La scrittura della Storia – Intervista ad Alessandro Barbero

A cura di Paolo Perantoni – Verona


Inizierei con una domanda un po’ banale, che tuttavia per noi storici ha sempre importanza: perché ha scelto di studiare Storia?

 

Credo che qui la risposta debba essere biografica, quindi priva di qualunque interesse, però nel mio caso specifico io fin da bambino ero appassionato di Storia… ed ero appassionato di Storia, credo, perché le cose che trovavo da leggere in casa erano molto di quel genere lì: in particolare direi che ha avuto un impatto decisivo (parliamo degli anni Sessanta, quando io ho imparato a leggere) la rivista Storia Illustrata a cui era abbonata mia nonna – ed era molto ben fatta – e insomma io mi ricordo benissimo che da bambino, a sette o otto anni, leggevo Storia Illustrata. Poco dopo, direi, a dieci o undici anni, scrivevo – credevo di scrivere – articoli di Storia copiando dei pezzi di articoli di Storia Illustrata (pensavo che quello significasse scrivere la Storia). Quindi nel mio caso è nato da quello e non ne sono mai più uscito.

 

Bene, questo è un perfetto assist per la seconda domanda. Vorrei chiederle che concezione ha della divulgazione della Storia. Bisogna divulgare?

 

Ma sì, sì. La risposta rischia di essere banale, ma naturalmente la divulgazione è necessaria, ed è particolarmente necessaria, direi, nel nostro Paese oggi – nel senso che c’è sempre stato un pubblico (mia nonna, ad esempio) interessato alla Storia e che trovava una divulgazione anche di alto livello, tutto sommato, in riviste come la Storia Illustrata che ho menzionato prima, e però questo pubblico fino a qualche anno fa in Italia riceveva invece, quando cercava dei libri di divulgazione, del materiale di bassissimo livello in generale, o magari di buon livello come scrittura ma di bassissimo livello come aggiornamento e capacità critica dei contenuti. Ecco, è vero che fino a non molto tempo fa gli storici italiani non si occupavano granché di questo (e neanche gli veniva chiesto peraltro, da nessuno) e invece la divulgazione la facevano i Montanelli e tanti altri; i quali, ripeto, magari scrivevano anche molto bene ma, naturalmente, quello che divulgavano non era quello che avrebbero dovuto invece divulgare. Adesso mi pare che il pubblico e l’editoria siano maturi per leggere dei libri di Storia, magari un filo più impegnativi, che non cercano di far credere che la Storia sia soltanto un raccontino di aneddoti inanellati, ma un qualcosa che ti costringe anche a riflettere un pochino sulle cose, e noi siamo (credo) maturi per farcene carico, e abbiamo voglia di farcene carico. Poi direi che al di là di questo, cioè la divulgazione per quella nicchia di pubblico che ama legger di Storia, oggi in Italia c’è l’altro problema drammatico, cioè il fatto che da noi la “storia patria” è materia di contesa politica, arma di scontro politico, e lì la situazione è particolarmente grave, perché su quello la scissione c’è ancora – cioè esiste una capacità dei politici, e di chi vuole fare un uso ideologico della Storia, di raggiungere un ampio pubblico con invenzioni totali, con stravolgimenti di parte del passato (recente o meno recente), e lì sembra che il pubblico non abbia ancora gli anticorpi per accorgersi che quello che gli viene somministrato è un veleno. E anzi, il pubblico in questo momento va dietro, cerca storia di parte, cerca revisionismo che accarezzi le sue velleità politiche e i suoi sogni ideologici, ed è del tutto indifferente al fatto che quello che gli viene raccontato abbia qualche fondamento storico o non ce l’abbia, anzi non percepisce neanche il problema. L’impressione è che abbiamo di fronte un pubblico il quale crede che ciò che sta scritto in un libro è vero per il fatto stesso che sta scritto in un libro, e perché è quello che vuole sentirsi dire, ecco. Non è ben chiaro cosa possiamo fare, perché non è che si possa semplicemente richiedere una divulgazione contrapposta da parte nostra, perché sul libro non ci sono mica le stelline di qualità che ti dicono questo è buono, compralo, questo invece è spazzatura, non comprarlo. D’altra parte anche mettersi a polemizzare invece in senso accademico con un libro pieno di fregnacce, pubblicando un testo accademico con le note in cui dimostri che sono tutte fregnacce, anche quello rischia di servire a poco – perché le centomila persone che hanno comprato il libro non vanno a leggere la tua confutazione. Quindi su quello, non so… è una battaglia aperta direi: non è ben chiaro in che direzione bisogna muoversi, però la battaglia c’è sicuramente.

