Il caso Shah Bano: uno scontro etnico

Shah-bano

Federico Brentaro – Bologna

Nell’aprile del 1978, Shah Bano, una donna musulmana di sessantadue anni, depositò un’accusa contro il marito Mohammad Ahmed Khan, con cui si unì in matrimonio nel 1932. La famiglia – composta dai due coniugi e dai loro cinque figli e da Halima Begum, seconda moglie di Mohammad – risiedeva a Indore, una città del Madya Pradesh.

Nel 1975 il marito allontanò la prima moglie dalla propria casa, provvedendo nei due anni successivi al suo mantemimento economico versandole una quota mensile di duecento rupie. Shah Bano, assieme ai figli, si trasferì in un appartamento adiacente alla haveli in cui visse per più di quarant’anni e, incoraggiata proprio dai figli, decise di depositare l’accusa contro il marito.

Shah Bano, nella sua accusa, poiché incapace di provvedere al proprio sostentamento si appellò alla sezione 125 del Codice di procedura penale del 1973 nella quale si legge:

 

125

Order for maintenance of wives, children and parents.

(1) If any person having sufficient means neglects or refuses to maintain –

his wife unable to maintain herself

[…]

a Magistrate of the first class may, upon a proof of such neglect of refusal, order such person to make a monthly allowance for the maintenance of his wife […] at such monthly rate not exceeding five hundred rupees in the whole

[…]

Explanation – For the purpose of this chapter.

[…]

(b)  “wife” includes a woman who has been divorced by, or has obtained a divorce from, her husband and has not remarried.

 

Il 6 novembre del 1978, mentre i due coniugi erano in attesa della sentenza, Mohammad Ahmed Khan divorziò da Shah Bano, consegnandole tremila rupie come pagamento della dote; facendo appello al Codice di famiglia musulmano si rifiutò di provvedere a ogni ulteriore spesa.

Il giudice, nell’agosto del 1979, ordinò a Ahmed Khan di versare mensilmente alla ex moglie Shah una somma di venticinque rupie. Shah Bano, l’anno seguente, fece appello all’Alta Corte del Madhya Pradesh chiedendo che la rata del mantenimento fosse portata a 179,20 rupie mensili.

Fu a questo punto che Mohammad Ahmed Khan si appellò a sua volta alla Corte Suprema. Secondo la difesa, le due leggi – il Codice di procedura penale e il Codice di famiglia musulmano – erano in conflitto fra di loro e quindi Khan, in quanto musulmano, doveva fare riferimento, innanzitutto, alla legge musulmana. Il secondo punto mosso dalla difesa fu il seguente: l’uomo aveva provveduto al mantenimento della moglie per un periodo ben superiore a quello di iddat e alla restituzione della dote, ragion per cui poteva beneficiare di quanto riportato nella sezione 127(3)(b) del Codice di procedura penale.

 

127

Alteration in allowance.

[…]

(3) Where any order has been made under section 125 in favour of a woman who has been divorced by, or has obtained a divorce from her husband, the Magistrate shall, if he is satisfied that-

[…]

(b) the woman has been divorced by her husband and that she has received, whether before or after the date of the said order, the whole of the sum which, under any customary or personal law applicable to the parties, was payable on such divorce, cancel such order,-

(i) in the case where, such sum was paid before such order, from the date on Which such order was made,

(ii) in any other case, from the date of expiry of the period, if any, for which maintenance has been actually paid by the husband by the woman;

[…]

 

Il processo si concluse il 23 aprile 1985, giorno in cui il giudice Chandrachud emanò la propria sentenza: Mohammad Ahmed Khan fu obbligato a pagare le spese del processo, pari a 10.000 rupie, e mantenere Shah Bano con un assegno mensile di 179,20 rupie.

shah khan

Il Muslim Women Bill

La sentenza scatenò un acceso dibattito in tutto il territorio nazionale.

I rappresentanti del Bharatiya Janata Party appoggiarono la sentenza del giudice Chandrachud, poiché auspicavano l’assorbimento della comunità musulmana in quella indù e l’eliminazione di un diritto di famiglia separato. Dal canto loro, gli esponenti della comunità musulmana, tranne poche eccezioni rappresentate da alcuni intellettuali e giornalisti, si opposero alla sentenza: se la legge coranica non è monopolio degli ulama, i dottori della legge, ma è aperta a ogni singolo fedele, altrettanto vero è che il giudice Chandrachud era un indù che aveva impedito l’applicazione del diritto musulmano; la sentenza venne percepita come una violazione della religione e della legge musulmana.

L’ultimo venerdì di Ramadan del 1985, i leader del Muslim Personal Law Board, un’associazione non governativa nata in India nel 1973 per salvaguardare il Codice di famiglia musulmano, trasformarono quella che era sorta come una semplice agitazione in un vero e proprio movimento di opposizione alla sentenza di divorzio.

Il primo ministro Rajiv Gandhi invitò il ministro dell’Interno Arif Mohammad Khan a difendere in Parlamento la decisione presa dalla Corte Suprema, ma, allo stesso tempo, non poteva perdere il consenso della maggioranza della comunità musulmana. Fu così che venne varato, nel 1986, il Muslim Women (Protection of Right on Divorce) Bill.

