Lo zoccolo duro dell’esercito medievale: la fanteria comunale e la difesa delle mura cittadine

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Un’immagine delle celebrazioni della battaglia di Campaldino ad Arezzo

Giuseppe Catterin, Venezia –

 

“Quelle, che mura sono?”

Stando alla cronaca del Compagni, queste furono le parole pronunciate da Guglielmino Ubertini, vescovo d’Arezzo, nelle prime fasi della battaglia di Campaldino, combattuta presso l’omonima località l’undici giugno del 1289.

Al di là della loro veridicità, presentano l’indiscutibile pregio di racchiudere l’essenza – rivelandola, al contempo, in maniera icastica – del percorso evolutivo della figura del fante, e del suo utilizzo strategico presso i campi di battaglia nell’Italia comunale del tardo Duecento: le “mura”, infatti, che l’altro prelato non aveva riconosciuto per via della miopia – giova ricordare che l’Ubertini aveva settant’anni -, non erano nient’altro che i pavesi impugnati dai soldati della coalizione guelfa, posta, in quella giornata estiva di fine XIII secolo, sotto l’egida fiorentina.

Per poter osservare l’ottima sinergia tra fanteria e milites, l’intimo connubio che venne ad instaurarsi tra pavesario e balestriere, bisogna per forza compiere un percorso a ritroso nel tempo, alla riscoperta delle fondamenta del pilastro su cui poggiava ogni esercito cittadino: il fante comunale.

Il protiro del maestro Niccolò (XII secolo) della basilica di San Zeno, Verona, rappresenta alcuni fanti comunali (a sx). In primo piano, si possono intravedere un fante pesantemente loricato, nonché alcuni arcieri – e fanti senza panoplia – che difendono il capo con copricapi confezionati, molto probabilmente, con del cuoio bollito

 

Legnano e l’inizio delle origini

La nascita delle prime forme di communi, fenomeno che, dalle prime attestazioni pervenuteci, si può ascrivere già all’ultimo quarto dell’XI secolo, diede il via al processo di comitatinanza, vale a dire ad una fase d’espansione del potere cittadino sui centri del contado. La dilatazione del governo urbano, tuttavia, comportava alcune problematiche. Innanzitutto, poneva in contrasto lo stesso ai vari detentori di prerogative nelle campagne. La gestione di importanti risorse del territorio, come ad esempio il controllo delle acque di un corso fluviale e dei diritti ad esso annessi, potevan risultare motivo di ulteriori tensioni intercomunali, risolvibili sia per via diplomatica, e sia con campagne belliche organizzate ad hoc. Senza enfatizzarne eccessivamente il ruolo all’interno della società comunale – e, tout court, medievale –, l’utilizzo dello strumento bellico fu, in talune occasioni, l’elemento necessario a sancire la preminenza di un comune sul territorio di pertinenza.

Pur non tacendo l’importanza degli scontri che caratterizzarono buona parte del XII secolo, la prima occasione utile per comprendere la natura stessa del fante comunale può partire con l’analisi della battaglia di Legnano. Circondato da un filone mitico tutt’ora duro da superare, il fatto d’arme si caratterizza, senz’ombra di dubbio, per il ruolo ricoperto dai pedites: la fanteria delle città, venuta meno la cavalleria, si arroccò attorno al carroccio, creando una selva di lance, protese verso i cavalli nemici, difficilmente valicabile.

La battaglia di Legnano, pertanto, costituisce una prima, ma significativa, istantanea circa il ruolo del fante comunale che calcò i campi di battaglia medievali della Penisola. Alla luce di quanto scritto poc’anzi, si può comprendere come la lancia rappresentasse la sua arma principale, caratteristica che si può evincere anche dalle normative comunali di un buon numero di Communi. La difesa del corpo, oltre a venir demandata allo scudo – solitamente caratterizzato da notevoli dimensioni, giacché doveva coprire il più possibile l’uomo che lo imbracciava –, proveniva da particolari protezioni in materiale tessile, delle vere e proprie “giubbe imbottite”. Su di esse, inoltre, si poteva indossare una cotta di maglia, armatura composta da migliaia di anellini intrecciati tra di loro. La tutela del capo, infine, era prerogativa dell’elmo, il più delle volte in metallo, sebbene non manchino testimonianze – solitamente, caratterizzanti la figura dell’arciere – di copricapi in materiale che potrebbe corrispondere a del cuoio bollito.

Montaperti e il Duecento: la piena maturità della fanteria comunale

Dal XIII secolo provengono alcuni importanti punti di svolta nell’evoluzione del ruolo del fante comunale e della sua panoplia. Le normative comunali redatte nel corso del Duecento sono concordi, pur nelle differenze geografiche, nel registrare una notevole diffusione di protezioni in maglia presso la fanteria. Agli uomini inviati a presidio di piazzeforti sparse per i distretti, ad esempio, era sovente prescritta la panceria, termine che, con ogni probabilità – e stando anche alle ricerche condotte dal Settia – indicava un’ulteriore evoluzione della cotta di maglia: a differenza dei modelli precedenti, la panceria si riduceva in lunghezza, ma andava comunque a coprire maggiormente i punti più nevralgici – addome e torace, in primis. Le difese in maglia, anche alla luce di una malleabilità nei processi di produzione, potevano venir indossate anche “parzialmente”: alcuni statuti comunali, pur non brillando in immediatezza, suggeriscono un utilizzo di particolari “maniche”, da indossare solo lungo il braccio non schermato dallo scudo.