 


E nel suo rapporto con i media quali rinunce ha dovuto fare, se ci sono state? Penso ad esempio alle tempistiche, al tempo stretto della radio e della televisione.

 

La radio non è un problema, la radio ti lascia lo spazio per sviluppare le cose – adesso è un po’ che non ne faccio più, però ho fatto molte volte quella trasmissione di cui si parlava prima, Alle otto della sera, e un intero ciclo di puntate di Alle otto della sera aveva il respiro di un libro, di un piccolo libro (tanto è vero che c’è una collana di Sellerio in cui sono usciti una serie di piccoli libri, ciascuno dei quali corrisponde a un ciclo di Alle otto della sera). Quindi la radio non crea grandi problemi, la televisione sì, però forse anche gli esperti della televisione sbagliano a credere che sia indispensabile un ritmo così frenetico, che sia indispensabile la brevità estrema – sulla semplicità del linguaggio hanno ragione, ma sulla brevità si potrebbe discutere. In effetti io poi in televisione faccio una cosa sola, faccio Superquark con Piero Angela, e lì l’obbligo di stare entro i quattro, cinque o sei minuti – proprio al massimo, perché la trasmissione è montata in quel modo lì – può essere un problema: non puoi mai affrontare dei temi di discussione, puoi soltanto raccontare degli aneddoti. Poi, di aneddoti per un po’ riesci a trovarne di significativi, che quindi aprono allo spettatore comunque degli squarci sul passato, però alla lunga diventa sempre più difficile trovare qualcosa che si possa raccontare in cinque minuti e che abbia un senso al di là del puro e piccolo divertimento. Ecco, direi che la televisione non è un buon mezzo per fare una vera divulgazione storica come si deve.

 

A proposito di supporti sui quali lei ha fatto divulgazione, come si rapporta con le nuove tecnologie? Ho visto, ad esempio, che sono usciti alcuni suoi dvd di argomento storico e mi ha sorpreso anche l’utilizzo di Youtube come strumento per arrivare al pubblico.

 

Io in questo caso non ho fatto assolutamente niente. Youtube in particolare è un mezzo, come è nella sua natura, che si riproduce da solo, per germinazione spontanea, per contributo universale della comunità, quindi io non ho fatto assolutamente niente e non ho neanche particolare dimestichezza e voglia di mettermi in prima persona a fare delle cose. Per fortuna le cose avvengono, ripeto, da sole: ormai è normale che, quando fai un intervento in pubblico, possa essere filmato e messo in rete. In certi casi è proprio ufficiale… ad esempio la Laterza quando fa i suoi cicli di lezioni di Storia li filma e li mette in rete, la Rai fa dei podcast, insomma tutto questo avviene e mi sembra che vada benissimo. Io forse per gusto mio, e voglia, e tempo, non so se mi metterei a sperimentare un progetto nuovo tutto indirizzato alla rete; nel senso che è ovvio che è un mezzo importantissimo, però io preferisco e mi trovo più a mio agio a scrivere e a parlare davanti a un pubblico in carne e ossa. Le cose registrate senza un pubblico in carne e ossa, come ad esempio la televisione di Superquark, le faccio perché una volta che hai cominciato è difficile smettere, le faccio perché è bello raggiungere un pubblico ampio e ogni tanto qualcuno ti riconosce, le faccio perché ti pagano – però, devo dire, non è un piacere ma è una fatica confrontarsi con un mezzo così freddo. Confrontarsi con un pubblico è bello e se poi la cosa va anche in rete senza che uno debba fare niente di particolare va benissimo, ovviamente.

