Dal teatro sperimentale e sociale al teatro di oggi: una chiacchierata con Gianni De Lellis tra ricordi, uomini, idee, teatro e letteratura

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La biografia di Gianni de Lellis inizia con un chiaro e riconoscente riferimento alle sue radici. Figlio di un Presidente di Corte d’Assise racconta che suo padre esercitava  la sua professione in un tempo in  cui i processi  venivano allestiti con il gabbio e l’ imputato dietro le sbarre; gli avvocati, a loro volta, si cimentavano nella recitazione di monologhi interpretati con enfasi che diventavano veri e propri pezzi di teatro. Le loro dissertazioni  o Arringhe venivano raccolte e pubblicate su una rivista dal titolo Eloquentia che,  in modo esplicito, indica quanto importante fosse l’ arte del disquisire e del ben parlare. Le Arringhe, insomma erano dei veri e propri pezzi di teatro, inserite in un contesto scenico più o meno fisso. La rappresentazione iniziava sempre allo stesso modo ovvero con l’ usciere che invitava a rendere omaggio alla corte annunciandone il suo insediamento sulla scena. Poi proseguiva con un susseguirsi di battute,  un movimento di toghe svolazzanti,  un alternarsi di discorsi altisonanti per concludersi infine con l’ inconfutabile  giudizio della corte con cui veniva sancita la fine della rappresentazione.

Così esordisce Gianni de Lellis, attore della compagnia Teatro della Pergola di Gabriele Lavia, attualmente in tournée nelle principali città italiane con Il Padre di Strindberg. Alla nostra domanda riguardo ai suoi esordi come attore ci confessa che fin dai tempi scolastici, vissuti in un periodo in cui si privilegiavano i contenuti imparati a memoria, suo padre, avendo appreso un gran numero di  brani e poesie a memoria,  si dilettava a condividerli in famiglia e,  naturalmente,  non trascurava di recitare le famose Arringhe nella illusoria speranza di avviare suo figlio alla carriera legale. Ma le cose non andarono così…

A cura di Oriana Rodella, Alessandro Rigo, Paolo Perantoni –

Giunto all’ università, ufficialmente frequentavo gli studi di giurisprudenza, di sera invece partecipavo ai corsi di recitazione gestiti dall’ Arci dove un regista lungimirante mi preparò  affinché potesse sostenere l ‘ esame per accedere all’ Accademia. Fu un trionfo! Su trecento candidati, non solo mi classificai tra i primi quattro, ma vinsi anche una borsa di studio. A questo punto mio padre non potè che prendere atto della situazione:  mi portò a colloquio con due miti del teatro, Sara Ferrati, attrice di grande temperamento  e Sergio Tofano, attore ironico, sottile e leggero, autore di un memorabile fumetto: Il Milione del Signor Bonaventura pubblicato sul “ Corriere dei Piccoli”. Quando papà vide i primi contratti accettò l’ idea di avere un figlio attore…

 

Quando ebbe la prima chiamata come attore?

Mi reclutò all’epoca un regista che insegnava in Accademia il quale aveva organizzato d’estate uno spettacolo teatrale con testi a sfondo religioso di un autore spagnolo, Antonio Buero Vallejo, dal titolo Il concerto di Sant’ Ovidio. Mi portò con la compagnia in Toscana, a S. Miniato. La rappresentazione trattava di una orchestrina di ciechi che, guidati da uno sfruttatore incallito, veniva esibita nelle fiere come materiale da circo. Io personificavo un cieco meningitico che, con gli occhi sbarrati che si esibiva cantando testi demenziali. Allora mi dissero che questo spettacolo sarebbe stato ripreso dal Teatro Stabile di Genova e che avrei potuto senz’altro lavorare a quella e ad altre produzioni. E infatti mi inserirono nel calendario del teatro di Genova diretto da Luigi Squarzina. Con lui c’erano Alberto Lionello, Lucilla Morlacchi, Eros Pagni, Omero Antonutti. Il primo anno ho fatto ben cinque produzioni.

 

E poi come andò?

