Rileggere Vita e morte nel terzo Reich di Peter Frietzsche. La trasformazione etica nella Germania nazista

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Paolo Felluga, Trieste –

«Chi aiuta i clandestini odia l’Italia», ha affermato il Ministro dell’Interno Salvini il 3 gennaio 2019 dal suo account Facebook.  Milioni di Italiani hanno premiato questo tipo di dialettica, dando al partito del ministro ottimi risultati elettorali. Come agisce, dunque, la violenza verbale della politica sui comuni cittadini? Qual è la forza di questo modo di fare politica, che identifica il diverso in un pericoloso nemico da combattere per salvare la propria comunità? Per approfondire tale fenomeno può essere utile ricorrere allo studio dei drammatici avvenimenti che si svolsero in Germania negli anni Trenta del XX secolo. Si noterà che tra questi due casi, profondamente diversi dal punto di vista dell’avvenimento storico, sussistono alcune affinità nei metodi utilizzati per conquistare cuori, menti e voti dei cittadini. In particolare, presentiamo lo studio condotto da Peter Frietzsche nel libro Vita e morte nel terzo Reich, analisi di quanto accaduto nella Germania nazista.

 

 

Il lavoro di Peter Frietzsche, professore di storia all’Università dell’Illinois, si chiede cosa sia stato a indurre i tedeschi ad applicarsi attivamente, o ad accettare passivamente, le aggressive politiche naziste. Il punto di partenza sono le fonti prodotte da persone comuni, fossero esse nazisti convinti, antinazisti o cittadini disinteressati.  La pubblicazione di Vita e morte nel Terzo Reich si inserì in un acceso dibattito in corso in Germania; sviluppatosi per la pubblicazione del volume di Daniel Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler, che ha affrontato il medesimo tema con le stesse premesse, ma arrivando a conclusioni ben più drastiche e inquietanti.

La ricerca di Frietzsche è uno sguardo al cambiamento umano che ha permesso lo svolgersi della “più inumana delle storie”. Infatti, il progetto di rinnovamento sociale e di conquista imperiale richiedeva al popolo tedesco enormi sacrifici. La gran parte dei tedeschi compì questo sforzo, accettando le politiche di denigrazione ed eliminazione dell’elemento ebraico o difendendo la Germania a oltranza, nonostante nell’ultimo biennio di guerra la sconfitta dei tedeschi risultasse ormai inevitabile. La pericolosità del nazismo, ci dice Frietzsche, è ancora attuale, poiché durante il nazismo e l’Olocausto è stata ampliata la nozione di ciò che è politicamente e moralmente possibile.

 

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A rendere i cittadini pronti a perpetuare i peggiori crimini in nome della Patria, vi era, in primo luogo, il concetto di comunità di popolo (Volkgemeinshaft). Questo concetto, nato al termine della Prima Guerra mondiale, significava la fusione di tutte le individualità del popolo in un’unica entità, che fungesse da soggetto attivo della storia. L’obiettivo era la creazione di una profondissima solidarietà tra i tedeschi e la riconciliazione di tutte le classi sociali, per rinnovare la Nazione e assicurarne la sopravvivenza. Quest’ultima si poteva garantire solo attraverso la soppressione di ogni individualismo, di tutte le minoranze e degli oppositori. Con questo fine, tra il 28 febbraio 1933 e la fine del 1934, circa 100.000 tedeschi furono rinchiusi in campi di concentramento.

L’appartenenza stessa alla comunità divenne un fattore esistenziale: si era camerati o nemici del popolo, tedeschi o antitedeschi, non vi era alternativa. La comunità, così intesa, era protesa verso la realizzazione dell’ideologia nazista, cioè verso il trionfo della razza tedesca su tutta l’Europa e sul mondo. Essa si poneva innanzitutto una missione: migliorare il proprio patrimonio genetico attraverso l’eliminazione, la segregazione e la sterilizzazione di tutti i soggetti asociali (ebrei, alcolisti, malati mentali, handicappati), per i quali non v’era speranza di miglioramento, né di reintegrazione. Per questa ragione c’era il bisogno di far accettare a tutti una nuova etica di responsabilità individuale, che prevedeva l’abbandono di ogni umanitarismo insulso e della «falsa umanità». I cittadini dovevano accettare la restrizione del diritto alla vita e alla prosperità ai soli ariani sani come qualcosa di assolutamente normale, quand’anche di auspicabile.