 

A proposito di questo e della sua esperienza a cavallo delle decadi, come ha vissuto e come vive i cambiamenti sociali che hanno portato anche nella stessa disciplina storica queste grandi problematiche, come il revisionismo, che citava prima? Come ci si deve rapportare con questi cambiamenti?

 

Dunque, è una domanda non facile. Io direi questo: prima nel dibattito abbiamo discusso a lungo del fatto che ovviamente ogni storico ha una visione soggettiva, però dobbiamo anche stare attenti, perché va bene riconoscere questo problema e quindi sapere che non siamo infallibili, e che non siamo mai del tutto veramente oggettivi; però una volta che tu hai riconosciuto che è molto difficile – anzi è impossibile – essere pienamente oggettivi, bisognerebbe dedurne che bisogna fare una gran fatica per cercare di esserlo comunque il più possibile (è quello il discorso corretto da fare). Invece a volte sembra succeda che, una volta che si è detto che tanto oggettivi non possiamo essere, a questo punto “vai, scatena pure il tuo pregiudizio, il tuo preconcetto, la tua visione di parte, la tua visione ideologica” – perché “tanto siamo tutti uguali, nessuno è oggettivo” e allora una cosa vale quanto l’altra. Questa a me sembra una degenerazione intellettuale e culturale che ha preso, non forse la ricerca storica vera e propria, quanto piuttosto il rapporto del pubblico con la Storia. È la concezione da talk-show, per cui se c’è uno che afferma che la terra è rotonda, ci deve anche essere uno che afferma che è quadrata – e poi Giacobbo dice “a voi pubblico il giudizio su chi dei due ha ragione”. Ecco, questo non deve succedere, o meglio, non dovrebbe succedere. Dovrebbe essere evidente quando uno dice delle stronzate e quindi dovrebbe essere messo a tacere, invece purtroppo la grande democrazia che noi oggi abbiamo, che permette a chiunque di esprimersi, fa anche sì che non ci si chieda neanche più “ma quello lì ha il diritto di dire queste cose? Da dove le tira fuori? Come le giustifica?” – no, tutti hanno il diritto di dire le loro cose di parte. Questo non fa bene, non è bello, secondo me sta un po’ guastando i criteri, non dico scientifici ma intellettuali, con cui la gente dovrebbe pur sempre rapportarsi con quello che le viene detto.


A proposito del rapporto con i lettori, con chi sostanzialmente abbiamo davanti, lei ha un ideale di lettore a cui si rivolge quando scrive?

 

No, assolutamente no. A parte che quando inizi ad avere un minimo di successo desideri ovviamente allargare il più possibile il pubblico… ma in ogni caso direi di no, anche perché innanzi tutto uno scrive per se stesso, e poi a seconda del lavoro, del manufatto che sta fabbricando – allora devi sapere che quell’articolo per l’Archivio Storico Italiano è destinato al professor Varanini (professore di Storia Medievale dell’Università di Verona, ndr) e invece il romanzo mondadoriano se va tutto bene sarà letto da ventimila o cinquantamila persone (e quello lo devi sapere come livello di complessità della lingua, del discorso). Però no, forse sono un po’ autistico nella mia scrittura, però non mi preoccupo minimamente di che faccia avrà e chi sarà poi colui che legge.

 

E quindi, a proposito della scrittura: come scrive? Qual è la sua giornata tipo? E poi: scrive alla rinfusa, o in maniera ordinata? Ha un progetto in testa oppure procede a casaccio nel comporre un libro?