Esempio di ricostruzione moderna di una “venticinquina” della fanteria comunale trevigiana. I fanti, oltre ad abbracciare scudi voluminosi, sono schermati dalla zuppa armandi, giubbone imbottito che serviva a garantire una prima forma di protezione. Il pedes in primo piano, inoltre, presenta un’ipotesi di panceria. Un altro esempio di difesa, riscontrabile nella fanteria del Duecento, è rappresentato dal collare, anch’esso in maglia, indossato da uno dei fanti.

Ad ogni modo, la diminuzione del peso della panceria avvantaggiò il fante: tale variante, infatti, doveva risultare più confortevole nell’utilizzo – per via della migliore distribuzione del peso – nonché di più veloce realizzazione – con ovvi benefici sull’abbattimento sul costo finale. Il suo impiego, inoltre, registrò un crescente impiego anche presso la pratica navale della guerra medievale: gli statuti marittimi veneziani, emanati nel 1255, prescrivevano infatti l’obbligo di imbarcare sui legni lagunari un numero preciso di pancerie, da distribuire, all’occorrenza, tra i membri dell’equipaggio.

Su di esse, infine, poteva venir indossato un ulteriore pezzo, il corectum, protezione aggiuntiva realizzata in cuoio, e che talvolta poteva venir internamente rafforzata da lamelle metalliche.

Ma il paradigma del cambiamento si può apprezzare maggiormente analizzando il Libro di Montaperti, codice militare ante litteram redatto a Firenze in preparazione della campagna militare che culminò con “lo strazio e ‘l grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso”. Tra le pagine dei registri fiorentini, difatti, si può apprezzare una non indifferente differenziazione nei ruoli ricoperti della fanteria comunale. Le “armi della fanteria”, infatti, venivano divise in numerose specialità. Ai fanti, che continuavano a costituire lo zoccolo duro dell’esercito reclutato presso la città bagnata dall’Arno, venivano affiancati corpi di balestrieri, contingenti di arcieri, nuclei di pavesari nonché figure, caratterizzate da un profilo certamente specializzato, che si potrebbero paragonare ad un moderno corpo del genio, rese sempre più indispensabili dal modo di combattere tipico dell’Italia comunale: scontri di breve intensità, caratterizzati dalla preminenza della poliorcetica e di operazioni di “guasto” condotte nella porzione più vasta possibile del territorio nemico.

Il riposo dell’oste comunale. In quest’immagine possiamo apprezzare la dimensione del pavese, raffigurante in questo caso l’emblema del comune di Treviso. Tra i fanti, il pedes posto a guardia dell’accampamento presenta un corectum in cuoio, posto come ulteriore rinforzo al giubbone imbottito. Tutti i fanti indossano elmi in metallo.

Dal Libro, tuttavia, si può evincere un altro aspetto interessante: la presenza di pavesari, vale a dire figure qualificate – pur nei limiti della milizia comunale – nell’utilizzo del pavese – scudo dalle notevoli dimensioni, simile ad una tegola – ci può suggerire l’inizio di un processo di specializzazione del fante, riscontrabile anche in altre occasioni cronologicamente coeve. Durante le prime fasi dell’assedio di Padova, condotto dalle forze “crociate” nel 1257, i pavesari vennero schierati con il compito di schermare i balestrieri, figure la cui importanza sui campi di battaglia stava iniziando a venir maggiormente apprezzata.

Nello svolgimento della battaglia di Montaperti, il ruolo dei fanti fu sicuramente rilevante: i Fiorentini, coadiuvati dagli alleati, non solo ressero l’urto delle forze senesi, ma riuscirono, seppur settorialmente, passare all’offensiva. La sconfitta guelfa, dunque, va imputata non tanto ad un loro errato dispiegamento, bensì ad un crollo psicologico, conseguente all’attacco ghibellino alle retrovie della coalizione guelfa: sparsasi la voce, il fronte non riuscì a reggere questa tipologia d’urto.

Ricostruzione moderna di una possibile sinergia tra pavesari, balestriere e lance longhe. Da questa prospettiva, si può apprezzare lo sforzo dei singoli fanti nell’impugnare il pavese e, al contempo, lo schermo che riusciva a fornire, prefigurandosi come difesa necessaria al balestriere intento a ricaricare l’arma.

Conclusione: il “trinomio” pavese, lancia lunga e balestra

Giunti a questo punto, rimane un ultimo aspetto da tenere in considerazione: lo sviluppo della lancia. Compagno fedele del fante, l’arma, nel corso del Duecento, divenne protagonista di un processo di progressivo allungamento. Le misure raggiunte, che potevano toccare la ragguardevole lunghezza di 5 metri, corrispondevano ad una nuova strategia adottata dalla fanteria per rispondere al meglio alla minaccia proveniente dalle cariche di cavalleria: il balestriere, schermato dal pavesario, colpiva a distanza il cavaliere che, una volta raggiunta la linea di fanteria, veniva tenuto a bada dalla lancia.

Sinergia che dimostrò tutta la sua efficacia durante la battaglia di Campaldino, punto di partenza di questo breve excursus. La vittoria della coalizione guelfa, infatti, fu merito non soltanto delle sue mura, letale riparo mobile per i balestrieri, ma soprattutto della fanteria: in tale circostanza, i fanti guelfi dimostrarono di saper reggere l’urto della cavalleria nemica, di saper organizzare una difesa reattiva, resa possibile dal concorso di più armi, ma, soprattutto, riuscirono a passare all’offensiva, dimostrando le abilità di cui erano capaci

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