Garibaldi agricoltore

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Alessia Pirola – Milano

La “vocazione” al mestiere di agricoltore che animò Garibaldi in diverse fasi della sua vita, tanto da fargli scegliere come terzo nome di guerra quello di Giuseppe Pane, è interessante non solo per la ricostruzione di alcuni tratti della personalità del grande generale ma anche in più complesso e articolato dibattito sull’agricoltura, in particolare quella sarda, maturato dalla seconda metà dell’Ottocento negli ambienti intellettuali e accademici. La questione sarda e le problematiche relative alle condizioni dei contadini sardi, “macilenti e pallidi”, come si legge in alcune descrizioni antropologiche di fine Ottocento, vennero alla ribalta proprio in questi decenni.

Garibaldi – già tra i principali esponenti della politica nazionale dopo la partecipazione al governo provvisorio di Milano e l’esperienza della Repubblica Romana – aveva ormai quasi cinquant’anni e manifestava già i primi segni dell’artrite quando decise, grazie al lascito del fratello Felice, di comprare alcuni appezzamenti nella desolata Caprera, un’isoletta dell’arcipelago della Maddalena a nord-est della Sardegna. Nei suoi diari è segnata la data – 29 dicembre 1855 – e il prezzo di acquisto che raggiunse la somma complessiva di 35.250 L.

Trascorse i primi mesi in tenda, mentre con l’aiuto del figlio Menotti, dell’amico Felice Origoni e di altri compagni d’armi, ristrutturò un rifugio dismesso di un pastore sul pendio del monte Tejalone – il più alto dell’isola – vicino al porto Taviano. La Casa Bianca, così da loro definita per il colore del granito locale utilizzato, era una costruzione a un piano con un tetto piatto per raccogliere l’acqua nello stile delle abitazioni di Montevideo in Uruguay. Iniziò così un lungo lavoro nel tentativo di addomesticare e rendere produttiva una terra che al momento del suo arrivo si presentava come una radura arida e inospitale, con rovi, ginepri e mirti fra gli interstizi delle rocce.

Poco a poco divenne una fattoria con bovini, capre, maiali e pollame. I capi posseduti, quelli venduti, regalati o morti, erano accuratamente annotati in un apposito Giornale del bestiame, dove riproduceva anche i segni convenzionali che si facevano nelle orecchie degli animali per distinguere il proprio gregge da quello degli altri pastori. Vista la natura rocciosa del suolo, per il trasporto del raccolto erano molto utili gli asini a cui Garibaldi era solito assegnare il nome di un avversario politico – da Pio IX, a Napoleone III e Don Chico, così soprannominato l’Imperatore Francesco Giuseppe.

Garibaldi a Caprera

Il Giornale di agricoltura testimonia l’intelligenza e l’innovazione del generale nella scelta della tipologia delle piantagioni: dall’eucaliptus, al ginepro, al pino, strettamente connessi con la bonifica del suolo. Molte furono le piante da frutto messe a coltura, utili anche per la produzione di conserve e marmellate; oltre a quelle più tradizionali non mancarono inoltre olivi, un vitigno di zibibbo e perfino canne da zucchero. Venivano raccolti circa 60 quintali di grano all’anno e uno spazio era riservato al granoturco.

Garibaldi si dedicò anche all’apicoltura, alla quale era riservato un apposito quaderno, su cui segnava il numero delle arnie e il tipo di fiore da cui gli insetti raccoglievano il polline.

Questi Giornali confluirono successivamente in un unico Diario. Ogni pagina era divisa in varie colonne dove erano riportate data, pressione barometrica, temperatura, umidità dell’aria, venti, fioriture e le attività della giornata. Nell’ultima colonna, infine, elencava le persone arrivate a Caprera o ripartite.

Questa raccolta di osservazioni pastorizie e agricole quotidiane nell’arco di dieci anni, dal 1 giugno 1864 a tutto il dicembre 1874, rivelano la straordinaria dedizione di Garibaldi e la volontà di imparare questo mestiere, facendo sua ogni tecnica e sperimentando qualsiasi innovazione. Ormai negli atti pubblici, ad esempio quando nel 1871 compilò la scheda per il censimento, egli stesso usava per indicare la sua professione, il termine agricoltore. Il suo entusiasmo traspare anche dalle sue lettere:

“Io poi, fratello, mi sono dato interamente all’agricoltura e vango dalla mattina alla sera, ed ho trovato (guarda ch’è bello!) che per quei tali dolori che tu m’hai conosciuto non v’è miglior bagno che quello della zappa”.