 

Dunque, la domanda in realtà mescola temi diversi. Un conto è se uno ha una giornata ordinata tipo Moravia che scrive al mattino, e così via… un conto è il progetto di un singolo libro. Comunque io non sono molto ordinato in nessuno dei due casi, direi. Adesso con gli anni, e la fatica, e il diminuire della forza fisica mi rendo conto che, per esempio, se devo fare della scrittura creativa è più facile farla al mattino, e invece al pomeriggio è più facile rileggere, rispondere alle e-mail, preparare le lezioni, fare tutte queste cose – ma queste sono stupidaggini, perché poi in realtà ognuno è fatto a suo modo. Io non ho una giornata precisa – anche perché potrei dirle che io normalmente scrivo alle tre e mezza del pomeriggio, tranne il giorno che sono a Verona perché devo parlare, però anche il giorno dopo sono da un’altra parte a fare un’altra cosa, per cui le mie giornate sono un po’ diverse una dall’altra. Il progetto di un libro è un altro discorso… però anche lì io sono disordinato generalmente: in teoria uno penserebbe che bisogna prima fare le ricerche e quando hai tutto magari pensare, ecco io non penso mai, non mi fermo a pensare in astratto, ma cerco di passare subito dai materiali che ho accumulato alla loro trasformazione – è un lavoro di cucina sostanzialmente, hai delle materie prime e le trasformi in qualcos’altro, in un prodotto finito: io in genere comincio a scrivere prima di aver finito di fare la spesa, quando comincio ad avere delle idee inizio a scrivere dei pezzi. Forse l’unica cosa che si può concettualizzare di questo è che io comincio a scrivere e penso alla scrittura come a un’approssimazione successiva: cioè se so che devo vedere dieci documenti su quell’argomento e i primi quattro mi hanno dato una certa idea, in genere comincio a buttar giù una prima stesura sulla base di quei primi quattro, e poi vedremo. Se ci ho azzeccato anche gli altri sei via via mi verranno a confermare questa cosa, ad arricchirla; se invece non ci ho azzeccato per niente lo cambierò, lo rifarò – però io cerco di avere sempre una prima stesura di quello che sto scrivendo, che rifletta le cose che ho capito e che so fino a quel punto (in modo che, in qualunque punto dovesse interrompersi, rispecchi lo stato dell’arte). Non è un modo da consigliare, perché ti costringe spesso a buttare via dei pezzi già fatti, però per come sono fatto io, io lavoro così.

 

E la rilettura del testo è solo sua, oppure chiede a qualche esperto o amico di rileggere prima della pubblicazione, o prima della consegna alla casa editrice?

 

No, lo faccio soltanto io, ma è di nuovo tutto sbagliato… hanno ragione gli americani, i quali pubblicano i loro libri e poi ci sono una pagina e mezza di ringraziamenti a tutti gli amici che hanno letto, riletto, discusso. Io anche in quello sono estremamente individualista, non mi capita quasi mai né di discutere delle cose che sto studiando, né meno che mai di far leggere quel che ho – però anche qui non è una cosa che consiglio, io penso che possa fare molto bene invece far leggere ad altri e discutere con altri quello che si fa. È semplicemente una stortura mia, e io mi sono abituato ad accettarla, ormai a questo punto della vita le mi storture non cerco più di correggerle.

 

A proposito dell’edizione di un libro, che rapporto ha con gli editor e con le case editrici?

 