Un giorno il direttore mi chiamò e mi disse: “Senti Gianni, ma non ti piacerebbe andare in America? Se superi il provino di canto ti mando a New York con I due gemelli veneziani di Goldoni!” Superai il provino! Era uno spettacolo meraviglioso, con un Lionello incredibile che interpretava entrambi i gemelli, quello stupido e quello intelligente. In una scena in particolare era davvero esilarante perchè cominciava con l’uno e poi passava all’altro vestendo i panni prima dell’ingenuo e poi del furbo. A un certo punto infatti i due fratelli si rincorrevano dietro a un paravento e c’era un assistente nascosto per aiutarlo con il cambio d’abiti: non appena Lionello si affacciava dietro al pannello gli inforcava al volo cappello e sciarpa per la parte dell’ingenuo. Lui usciva dal paravento e mutava completamente atteggiamento a seconda del personaggio che vestiva. Il pubblico applaudiva sempre calorosamente.

 

Quanto tempo siete rimasti in tourné in America?

Allora facemmo un mese di repliche! Ora quel teatro è diventato un garage. Ma ci pensate? Una compagnia italiana che va a New York per un mese di repliche! Questo è davvero un segno del cambiamento dei tempi…

 

Come si collega Parigi con le sue vicende artistiche?

A Parigi andavamo a vedere gli spettacoli del teatro Du Soleil: c’era un gran collegamento tra le compagnie una volta. Allora facevo parte di una cooperativa che si chiamava Gruppo Della Rocca, è stata una delle prime. Eravamo attori che avevano deciso di uscire dal contesto del teatro per riunirsi in cooperativa diventando padroni del proprio destino. Abbiamo segnato una svolta nel teatro italiano.

 

Da chi era composto il gruppo?

C’era il conte Roberto Guicciardini, morto recentemente. Era discendente di Francesco Guicciardini, avevano casa a Firenze proprio in via Guicciardini:lui era il nostro regista. La compagnia si chiamava Della Rocca per S. Gimignano, perchè lui aveva una casa proprio sulla rocca. Venivamo da tante realtà diverse del teatro italiano. È stata una esperienza bellissima degli anni ’70.

 

È cambiata la figura dell’attore?

Parecchio e questa esperienza la segnò molto perchè noi facevamo vera autogestione su tutto. Io per esempio curavo anche le pratiche amministrative, c’è chi andava al ministero, le donne della compagnia facevano le sarte, altri vendevano lo spettacolo etc. Inoltre il ruolo dell’attore è mutato anche nell’ottica dell’ impegno sociale: noi organizzavamo ad esempio le assemblee nelle case del popolo, chiedevamo al pubblico che cosa volessero che fosse rappresentato, istituivamo dei dibattiti a fine spettacolo per sapere l’opinione degli spettatori. Prima di realizzare uno spettacolo interrogavamo noi stessi e il pubblico. Volevamo produrre un testo che fosse importante in quel momento storico. Spesso infatti riscrivevamo i testi con Guicciardini proprio per rispondere a queste esigenze.

 

Il ’68 e gli anni ’70 sono stati tempi rivoluzionari per il teatro?

Sì in quegli anni abbiamo occupato l’Accademia perchè volevamo studiare di più e meglio, volevamo che venissero introdotte delle materie che non c’erano. L’obiettivo non era creare scompiglio, bensì il nostro desiderio era di apprendere meglio e di più. Ad esempio in Accademia non si studiava il mimo o l’uso della maschera e io mi son ritrovato in seria difficoltà quando recitai la Clizia di Machiavelli – il primo spettacolo del Gruppo della Rocca – in cui c’erano delle maschere da utilizzare. Volevamo ottenere migliore qualità dello studio, volevamo uscire dall’Accademia con un bagaglio formativo adeguato.

C’era sempre quest’idea del decentramento culturale, per cui dovevi portare il teatro anche nei piccoli comuni… Perché mai quelli dovevano prendere il pullman e venire a Firenze per vedere il teatro e non potevamo andare noi da loro? Ma facevamo una vita pazzesca, perché ogni giorno si cambiava città, ed eravamo noi stessi attori che dovevamo smontare, caricare, rimontare le scenografie; eravamo noi stessi i tecnici, la cooperativa era nostra, per cui facevamo tutto, per 10 mesi all’anno. E solo in Toscana ci stanno 105 comuni…

Oggi il teatro sociale è presente perché ci sono attori che trattano il sociale, come Marco Paolini ma anche Ottavia Piccolo, quando ha fatto la giornalista Politovskaya. Ma la differenza è che oggi è più unidirezionale: l’attore propone e il pubblico va a teatro, prima c’era un dialogo continuo con il pubblico.