La letteratura ai tempi del Covid? Interessante.

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Oriana Rodella – Verona

Nel magnifico saggio di Peter Brook, La porta aperta, si trova, a supporto di alcune tesi sul pensiero teatrale esposte dal regista inglese, un breve racconto che indaga il modo escogitato da certi artisti russi nei primi anni Cinquanta per uscire da una situazione imbarazzante attraverso l’uso del commento “interessante”.

Brook fa riferimento a un aneddoto in particolare che ha come protagonisti una delegazione di giovani attori, impresari e registi che giunti a Mosca dopo un lungo peregrinare vollero a tutti i costi andare a vedere uno spettacolo di Scofield. Finita la commedia, arrivato il momento di ossequi e commiati da retropalco, Scofield li interrogò con lo sguardo. “Molto interessante!”- esclamarono i russi.  L’anno successivo l’interessante commento si palesò con la pubblicazione di una didascalia colma di interessante disappunto sovietico su una interessante fotografia disastrata dell’attore britannico. In questi giorni lo slogan del “ripensare al futuro” mi fa venire in mente di continuo quell’episodio.

È come se a chiunque venisse offerta l’opportunità di prendere in mano una penna qualsiasi, meglio se usata e mangiucchiata in punta, in un tempo in cui non si trova nemmeno l’inchiostro, ed esprima impunemente la sua opinione. Il solo fatto di riuscire a farla funzionare in qualche modo darebbe adito a quello scarabocchio di essere insignito del sugello di “molto interessante”. Così stanchi e infiacchiti dall’immane sforzo cerebrale si possono rimettere cuore e mente a riposo all’ombra di un’abbozzata oasi intellettuale per le future settimane a venire. Fiu!

Come si può pretendere di “ri-pensare al futuro” e come è possibile che si possa farlo in un tempo così particolare? Ri-pensare è una parola che porta inevitabilmente all’indietro, a un tempo trascorso, è legata a una ripetitività del pensiero, significa che quel passato lo si debba riprendere in considerazione per valutarlo alla luce di oggi.

Non si dice anche in una relazione? “Ripensaci ti prego, torniamo assieme, riproviamo!” Che insensata presunzione pensare che quel pensiero di passato io l’abbia condiviso in qualche modo, che io in qualche modo voglia tornare sui miei passi per riabbracciarlo, rielaborarlo e figli maschi!

saunders letteratura

L’altro giorno pensavo a George Saunders, lo scrittore americano, in particolare ad un incontro a cui partecipai in occasione dell’uscita del suo romanzo. Ragionava assieme al suo pubblico sulla letteratura, con quel suo fare ironico che rivela le verità più sconcertanti con l’innocenza di un bambino.

Dichiarava candidamente che l’unico modo per produrre qualcosa di nuovo, di presente, di personale, di interessante fosse quello di staccarsi dalle vette brillanti del passato, di scendere giù ruzzoloni, di avere il fegato di cambiare prospettiva per poter scorgere poco distante una nuova stimolante meta da scalare: nient’altro che «la propria enorme montagna di cacca!».

E forse è questo il punto: ci vuole un bel coraggio a partire da se stessi, a mostrarsi deboli e fallibili. Ad ammettere che quelle penne sono scariche da un pezzo e che anche l’inchiostro è obsoleto. Che bisogna scendere dalla giostra della ripetizione e iniziare a pensare da zero.

Ieri mattina davanti al supermercato del mio quartiere c’erano una quindicina di persone in attesa di entrare, tutti ligi, guanti, mascherine, tutti a una certa distanza, perlopiù concentrati all’interno del minuscolo perimetro d’ombra offerto dal tetto del balcone del piano di sopra. Si doveva prendere il numero per entrare. Arrivata anch’io davanti all’ingresso non faccio però caso al dispenser e mi accosto vicino a quelli in coda sotto il sole.

La signora davanti alla porta e prossima ad entrare, compreso il mio equivoco, mi spiega in modo gentile e polemico che «stamattina si sono inventati quella del numero!». La ringrazio, mi avvicino al distributore e intanto lei entra. Mentre aspetto il mio turno mi guardo intorno e faccio due considerazioni: la prima è che siamo tutte donne. La seconda arriva nell’istante immediatamente successivo per contraddire la precedente: un uomo con il numero in mano prende parte al gruppo d’attesa parlando al telefono in una lingua che suppongo essere marathi. Quindi siamo tutte donne e un indiano penso.

Lo osservo con l’orecchio, mentre annoto con la mente consigli e ricette su come fare il pane in casa e intanto non mi accorgo che il tempo passa e che la signora gentile e polemica ha già fatto la sua spesa e sta uscendo – solo polemica – impugnando il suo carrellino. Si dirige verso il marciapiede dove si trova anche Prasad – quarantatré anni, quattro figli, in Italia da quando ne aveva diciotto – e gli urta le caviglie con le ruote.

È seccata oltremodo dal fatto che non solo lui stia ancora parlando al telefono in una lingua a lei sconosciuta, ma che oltretutto lo stia facendo proprio su quell’angolo di marciapiede e per giunta dandole le spalle. Così prende la riscossa: gli passa col carrello sui piedi, gli intima di scansarsi, agita le braccia, scuote la testa e prosegue la sua ritirata. «Mi scusi molto signora, ecco mi sposto subito. Sono davvero dispiaciuto di averla infastidita».

“Quando ti viene voglia di criticare qualcuno, ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu […] Evitare giudizi è fonte di speranza infinita”.