Quello pessimo che hanno tutti: affrontare l’editing è sempre una cosa drammatica, che come reazione immediata ti provoca una reazione di odio feroce e di disprezzo profondo verso chi ha fatto l’editing. Poi in genere, ripensandoci su, ti accorgi che invece un dieci per cento dell’editing può essere utile – anche qui generalizzo, ma diciamo che se uno dovesse far fare all’editor l’editing e poi dovesse pubblicare il libro così, senza un contraddittorio, sarebbe catastrofico e l’editing peggiorerebbe sempre totalmente qualunque cosa che tu hai fatto. Però sta di fatto che l’editor trova anche la cosa che invece hai sbagliato, la cosa che potevi far meglio – perché la dico in modo così drastico? (in realtà magari non è neanche così) – sta di fatto che a pelle vedere l’intervento di un altro su quello che tu hai scritto ti manda in bestia. E il problema è che gli editor spesso sono persone zelanti, a cui hanno insegnato ad applicare un metodo e questo non va bene, non va bene neanche per la saggistica e meno che mai per i romanzi. Poi in realtà io ho sempre avuto esperienze di editing pesante solamente con i romanzi… nella saggistica è diverso, un po’ perché le case editrici sono più piccole, più povere e hanno meno soldi da spendere in quello (mentre Mondadori può permettersi di pagare un editor per un romanzo), un po’ perché nella saggistica non puoi mettere uno qualunque a fare l’editing (mentre invece l’editor di romanzi può essere qualcuno che ha imparato a fare l’editor in astratto, in termini generali), sta di fatto che gli editing più faticosi sono quelli lì. Per esempio adesso che sto facendo, insieme con Sandro Carocci, un manuale di Storia per la Laterza, vedo che anche per il manuale loro prevedono un editing molto massiccio, che è utile certamente – nel senso che una persona che è abituata a mediare con il mondo della scuola ti insegna effettivamente certe cose giuste – dopodiché ti accorgi che l’editing è fatto da persone a cui hanno riempito la testa, appunto, di regole astratte; e – non dico una volta su dieci, ma tre volte su quattro – le regole astratte ti portano a peggiorare quello che tu avevi fatto. Quindi direi che l’editing è sempre una lotta durissima, in cui si può arrivare anche a rompere i rapporti personali, o a rischiarlo… è una fase controversa del lavoro.

barbero napoleone

Veniamo ora al rapporto tra Storia e narrazione: cosa ne pensa in linea generale del romanzo storico (come testo e come genere letterario, in un certo senso)?

 

Non posso parlarne male, credo, visto che ne scrivo anch’io. Ma… non è neanche un genere letterario, la verità è questa, perché i romanzi storici possono essere cose diversissime fra loro. Possono essere specialmente polpettoni in costume (e questo vale anche per i film, d’altra parte), possono essere sofisticatissime operazioni che in realtà non parlano affatto della Storia, ma parlano del presente – come sono i romanzi storici di Umberto Eco, per esempio – oppure possono essere, come cercano di essere i miei, forme di comunicazione dei risultati della ricerca parallele e alternative in qualche misura alla comunicazione tradizionale. Quindi non esiste un genere del romanzo storico, e non credo che si possa neanche dire cosa se ne pensa, perché è una realtà talmente grossa, è una realtà enorme del nostro tempo, specialmente del nostro tempo – o meglio, ovviamente c’è sempre stata, ma il grande successo e il fatto che le librarie hanno gli scaffali che cigolano sotto il peso di innumerevoli romanzi storici, quello è un dato di fatto, bisogna farci i conti. Io credo che la grande maggioranza dei romanzi storici che circolano siano pessimi, dal mio punto di vista, cioè roba non fatta bene, per farti capire davvero il passato; perché per lo più non sono scritti da gente che il passato lo conosce davvero e, insomma, gli manca qualcosa. È una sensazione che nasce dal fatto che ogni tanto ho provato a leggerne qualcuno, quindi non è una sensazione basata su una larga campionatura (perché io poi in genere non ci riesco ad andare avanti a leggerli), però vedo che anche quelli che vanno per la maggiore – che ne so, Falcones, La cattedrale del mare – ecco, di fatto è spazzatura, è un romanzo ambientato nel Medioevo che comincia con lo ius primae noctis, tanto per capirci. E quindi è un fenomeno anche un po’ inquietante, però che evidentemente ha anche un aspetto positivo alle spalle, cioè il fatto che la gente ha voglia di leggere cose ambientate nel passato… che poi gli venga fornito un vitto da McDonald’s, questo è quello che succede quando la gente ha voglia di qualcosa in massa, purtroppo.

 

E chi dovrebbe scrivere il romanzo storico, lo storico o il romanziere?

 

Lo storico, assolutamente lo storico (che poi deve riuscire anche a scrivere decentemente, si capisce). Ma il senso della faccenda sta proprio in quello: che scriva uno che ha da comunicare delle cose, e non uno che, come fa Ken Follett, deve chiamare il consulente per sapere che cosa dire (dopodiché Follett ha fatto un grande romanzo di spionaggio a suo tempo, La cruna dell’ago, per cui tanto di cappello).