Nella legge è riportato che al marito spetta il mantenimento della moglie solamente durante il periodo di iddat: il periodo che copre tre cicli mestruali, nel caso in cui la donna ne sia soggetta; il periodo di tre mesi lunari, qualora la donna non sia più soggetta alle mestruazioni; se incinta, il periodo tra il divorzio e il parto o il termine della gravidanza.

Nel caso in cui la donna abbia dato alla luce un figlio poco prima o dopo il divorzio, il marito è obbligato a mantenere il figlio per due anni a partire dal giorno della sua nascita. Il marito deve restituire una somma pari alla dote che apparteneva alla moglie. Inoltre, la moglie è anche riconosciuta come la proprietaria di tutto ciò che ha ricevuto prima e durante il matrimonio da amici e parenti, sia suoi che del marito. Quando una donna divorziata, terminato il periodo di iddat, non è in grado di provvedere al proprio mantenimento, il magistrato può emanare un ordine in base al quale spetta ai parenti della donna garantirne il sostentamento. Nel caso in cui la donna non abbia parenti o questi non siano in grado di aiutarla economicamente, spetta al governo dello stato in cui risiede provvedere al suo mantenimento.

Dopo l’emanazione della legge, il Bharatiya Janata Party accusò il Congresso di aver assecondato le richieste della comunità musulmana e, allo stesso tempo, di discriminare gli uomini non musulmani, i quali rimangono “vittime” della sezione 125 del Codice di procedura penale, mentre per i musulmani l’“impegno” di mantenere l’ex moglie si restringe al solo periodo di iddat.

muslim women protest

Il divorzio nel mondo islamico

Quando il matrimonio viene considerato un contratto, come nella religione islamica, la sua dissoluzione è considerata un’azione lecita.

Nel versetto 229 del Corano, si legge:

“Si può divorziare due volte. Dopo di che, trattenetele convenientemente o rimandatele con bontà; e non vi è permesso riprendervi nulla di quello che avevate donato loro, a meno che entrambi non temano di trasgredire i limiti di Allah. Se temete di non poter osservare i limiti di Allah, allora non ci sarà colpa se la donna si riscatta. Ecco i limiti di Allah, non li sfiorate. E coloro che trasgrediscono i termini di Allah, quelli sono i prevaricatori.”

Il divorzio può quindi essere pronunciato due volte e questo tipo di divorzio è revocabile; tuttavia, nel momento in cui viene pronunciato per la terza volta diventa irrevocabile.

Il versetto 230 recita: “Se divorzia da lei [per la terza volta] non sarà più lecita per lui finché non abbia sposato un altro. E se questi divorzia da lei, allora non ci sarà peccato per nessuno dei due se si riprendono, purché pensino di poter osservare i limiti di Allah. Ecco i limiti di Allah, che Egli manifesta alle genti che comprendono”.

Il divorzio, inoltre, può avvenire solamente durante il periodo di tuhr, lo stato di purezza che segue a ogni ciclo mestruale. Durante questo arco di tempo, l’uomo coabitando con la moglie è portato a tenerla con sé, poiché durante il periodo mestruale, stando lontano dalla compagna, è più incline al divorzio. Dopo l’annullamento del matrimonio, solo quando è ancora revocabile, la donna deve attendere il trascorrere dell’iddat, cosicché il marito possa avere il tempo necessario per desiderare la riconciliazione.

Gli indiani musulmani si sono scagliati contro la sentenza del caso Shah Bano poiché secondo il Codice di famiglia musulmano, l’ex marito, dopo il divorzio, deve solo riconsegnare alla moglie la sua dote e provvedere al suo mantenimento per il periodo di iddat. Nel Corano, tuttavia, al versetto 241 si legge: “Le divorziate hanno il diritto al mantenimento, in conformità alle buone consuetudini. Un dovere per i timorati.”

Il libro sacro quindi non fissa alcun limite alla durata e all’ammontare del mantenimento.

L’Islam è una della prime religioni che ha riconosciuto il diritto alle donne di divorziare, questo è chiamato khul’; un diritto assoluto che non può essere negato.

 

Le letture consigliate:

J.S. Bhullar, Challenges of Democracy in India, Solapur, Laxmi Book Publication, 2016

Il Corano. Edizione integrale, a cura di Hamza Roberto Piccardo, Newton & Compton, Roma, 1997

A.A. Engineer, The Rights of Women in Islam, C. Hurst & Company, London, 1996

The Shah Bano Controversy, a cura di Asghar Ali Engineer, Sangam Books, London, 1987

M. Torri, Storia dell’India, Laterza, Roma Bari, 2010

 

Sitografia:

What is Shah Bano case?, in “The Indian Express”, Link consultato il 04/06/2020 http://indianexpress.com/article/what-is/what-is-shah-bano-case-4809632/

The Code of Criminal Procedure Act, 1973, in “Internet Archive”, Link consultato il 03/06/2020 https://ia800506.us.archive.org/9/items/1974a/1974a.pdf