L’anno della Storia. Il grande dibattito attorno al capolavoro di Elsa Morante

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Elsa Morante e Alberto Moravia

Caterina Mongardini, Venezia –

L’anno della Storia (1974-1975) (Quodlibet, 2018) di Angela Borghesi – professoressa di Letteratura Italiana Contemporanea presso l’Università Bicocca – è un volume importante per due ragioni ben precise (oltre che per la mole). Innanzitutto, perché raccoglie in un unico volume le recensioni, i saggi, gli articoli che in quell’anno cruciale, tra il 1974 e il 1975, furono scritti sul capolavoro di Elsa Morante, restituendo le voci che hanno accompagnato il libro sin dalla sua pubblicazione e che hanno contribuito a costruirne un “esoscheletro” da aracnide che ancor oggi incute un certo timore. Poi, perché individua e dà corpo al dibattito culturale e intellettuale che quel romanzo creò attorno a sé, come la tela di un ragno: un dibattito tanto fitto e denso che chi non ebbe la prontezza di esprimersi a caldo, chi non ebbe il coraggio di buttarsi nella mischia, si guardò poi bene dal farlo in seguito.

 

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È quello che successe a Franco Fortini che, sebbene in un primo momento rimase ammaliato dal romanzo – come era avvenuto per il Dottor Živago – perdonando alla scrittrice molte sbavature in favore di uno stile magistrale, decise di non commentarlo, nonostante vi avesse lavorato a lungo sia per Einaudi che per alcuni seminari che tenne all’Università di Pisa. Si rese conto, infatti, che non si stava più maneggiando quel prodotto editoriale, nato in edizione economica a distanza di 25 anni dal precedente romanzo della Morante, come un “romanzo”, ma a tratti come un saggio – pro o contro lo storicismo – a tratti come un testo sacro. Prendeva piede, così, sulle riviste, così numerose e ricche in quegli anni, un dibattito importante e inevitabile in un periodo storico in cui la contestazione politica portava sul banco degli imputati proprio quella Storia lì, la storia dei Padri. La constatazione, però, più importante che Fortini fece sul romanzo, in lettere private, riguardava la decisione di non parlarne più in Università, perché ai giovani era venuto a noia il trambusto della critica: allora, chi è che alimentava il dibattito? I Padri stessi, sentitisi chiamati in causa su di un terreno che credevano di padroneggiare e su cui però molti hanno fatto grandi scivoloni con stroncature o con elogi acritici (tipologie avversate da Fortini allo stesso modo: per cecità i primi e per miopia i secondi).

Il libro della Borghesi è allo stesso tempo un saggio sui e una raccolta dei contributi, diversissimi, che permettono al lettore non solo di individuare i collegamenti, i rimandi, le analogie e le critiche interne al mondo intellettuale che si misurava e si scontrava con La Storia, ma rivela anche la società che mutava pagina dopo pagina, anno dopo anno: l’appartenenza “anagrafica” di quasi tutti i commentatori, nati prima o molto a ridosso della guerra, vivendone le privazioni, già individua una parte importante di assenti: i giovani che intanto affollavano le piazze o si ponevano al di fuori dei partiti politici costituiti. In questo senso, La Storia ha avuto il grande merito di far emergere una frattura generazionale, dalla quale uscirà con una buona dose di agilità perché, appunto, romanzo, letteratura.

 

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A tal proposito, recentemente lo storico Francesco Benigno, in una sua prolusione presso la Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma, ha ragionato di come un esercizio prima di tutto letterario, come i “Misteri” (genere di romanzo d’appendice nato in Francia ai primi dell’Ottocento su Le Journal des débats), avesse finito per essere preso come fonte attendibile per descrivere la realtà. Da questo fenomeno derivarono conseguenze che non è questa la sede di enucleare, ma la conclusione più importante – a mio parere – è che si arrivò a compiere una erronea attribuzione di veridicità e attendibilità ad un prodotto concepito come romanzo, come feuilleton, senza prendere in considerazione la vena performativa messa in atto dall’autore. La performance romanzesca de La Storia da pochi è stata capita e, nella gara al commento più riuscito, magistrali furono coloro che trovarono lo spazio per ammirare il prodotto editoriale come un erede del grande romanzo naturalista: imponente, destinato a un pubblico ampio, con un narratore onnisciente, descrittivo, ricco di digressioni che hanno però il merito di tornare sempre al punto da cui sono partite, progettato su una grande struttura e su essa costruito.

Sarebbe altresì sbagliato affermare che La Storia sia solo performance. L’inserimento da parte dell’autrice di tematiche scottanti come il problema della droga nel personaggio di Davide Segre, o della spiritualità ritrovata della filosofa Simon Weil (giovane marxista, vicina ai trotskisti e agli anarchici, scomparsa a soli 34 anni, nel 1943) celebrano ciò che un romanzo è capace di congiungere: il sacro fuoco della letteratura e l’aspra e profana critica sociale, senza però pretendere di diventare saggio, manifesto politico, ideologia. Proprio sull’ideologia, sciupata dal sentimento secondo alcuni – tra i quali Rossana Rossanda –, la sinistra ha fatto leva nelle recensioni negative che volevano ridimensionare la carica progressista del libro e dell’autrice. Ma, nel ’74-’75, è più progressista un best-seller in vetta alla cima delle classifiche delle vendite – scritto per un pubblico molto ampio, di massa, uscito in edizione economica proprio per questo scopo – oppure un pamphlet, carico certo di ideologia, ma anacronistico nei toni e di scarsa diffusione perché di nicchia?

 

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Elsa Morante con Natalia Ginzburg

 

Tornando al timore che si ha (soprattutto a scuola) nell’affidare tale lettura ai ragazzi e, di contro, alla diffidenza dei ragazzi stessi nell’affrontare tale lettura, entrambi questi sentimenti sono stati giustificati dal dibattito denso, sacrosanto, complicato, sottile a tratti che lo ha circondato e riplasmato dall’esterno. Già solamente il commento di Pier Paolo Pasolini al libro – che generalmente è il contributo più conosciuto – attribuisce al romanzo tre registri o, se si preferisce, tre chiavi di lettura, che sezionano il libro fino ad avere la sensazione di averlo già letto e che sia inutile, quindi, affrontarlo.

Leggere i contributi alla luce del saggio della Borghesi aiuta a destrutturare questo manto di giudizi e a rendere meno spaventoso il romanzo. Ma ai ragazzi non si può dire di leggere prima un saggio sulla critica a La Storia, e poi, solamente dopo, La Storia. Gioverebbe, però, spiegare a chi per un motivo o per un altro non ha ancora letto il libro, che la letteratura è sì specchio di cultura e società, ma è pur sempre letteratura. Anzi: un classico. E Italo Calvino, che pure non mancò all’appuntamento del commento su La Storia nel settembre del 1974, ne dà una definizione involontaria quando, nel 1981, scrivendo su L’Espresso il suo “Italiani, vi esorto ai classici” (articolo poi raccolto in Perché leggere i classici, 1991), affermava che:

 

 “I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume)”.

 

E non a caso, uno degli esempi a cui faceva riferimento erano I Demoni di Dostoevskij, grande e imponente romanzo ottocentesco.

 

Angela Borghesi
L’anno della Storia (1974-1975)
Roma, Quodlibet, 2018
pp. 918