È il secondo capoverso di uno dei romanzi più belli della letteratura americana. Fitzgerald avrebbe potuto scrivere queste parole ieri mattina e metterle in bocca a un uomo sulla quarantina dalla pelle olivastra per dirigerle a me che ero rimasta lì come un sasso, con la bocca aperta sotto la mascherina, sentendomi addosso tutto il peso della miseria umana.

Cosa c’entra questa storia con la letteratura, con la letteratura ai tempi della pandemia, col pensare e ripensare a quello che siamo o che siamo diventati o che vogliamo essere? Per me questa storia risponde a tutte queste domande e a una in particolare: che cosa significa veramente essere un Uomo oggi?

Gli scrittori sono una massa di guardoni, sono degli spioni nati, sono dei predatori, muoiono dalla voglia di diventare testimoni del reale, di ricevere lo shock che trasforma l’esperienza in parola. E non c’è nulla di nuovo in tutto questo, dal momento che la letteratura non può essere mai avulsa dal concreto, non può mai evolversi senza mischiarsi al marciapiede e al supermercato.

Oggi forse però pare che la letteratura si sia dimenticata che non può vedere la realtà in modo diverso se non a partire dagli occhi del lettore e che il lettore, prima di tutto, è un essere umano. Se fosse davvero così, se la letteratura non si fosse punta col fuso di un arcolaio, oggi forse non scriverebbe con gli occhi dell’editor o con quelli dell’artista che indaga attraverso la prima persona singolare. Se fosse così, se la letteratura non fosse in attesa del bacio del principe, forse sarebbe generosa, non avrebbe nulla di riduttivo o narcisistico, si presterebbe a far capire alla gente che la narrativa non scruta la realtà per conto delle persone, ma che sono le persone stesse già capaci di osservare il mondo e di esserne testimoni.

“La vita è la mia questione, la vita è tutto ciò che conta” – lo diceva Virginia Woolf a proposito della scrittura e questo credo abbia più a che fare con una chiave di lettura che non ha niente a che vedere con le classifiche, il guadagno, il commercio o la fama, ma con l’amore per l’umanità. La letteratura non ha forse il compito di smascherare, riconoscere e difendere le verità della vita in tutte le sue manifestazioni?

È averne coscienza che ci rende uomini e donne autentici, è questo che ci tiene in vita come esseri umani. Se fosse davvero così la letteratura di oggi non si prenderebbe gioco di chi legge riducendo la scrittura a un oggetto commerciale semplificato e banalizzato, sarebbe difficile, richiederebbe quantomeno un minimo di sforzo critico che serve per regalare al lettore una ricompensa reale. Se fosse davvero così la letteratura oggi non userebbe l’ironia come mezzo per nascondere il dramma, si sacrificherebbe, morirebbe un po’ per salvare se stessa e l’uomo dalla mediocrità. Se fosse così allora la letteratura si renderebbe debole per entrare nel cuore del lettore, a costo di sembrare sentimentale, banale o visceralmente pura.

Intreccio di cuori

Eleonora Milani, Siamo tutti uniti da un intreccio di cuori, acquerello

C’è un’urgenza forte di umanità e la letteratura, perché possa definirsi tale – diceva David F. Wallace – deve smuovere le montagne, non starsene a guardare col sedere piantato a terra. Non c’è tempo per aspettare il ritorno dei genitori dei generi letterari: chi genera, i padri e le madri della narrativa, sono vivi oggi, adesso! A loro spetta il compito di fare in modo che la scrittura diventi un atto rivoluzionario. Se fosse così, se fosse davvero così, allora la letteratura sarebbe eretica al punto che riuscirebbe a innovarsi e a farci sentire di nuovo umani, non ingranaggi di una macchina commerciale. Se fosse così anche oggi, anche in un tempo in cui tutto ciò che è implicito è ormai dichiarato, un tempo di solitudine in cui siamo privati dei sensi, un tempo in cui le lancette stanno ai nostri comandi, se fosse davvero così forse la letteratura riuscirebbe a non farci sentire isolati, riuscirebbe a ridarci fiducia, a metterci in comunicazione profonda e sensibile con un’altra coscienza e così, con la nostra.

Quello che voglio dire con tutta questa storia è che senza la letteratura io sarei tornata a casa risentita dalla mia spesa, mi sarei accontentata, avrei mentito a me stessa credendo di avere avuto un unico sentimento quella mattina. Senza la letteratura quel giorno non sarei stata investita dalla comprensione, da un’enorme filantropia e in fondo sì, anche da un senso inaspettato di squisita gioia e vitalità, come se qualcuno avesse aperto il sipario e mi avesse lasciato intravedere gli scorci di una storia che ha senso oggi, ieri, domani mattina.

Senza letteratura non avrei provato quel giorno, come direbbe Eliot, “un’estinzione della mia personalità”, della mia ristrettezza, del mio punto di vista, non avrei intravisto dei viali sterminati lungo i quali camminare ed evolvere il mio pensiero, non mi sarei riconosciuta in Gatsby, nella donna col carrello e nell’uomo al telefono, avrei continuato a “ri-pensare al futuro”.

E che cos’è la letteratura allora se non una sorta di preghiera? Un atto di speranza in fondo, quella creatura alata di Emily Dickinson che bussa al mattino e si annida nell’anima cantando melodie che non smettono mai, quell’essere vitale che si ode nella landa più gelida, “sui più remoti mari/ ma [che] nemmeno all’estremo del bisogno/ ha voluto una briciola-da me”.