David Forgacs: la logica della marginalità nella storia d’Italia

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Michele Magri, Padova –

 

«I margini sono […] prodotti di un discorso, ma si tratta di un discorso che presuppone e produce realtà in molti modi».
(p. XX)

 

Con queste parole David Forgacs, italianista alla New York University e storico culturale i cui studi si sono a lungo concentrati sulle pratiche del consumo culturale nell’Italia del Novecento, cerca di spiegare il concetto chiave, certo non facile da definire e dal cogliere, del proprio volume Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi (Laterza, Roma-Bari, 2014).

Con questo prezioso e interessante lavoro, l’autore parte per un’immersione a ritroso nella storia italiana alla ricerca dell’origini della «creazione discorsiva di gruppi marginali e socialmente esclusi» (p. XXVI). E la individua, in alcuni casi paradigmatici e significativi, solo all’apparenza non correlati, racchiusa tanto nella produzione intellettuale quanto nelle pratiche concrete. In questo modo emergono, talvolta in maniera sorprendente, quelle dinamiche di potere, più o meno consapevoli, che hanno accompagnato e hanno contribuito a strutturare e definire la società italiana dal Risorgimento fino ai giorni nostri come un centro contrapposto e distanziato rispetto a dei margini, ad un tempo geografici, sociali e culturali. Non solo, l’operazione di Forgacs punta a riportare quei margini al centro e quindi a demarginalizzarli, nel tentativo di sentirne la voce e di comprenderla.

L’intento, si precisa, non è affatto quello di creare una controstoria dell’Italia, bensì proprio di reintegrare quei margini e capirne il ruolo rispetto alla storia del “centro”. Un gioco complesso, ammette lo stesso autore, ma necessario, che implica liberarsi quanto più possibile del punto di vista dell’osservatore esterno che, quand’anche fosse animato dalle migliori intenzioni, non potrà impedirsi di generare ulteriore distanza, definendo un “altro da sé” e contribuendo alla produzione di marginalità.

 

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L’uso di una certa varietà di fonti permette all’autore di cogliere proprio la varietà di costruzioni discorsive dei margini. In particolare però Forgacs mostra un’attenzione spiccata per le fonti fotografiche e, quando possibile, audiovisive e cinematografiche: ritorna in più punti sulla funzione e sull’importanza dell’immagine nel veicolare un messaggio che è tanto immediato per la sua apparente neutralità, quanto complesso perché necessariamente da porre in relazione con la prospettiva e l’intento della sua produzione e, ancor più, con «il contesto sociale della ricezione» (p. 325).

Uno dei primi argomenti affrontati è costituito dalle periferie urbane, mostrando una certa continuità nel modo di pensare questi margini reali quanto simbolici delle città dagli inizi del Novecento a oggi. In un primo momento, il tema è affrontato con un approccio di più ampio respiro, ma soffermandosi anche su esempi concreti, come la genesi e lo sviluppo a Roma del quartiere popolare di San Lorenzo sin dal 1870 o delle borgate periferiche a partire dagli anni ‘30. La loro marginalità si delinea in primo luogo attraverso una sovrapposizione e stratificazione complessa di pratiche politiche di organizzazione dello spazio, come l’ammassarsi dei ceti più bassi e più poveri in alcuni quartieri spesso in condizioni di estremo degrado sociale ed igienico; in secondo luogo, grande influenza hanno i modi di vedere e pensare tale spazio, come traspare nelle riflessioni di chi li osserva, pur animato da intenti filantropici, letterari o documentaristici, ma con toni che si dimostrano sempre paternalistici o di commiserazione e che, finendo per proiettare un giudizio di valore, impediscono una reale comprensione.