 

Come è iniziato il tutto, con il romanzo storico? Qual è stato il tarlo di scrivere un romanzo, e quando l’ha avuto?

 

È iniziato semplicemente… come dire, è una specie di parabola: io da bambino volevo scrivere di Storia, di storia militare, avevo quella passione lì. Poi sono diventato uno storico sul serio, nel senso che al tempo del liceo ho maturato l’idea di fare lo storico e sono stato abbastanza fortunato, come appartenenza generazionale, da vivere in un momento storico in questa cosa la potevi realizzare: e quindi sono stato addestrato ad una scuola molto severa, che è quella di Tabacco a Torino, sono diventato ricercatore molto presto (a 25 anni) e concepivo il mio mestiere in modo estremamente serio e severo. Però avevo anche delle voglie che andavano al di là di quello che era il mio mestiere, e in particolare avevo una passione per la storia militare, il periodo napoleonico, i soldatini – queste cose qua – che era stata repressa, cacciata dal quadro del lavoro vero, serio (che non è quello), e però molto presto mi sono accorto che continuavo ad aver voglia di leggere su questi argomenti, e di leggere fonti. E quindi ho cominciato ad accumulare letture, ad accumulare fotocopie, appunti e così via – in particolare c’era un tema che mi affascinava, che era la guerra di Napoleone contro la Prussia, quella del 1806, che appunto racconto nel romanzo (e adesso non stiamo a dire perché fin da bambino mi affascinasse proprio quella battaglia di Napoleone, perché è una stupidaggine, una cosa del tutto soggettiva) – però mi sono trovato a un certo punto ad avere talmente tanta voglia di leggere su quell’argomento che avevo anche il bisogno di un progetto in cui incanalare questa voglia.  E molto rapidamente mi sono detto che non si trattava di scrivere un libro di Storia sulla battaglia di Jena – “non ha nessun senso, io sono un medievista, quindi se mai scriverò qualcosa sarà un romanzo, e chissà se sono capace di scrivere un romanzo… vediamo, tanto non c’è nessuna fretta, non lo sa nessuno” – e quello è stato un progetto, un cantiere, che è rimasto aperto per dieci anni, senza nessuna particolare ambizione, né di pubblicare, né di scrivere un romanzo di un tipo o di un altro, ma esclusivamente per scrivere un libro che io avevo voglia di leggere, ecco… e siccome non c’era me lo sono scritto io, sostanzialmente.

BARBERO

Quali rinunce, dal punto di vista dello storico, ha dovuto compiere per scrivere un romanzo?

 

Nessuna, direi. Sa, io come storico – i colleghi sono gentili e generosi – ho fatto tante cose, ma non sono mai stato uno storico particolarmente forte dal punto di vista dell’elaborazione teorica, dell’intervento nei grandi dibattiti intellettuali… io anche come storico faccio delle cose tutto sommato più terra terra, di analisi delle fonti letterarie, o di ricostruzione puntuale di avvenimenti (anche se mi hanno messo in croce prima su questo) in base alle fonti d’archivio. Diciamo che se avessi voluto avere una reputazione di storico di grandissima levatura teorica, ecco, forse fare dei romanzi avrebbe potuto un pochino guastarmela all’inizio – adesso non più, ormai, perché mi sembra che tutti hanno voglia di fare dei romanzi, o li fanno, e poi vanno a presentarli da Fazio, anche i cantanti e anche i politici, tutti fanno dei romanzi e non è più scandaloso – ma all’inizio, quando io ho cominciato, avevo ancora un po’ la sensazione che fosse una cosa che, ecco, non sapevo con che faccia sarei andato davanti a Tabacco a dirgli “ho fatto un romanzo”. (Poi in realtà era già vecchio lui, era al di sopra di tutto e l’ha presa benissimo). Comunque ho dovuto rinunciare in parte, se mai l’avessi voluta, alla reputazione di storico severo, serissimo e di altissima levatura teorica, e invece i romanzi quadrano bene con la reputazione di storico che si occupa molto anche di divulgazione e così via.