È curioso anche notare come l’immagine umile e modesta di Garibaldi agricoltore, con i calzoni grigi stretti alla cintola da una cinghia di cuoio, camicia rossa e stivali alti, coesista con quella del Generale, emblema della lotta per l’Unità d’Italia. Questo binomio emerge perfettamente nelle pagine del Diario, dove a fianco delle annotazioni giornaliere ricordava la ricorrenza di avvenimenti storici: “8 febbraio 1860: si ripara l’abbeveratoio – battaglia di Sant’Antonio del Salto”; “15 maggio 1860: si sega il prato – sbarco a Marsala”; “1 ottobre 1860: nasce un vitello – battaglia del Volturno”.

Si può presumere che queste meticolose registrazioni non cessino nel 1874, ma proseguano fino al 1882, l’anno della morte, nonostante gli storici non abbiamo mai trovato traccia di altri fascicoli.

Ad ogni modo non fu soltanto una passione: per Garibaldi una concezione moderna dell’agricoltura era la chiave per uno sviluppo economico-sociale e divenne parte di un preciso impegno politico.

Nel 1870, assieme all’amico e agronomo Francesco Aventi, presentò al Ministro dell’Agricoltura un progetto per la bonifica e la colonizzazione della Sardegna.

“Asciugare paludi, bonificare terreni incolti, impiantare colonie agricole e manifatturiere, istituire consorzi idraulici per dirigere le acque a beneficio della coltivazione; ed in questo modo aumentare la ricchezza nazionale, rinsanare interi territori condannati fin qui alle stragi della malaria, arrestare una emigrazione dannosa e fondare villaggi ove non esistevano che tuguri infetti, mi è sembrata impresa di tale utilità e grandezza da onorare altamente la società che potrà raggiungere il nobilissimo scopo. …».

Questa la premessa di un piano dettagliato che prevedeva la cessione a titolo gratuito di molti terreni ademprivili per la costituzione di 21 colonie, ciascuna di circa 5.000 ettari ciascuna, da destinarsi all’agricoltura e alla pastorizia, dotate di un efficiente sistema di irrigazione; il programma includeva inoltre l’istituzione di una scuola agraria e una veterinaria, la possibilità di importare tutti i macchinari e gli attrezzi necessari senza il dazio doganale e il diritto di prelazione per l’acquisto dei terreni riservato ai coloni.

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Questa proposta si inseriva in un più ampio disegno iniziato già alcuni anni prima con l’approvazione di varie leggi per l’abolizione degli usi collettivi sui terreni sardi nell’ottica della formazione e del consolidamento della proprietà privata. Di fatto emerse subito una decisa opposizione non solo tra i pastori, ma anche tra i piccoli contadini: i ceti più poveri venivano privati di tutti i diritti d’uso sulle terre comuni, unica fonte di sostentamento e sopravvivenza, aggravando ulteriormente la loro situazione economica. Questa fu una delle concause che ostacolarono lo sviluppo della Sardegna.

Lo spirito e l’impegno di Garibaldi non vennero mai meno nemmeno negli ultimi anni della sua vita, con l’inevitabile avanzare dell’artrite reumatoide, aggravata dalla ferita subita sull’Aspromonte, che lo costrinse progressivamente all’immobilità.

Dopo la fama acquisita con l’impresa dei Mille, Caprera divenne meta di patrioti e indipendentisti che gli facevano visita e continuò a seguire da vicino la vita politica del Paese. Nel mentre proseguiva gli studi sulle più innovative tecniche agronomiche, dirigendo i lavori nella sua fattoria e divenendo punto di riferimento per la piccola comunità locale.

Le letture consigliate:

E. Curatolo, Garibaldi agricoltore, Alberto Stock, Roma, 1930
D. M. Smith, Garibaldi. Una grande vita in breve, Laterza, Roma, 1982
L. Ortu, La questione sarda tra Ottocento e Novecento. Aspetti e problemi, Cooperativa Universitaria Editrice Cagliaritana, Cagliari, 2005
A. Mattone, Le origini della questione sarda. Le strutture, le permanenze, le eredità in L. Berlinguer, A. Mattone (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi, Einuadi, Torino, 1998