Infine, l’autore traccia l’importante ruolo che ebbe il vittimismo nella narrazione nazista della storia e della politica. La storia tedesca veniva riletta alla luce di complotti orchestrati da ebrei e comunisti che sabotavano il Reich tedesco. La sconfitta della Germania nella Prima Guerra Mondiale fu un vero shock per i tedeschi e aprì una fase di profondissima crisi economica e sociale. Il nazismo narrò la sconfitta militare attraverso la leggenda della pugnalata alla schiena, perpetuata da ebrei, socialisti e comunisti. La sopravvivenza della Germania era indissolubilmente legata alla distruzione dei suoi nemici naturali. Il vittimismo, anche durante la guerra, serviva a coprire e a spiegare i fallimenti del Reich. Inoltre, esso rafforzava allo stesso tempo la visione razzista invece che indebolirla: la colpa era sempre dei nemici interni, delle loro vili trame, evocate da Hitler fin dal 1933. La soluzione finale dunque era l’unica via per prevenire una nuova pugnalata alla schiena. La sua storia è approfondita nel libro, dal suo concepimento come piano di spostamento degli ebrei fuori dal Reich, alle fucilazioni sistematiche sul posto nell’Europa Orientale (1941) per finire con lo sterminio di massa in Germania, ideato nei primi anni di guerra ma applicato in seguito alla conferenza di Wannsee, nel 1942.

Alcune caratteristiche dell’analisi di Frietzsche sono riconoscibili anche nella politica d’oggi. A ottant’anni dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, l’aspetto comune più evidente è l’attacco all’empatia. Sotto l’etichetta di buonismo si colpevolizzano tutti quelli che cercano di difendere il diritto alla vita di tutti gli esseri umani. Alcuni partiti politici utilizzano toni violenti e spingono la popolazione a porre limiti all’umanitarismo per garantire la sopravvivenza del proprio Paese e della propria comunità, minacciata da un pericolo più immaginifico che reale. La comunità italiana del XXI secolo, da questo punto di vista, si definisce attraverso l’esclusione aprioristica di una determinata categoria e si autoesalta, come la Germania nazista. Per chi può farne parte, la scelta è accettare senza discutere i nuovi valori e le restrizioni all’empatia oppure esserne nemico mortale, attaccato con uno di nuovi e vecchi insulti, tra i quali è rispuntato il termine anti-italiano.

 

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Si noterà inoltre come i partiti politici oggi utilizzino il vittimismo, insistendo a presentarsi come lo schieramento svantaggiato. La loro missione politica è diretta a demolire i “poteri forti”, che controllano il mondo attraverso un gran numero di complotti orditi da lobby intoccabili. Anche se ciò non ha nulla a che vedere con il controllo capillare che il nazismo aveva sulla narrazione del passato attraverso il dominio delle coscienze e di tutti i mezzi di comunicazione, si nota come la metodologia sia la stessa: entrambi si presentano come innocenti vittime di un sistema crudele e collaudato, che deve essere scardinato per rendere migliore la vita della gente per bene.

Infine, si ritrova il concetto di non recuperabilità di coloro che non fanno parte della società nazionale. La segregazione e l’allontanamento anche in assenza di processi penali stanno diventando la normalità. Le navi piene di migranti salvati dalle onde del mar Mediterraneo attendono in alto mare che uno Stato dell’Europa prenda l’iniziativa di accettare i rifugiati. Essi sono trattati da colpevoli, la loro innocenza è tutta da dimostrare: l’esatto opposto di quanto dovrebbe accadere in uno stato di diritto. Il governo italiano nell’approvare il decreto sicurezza bis auspica di fermare e di multare quanti salvano i profughi dalle barche che colano a picco: ciò significa rinnegare il godimento del più basilare dei diritti, quello alla vita. I cittadini lo accettano, l’allargamento di ciò che è moralmente possibile è compiuto.

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