 

E all’interno del processo di scrittura del romanzo, dove interviene lo storico professionista?

 

Ma… non credo che sia separabile: c’è sempre, è sempre lì che sorveglia se quello che stai scrivendo è vero o almeno è verosimile, perché appunto nel caso del romanzo basta che sia verosimile (però io alla verosimiglianza ci tengo, in realtà, ed è la verosimiglianza del fatto che i dialoghi, la gestualità, i rapporti tra le persone siano verosimili per quell’epoca e per quella situazione). Quindi lo storico è sempre lì.

 

Per finire: qualche consiglio di lettura, che vorrebbe affidare a noi, di storiografia, o di letteratura in genere?

 

Questa è la più difficile di tutte le domande… perché no, non si possono dare consigli di lettura, si può dire “a me è piaciuto follemente quel libro lì”, è l’unica cosa che si può fare. Dal punto di vista storiografico, sono cose che conoscete tutti: i modernisti avranno già letto Febvre, Il problema dell’incredulità nel sedicesimo secolo, oppure chi è medievista magari non ha letto il Mâconnaise di Duby (anche perché è un libro pieno di note) ma un medievista deve aver letto il Mâconnaise di Duby, ovviamente. Oltretutto io non leggo storiografia per puro divertimento e piacere, io leggo la roba che mi serve per quello che sto studiando in quel momento, proprio perché non ho un approccio teorico e non mi interesso particolarmente delle grandi questioni dibattute, e quindi non sento – è un difetto, sia chiaro – non sempre sento il bisogno di essere aggiornato sull’ultima cosa che è uscita in quel campo lì. È un difetto, ripeto, ma ormai fa parte dei miei difetti e sono fatto così. Io comunque quando leggo per piacere non leggo mai storiografia, leggo memorialistica – ecco, per lo storico questa è una cosa che consiglierei effettivamente, leggere diari, memorie, epistolari – oppure narrativa, ma lì i gusti sono quelli di ciascuno. Io posso dirvi che leggo molti più stranieri che italiani… che di italiani che valga la pena di leggere non è che sia rimasto molto – Aldo Busi, i primi romanzi, bisogna averli letti, effettivamente – ma per il resto diventa un elenco molto scucito, nel senso che gran parte delle cose che ho letto e di cui mi sono innamorato le ho lette più o meno alla vostra età… poi sono tanti anni che non leggo qualcosa da dire “accidenti che roba che ho scoperto” – e quando trovavo uno scrittore che mi piaceva in genere lo leggevo tutto (ecco, questa è una cosa che si può dire). Dopodiché sono i più diversi: da Jorge Amado, a Solženicyn… ecco, i russi: leggete i russi, che da noi si leggono poco perché sono difficili e sono anche poco tradotti, ma vanno letti assolutamente. Leggete Bulgakov, Il maestro e Margherita, leggete Jorge Luis Borges – saltabeccando proprio da un nome all’altro – leggete Saul Bellow, Philiph Roth, ecco, quelli lì (ma non vi dico niente di nuovo, come vedete). Comunque leggete quelli, piuttosto che l’ultimo romanzo appena uscito, quello avrete tempo di leggerlo anche dopo. E rileggetevi Dostoevskij, rileggetevi Tolstoj, rileggetevi Stendhal, ecco – assolutamente tutto, Stendhal tutto, anche i diari, anche gli appunti, le cose sparse.

 

C’è un libro che le ha cambiato la vita?

 

Proprio cambiato la vita magari no… il libro che mi ha cambiato la vita probabilmente è La società feudale di Bloch, perché è avendolo letto in seconda ginnasio che ho deciso definitivamente che avrei fatto il medievista; e poi forse Il maestro e Margherita, effettivamente. Sì, Il maestro e Margherita mi ha cambiato la vita: non che abbia portato conseguenze concrete – tranne il fatto che ho scritto un romanzo russo, però il romanzo russo non mi ha cambiato la vita, perché non ha venduto neanche una copia – però… Il maestro e Margherita è una di quelle cose che ti cambiano l’anima, probabilmente.

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