stata classificata come banditesca, mentre adesso era indubitabilmente mafiosa”.

 

Ecco ancora una volta l’emergere di un problema che spinge un grande della letteratura italiana, Leonardo Sciascia, a scrivere una novella intitolata Filologia in cui riesce plasticamente a rappresentare il mutamento della mafia attraverso questa particolare dialettica. Il notabile che cerca di istruire il capo-cosca su come rispondere ad un eventuale audizione in commissione antimafia ricorre ad una auto-definizione del tutto vecchia, un’espressione che fa riferimento a Pitrè (la mafia come “costume”), un’espressione “filologica” mentre il capo-cosca, un po’ insofferente a questa definizione eterea, ritiene che la sua scienza, “quella che insegna come fare i soldi e come usare la violenza”, sia più importante della scienza delle parole. La violenza, insomma, funziona. Cosa ci registra questo dialogo?

 

“Registra una dialettica interna alla mafia ed esterna ad essa: cioè l’avvio di un meccanismo sfida-risposta con lo Stato del quale dobbiamo tenere conto, se vogliamo capire l’escalation successiva”.

 

Insomma, si sarà capito che in oltre 400 pagine di volume non troveremo un semplice manuale di sintesi sulla mafia ma un lavoro di interpretazione filologica di ampio respiro che fugge dalle trappole delle rappresentazioni, senza ignorarle ma facendone anzi un punto di forza interpretativo che sembra tentennare solo nei sentieri ancora inesplorati dalla storiografia. Ma gli anni ’90 sono un problema per tutti.

 

Salvatore Lupo,
La mafia. Centosessant’anni di storia
Roma, Donzelli, 2018
pp. 428