L’autore passa in seguito ad analizzare una storia ben più recente ma per molti versi del tutto analoga, quella degli dei campi nomadi e degli insediamenti rom, oggetto di inedita attenzione mediatica nel corso degli anni 2000, e intorno ai quali sapientemente Forgacs evidenzia la forte consequenzialità tra la costruzione discorsiva nell’opinione e nel dibattito pubblico e la pratica politica, che vi si accosta con leggerezza. In tale caso, l’esclusione fisica del gruppo specifico e la sua demonizzazione, talora violenta, nell’immaginario collettivo, veicolata pur inconsciamente proprio dai media, si accompagnano in maniera complementare, provocando non di rado tensione e ostilità.

Spostando il proprio sguardo su un margine troppo spesso trascurato nelle storie del nostro Paese, l’autore passa quindi ad analizzare l’esperienza coloniale italiana e, nello specifico, la relazione con la popolazione etiope. Ne emerge chiaramente la dimostrazione di una certa ambiguità: da un lato una forte volontà di separazione, segregazione, assoggettamento della popolazione coloniale, su cui si insiste grazie alla produzione intellettuale e alla creazione di un discorso pubblico esplicitamente e non di rado violentemente razzista; dall’altro una spinta non meno forte all’italianizzazione e all’assimilazione, nell’intento di rendere in toto e realmente parte della nazione italiana (o almeno presentare come tali) quei territori africani che, specie per quanto riguarda l’Etiopia, non furono in realtà mai interamente e stabilmente assoggettati.

L’Italia meridionale è poi la protagonista di un altro “viaggio” di Forgacs. Essa è però osservata cercando di andare oltre la retorica di una “questione meridionale”, nel tentativo di dipanare la trama delle rappresentazioni e interpretazioni di queste “Indie interne”. Attraverso la lettura dei notissimi studi etnografici di Ernesto De Martino, la cui importanza metodologica e interpretativa è a più riprese sottolineata da Forgacs, e del volume di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, si articolano due prospettive che, in forma forse un po’ paradossale, rivalorizzano questo margine: il primo si fece portavoce della visione di un Sud compartecipe, attraverso le sue peculiarità, alla storia d’Italia, dove il mondo contadino, esito di sovrapposizioni e intrecci di condizioni materiali e pratiche culturali, era in costante interazione con la cultura dominante delle élite, mentre il secondo lo concepì come uno spazio di eccezione, un universo arcaico e astorico, del quale rivendicare l’autonomia rispetto al progresso e alla modernizzazione.

 

 

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David Forgacs

 

L’autore, infine, si dedica, non senza una certa sorpresa per il lettore, al mondo degli ospedali psichiatrici. Forgacs ripercorre con precisione l’opera di sensibilizzazione condotta per lo più fra gli anni 1960 e 1980 da innovatori solidamente intrisi di una precisa volontà politica rivoluzionaria quali Franco Basaglia e Franca Ongaro, e che condusse gradualmente alla soppressione dell’istituzione manicomiale in Italia. Il tentativo di smantellamento di tale margine, attraverso la forte critica che denunciava i manicomi come luoghi di reclusione, rimozione e inumana esclusione sociale anziché luoghi di cura e di reintegro, si appoggia peraltro alla magistrale opera fotografica di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin. E cercando di restituire la voce ai pazienti, Forgacs riporta in evidenza il tema dell’interrelazione fra costruzione discorsiva e decisioni politiche.

Margini d’Italia è un itinerario inusuale nella storia dell’Italia unitaria, perché adotta una lente inconsueta, quella appunto della marginalità, che allo stesso tempo illumina e mette a disagio il lettore, ma che, proseguendo nella lettura, mostra la sua efficacia. Forgacs costruisce così una «comprensione critica delle relazioni di potere» (p. 327) che si producono sempre fra osservatore e osservato e che hanno segnato il costruirsi e l’evolversi della società italiana, poiché la storia nazionale si costruisce anche attraverso processi di esclusione. E si delinea quindi una prospettiva metodologica, da cui gli studiosi di storia certamente possono trarre spunto anche, e non da ultimo, per avere maggiore consapevolezza della loro stessa posizione nelle dinamiche descritte.

 

David Forgacs
Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi
Laterza, Roma-Bari, 2014
pp. 397