Una strada per riscoprire il valore dell’arte: Federico Garcia Lorca e il duende

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Giulia Barison, Siena –

 

“dove sono andati i tempi di una volta per Giunone
quando ci voleva per fare il mestiere anche un po’ di vocazione”.

(Fabrizio de’ Andrè, La città vecchia)

 

In una società che ha assistito a una repentina perdita del canone artistico e che, di conseguenza, non lo conosce e non lo riconosce più, vale la pena chiedersi se vi sia una soluzione a questa morte improvvisa. L’assenza di canone non costituisce necessariamente un fattore negativo, ma una sua cattiva gestione può mettere in dubbio la sua positività. Il rischio maggiore derivante da questa perdita è l’incapacità di distinguere ciò che è arte da ciò che non lo è, o meglio, ciò che ha valore artistico da ciò che non lo ha. Un esempio: il fatto che Cinquanta sfumature di x occupi un posto nelle librerie, sugli scaffali dedicati alla narrativa, non significa che si tratti di narrativa di valore. Ma come può il singolo individuo cogliere e comprendere questa differenza – che in alcuni casi può essere davvero sottile –, se non conosce un canone a cui fare riferimento? Infatti, anche se la sua presenza pone una serie di limiti all’espressione, esso permette di distinguere ciò che è bene da ciò che è male, ciò che è buono da ciò che è cattivo. Prendiamo ad esempio le arti figurative contemporanee: non solo si assiste spesso all’incapacità dello spettatore nel cogliere la bontà dell’opera, ma non è raro che tra emittente e destinatario si interponga anche una totale incomunicabilità, portando così alla perdita della finalità primaria di qualsiasi opera artistica.

 

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Federico García Lorca, ormai una novantina di anni fa, una risposta l’aveva trovata: il duende. Nel 1933 Lorca teneva a Buenos Aires una conferenza intitolata Gioco e teoria del duende. Non possono essere tralasciati i motivi della sua presenza oltreoceano e del tema della sua relazione, i quali possono essere  giustificati da diversi fattori: innanzitutto il dissidio interiore del poeta, combattuto tra la necessità di fuggire da un paese, l’Andalusia e più generalmente la Spagna, che stava vivendo i prodromi della Guerra Civile, della quale lo stesso Lorca fu vittima, e tra l’esigenza di raccontare l’anima più profonda e arcaica di quello stesso paese. D’altronde, la cultura spagnola, vera anima di ogni sua composizione, non formò solo lo scrittore andaluso, ma anche il celebre trio creatosi intorno alla Residencia de Estudiantes di Madrid: Luis Buñuel, Salvador Dalì e, appunto, Federico García Lorca. Quest’ultimo fu l’unico che decise di non partire alla volta della Parigi degli Anni “Folli”, ma di rimanere nella sua terra, guadagnandosi così una serie di critiche da parte dei suoi compagni. Ecco allora che, forse, Lorca sentì anche la necessità di spiegare le proprie scelte di vita e di stile, le quali andavano ben al di là del mero essere “popolare”, tratto che poteva costituire solo un’estensione del vero spirito della sua poetica.

Ma torniamo ora al duende e al suo significato. Durante la conferenza del 1933 Lorca cercò di spiegare che cosa fosse il duende, termine che non solo è intraducibile in qualsiasi altra lingua – e che mi porterà ad abusare del corsivo –, ma che non conosce nemmeno una precisa definizione in spagnolo: esso sfugge da qualsiasi spiegazione di carattere razionale. È un «potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega». Dalle parole di Lorca, si intuisce che si tratta di una caratteristica tutta spagnola: i tedeschi non hanno duende, i tedeschi hanno “la musa”, così come i francesi e gli italiani hanno “l’angelo”. Ciò significa che quella che potremmo chiamare “ispirazione artistica” giunge ai tedeschi come qualcosa di immobile e lontano; agli italiani e ai francesi come qualcosa di eterno e divino.

Il duende non è nulla di tutto ciò. Innanzitutto perché non appartiene ad alcuna categoria e non è riconoscibile. Il termine deriva dall’apocope dell’espressione dueño de una casa (duen de casa > duende), ovvero “padrone di casa”: alcune storie tradizionali lo individuano nel folletto, altre in un vecchio, altre ancora in qualcosa di impalpabile. Inoltre, il duende non è e non vuole essere, a differenza della musa e dell’angelo, eterno o immortale: esso è organico, ha sede nel sangue dell’individuo e con l’individuo muore. In un certo senso, è esso stesso la morte. Ciò si ricollega a una precisa istanza culturale: la Spagna, d’altronde, è l’unico Paese europeo in cui la morte viene celebrata, più di quanto non venga celebrata la vita. Ora, questa forza misteriosa che brucia il sangue diventa ingrediente fondamentale in qualsiasi prodotto artistico. Essa viene riferita soprattutto al flamenco e a quelle arti, come la poesia declamata o il canto, che richiedono una drammaturgia corporea, poiché, abitando il corpo, è proprio in esso che innanzitutto si palesa.

Insomma, secondo Lorca non esiste arte senza duende, senza quella puerile capacità di sorprendere che tutto sommato non è poi così lontana dal concetto pascoliano di “fanciullino”. Ma che ruolo hanno in tutto ciò la tecnica e la conoscenza teorica? Un ruolo fondamentale, secondo il poeta andaluso. Egli racconta un aneddoto su una cantante che, dopo aver eseguito un pezzo con estrema precisione e impeccabilità tecnica, viene bocciata dalla giuria in favore di un’altra che, dimenticata l’impostazione metodica, si era abbandonata a un canto urlato e straziante. La verità sta nel mezzo: il duende è imprescindibile, ma deve essere necessariamente sostanziato dallo studio e dalla conoscenza della tecnica. Prendiamo il caso delle avanguardie, alle quali d’altronde apparteneva lo stesso Lorca: la rivoluzione artistica e culturale avvenuta nei primi del Novecento non poté prescindere da una profonda conoscenza storica, teorica e tecnica dell’arte stessa.

 

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Lucia Schettino, “Argomenti Toccanti”, mista e collage su vecchia fotografia, 20 x 12 cm, 2018. Instagram: schettinolucia_ Atelier Alifuoco: atelier_alifuoco

 

Ora, come applicare tutto ciò al mondo moderno? Il sistema economico ha sicuramente contribuito all’indebolimento del duende: non è raro che l’arte manchi di sincerità e risulti poco comunicativa. La produzione di arte per denaro, secondo precise scadenze, secondo il gusto della massa, porta inevitabilmente all’intorpidimento del duende, risultando così sterile. Tornando a un caso già citato: perché Cinquanta sfumature di x non è narrativa di valore, mentre Harry Potter lo è? Perché mentre J. K. Rowling scrisse con il cuore di un bambino, E. L. James scrisse pensando alla massa, a ciò che è remunerante.

Sarebbe quindi innanzitutto auspicabile un ritorno al duende. Ma ciò non significa che sia bastevole. Il punto di partenza rimane la coscienza artistica: indipendentemente dalla strada che il proprio duende porterà a percorrere – che si tratti della conferma della rottura con un canone, della sua ripresa o della costruzione di qualcosa che prescinde da esso – fondamentale è una solida base storica, teorica e tecnica. Io credo che questa possa essere la soluzione oggi: una strada da percorrere affinché l’arte torni non tanto a una canonizzazione, quanto a una sua riconoscibilità, a una sua forza comunicativa, affinché vi sia da parte dello spettatore un’esigenza di qualità.

 

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