“Un trauma non superato”: 12 dicembre 1969, la strage di Piazza Fontana

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Veronica Bortolussi, Venezia –

Cosa rappresenta, oggi, la strage di piazza Fontana? La “strage dell’innocenza perduta”, la “madre di tutte le stragi” ma, soprattutto, per Mirco Dondi, autore del saggio 12 dicembre 1969 (Laterza, Roma-Bari, 2018)

 

 «Piazza Fontana resta un trauma non superato, non soltanto dai familiari, ma anche dalle istituzioni, che hanno faticato ad accettare la definizione di un quadro di realtà che le coinvolge».

 

Dondi, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Bologna e già autore di un importante saggio sulla “strategia della tensione” (L’eco del boato. Storia della strategia della tensione: 1965-1974 Laterza, Roma-Bari, 2015), arricchisce la collana sui “10 giorni che hanno fatto l’Italia” con un volume dedicato al “più grave atto terroristico sino a quel momento compiuto nel nostro Paese”.

Il 12 dicembre 1969, a Milano, all’interno della Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana, alle 16.37, un ordigno esplose provocando 18 morti e 88 feriti. Contemporaneamente, sempre a Milano, fu ritrovata una borsa contenente un ulteriore ordigno – inesploso, ma prontamente fatto brillare dalle autorità per addotti motivi di sicurezza – anche presso la Banca Commerciale di piazza della Scala, mentre a Roma tre esplosioni interessarono il sottopassaggio adiacente la Banca Nazionale del Lavoro, il pennone dell’Altare della Patria e l’entrata del Museo del Risorgimento.

Trentatré anni di processi hanno individuato la responsabilità degli ambienti della destra eversiva gravitanti, in particolare, attorno al gruppo veneto di Ordine Nuovo, pur non avendo potuto assicurare nessuno alla giustizia. Come sostenuto da Nicola Magrone e Giulia Pavese (autori di Ti ricordi di piazza Fontana?, Edizioni dell’Interno, Bari, 1986):

 

«Il processo di Piazza Fontana sta con la strage in diretto rapporto di continuità politica e storica; le bombe non esplosero soltanto nella Banca o all’Altare della Patria: schegge non marginali piovvero nella stessa logica e nello stesso disegno degli attentati, sulle carte del processo, nelle stanze di questure e tribunali, nei centri di potere politico ed economico, nelle redazioni dei giornali.»

 

Dondi, nel suo volume, ripercorre con chiarezza la lunga, travagliata storia dell’eccidio di piazza Fontana, dalla sua preparazione ai giorni successivi, dal ruolo dei servizi segreti nei depistaggi al lungo iter processuale, rimarcando come si sia trattato di una “operazione non semplice”, complicata proprio dalla “natura delle indagini, falsate nella prima fase e ostacolate nella seconda. Insomma, un recinto con molti fori dove ogni nuova carta sfugge per infilarsi in un’altra storia”.

All’autore va il merito di aver dato spazio, in un saggio supportato da una consistente mole documentaria e da una sempre rigorosa impostazione storiografica, e nonostante l’obbligo di sintesi che esige un lavoro divulgativo come questo, anche a quelle piste investigative appena accennate e che, forse, se affrontate all’epoca degli eventi avrebbero potuto portare a risultati processuali ben diversi. In questo senso, in particolare, Dondi tratta della manifestazione organizzata dal Movimento Sociale Italiano prevista per il 14 dicembre, ma annullata dall’allora ministro dell’Interno Franco Restivo, che sarebbe potuta sfociare in disordini provocati ad hoc per costringere il governo a proclamare lo stato d’emergenza qualora la strage di piazza Fontana non fosse stata sufficiente.

 

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Un’altra pista investigativa presa in considerazione dall’autore e rimasta in ombra fino agli anni Novanta, quando le indagini del magistrato Guido Salvini la riporteranno alla luce, è invece quella internazionale gravitante intorno all’Aginter Presse, una sedicente agenzia di stampa nominata il 17 dicembre in un appunto redatto dal Servizio Informazioni Difesa e inviato alla Questura e ai Carabinieri, ma non alla magistratura. Sotto la copertura dell’agenzia di stampa, si celava, in realtà, un’ “agenzia europea di guerra non ortodossa, un’internazionale nera connessa ai servizi segreti dei Paesi Nato” e il suo leader, Yves Guérin Sérac (pseudonimo di Yves Guillou), capitano dell’undicesima divisione blindata paracadutisti d’assalto francese che, durante il conflitto algerino, disertò per unirsi all’Organisation de l’Armée Secrète, aveva stretti legami proprio con Ordine Nuovo e in particolare con il suo fondatore Giuseppe Rauti.

Infine, una ulteriore ipotesi presa in considerazione da Dondi è quella della “doppia bomba”, già affrontata dal giornalista Paolo Cucchiarelli nel suo Il segreto di piazza Fontana (Ponte alle Grazie, Milano, 2012). In base a questa teoria, gli ordigni sarebbero stati due: il primo, piazzato dagli anarchici (intorno ai quali si concentrarono le prime indagini) sarebbe stato puramente dimostrativo, mentre fu il secondo, piazzato dagli ordinovisti, a provocare la strage.

Oggi, a parere dell’autore, considerando le deviazioni più o meno istituzionali avvenute all’indomani della strage e per tutti gli oltre trent’anni di processi, e quindi anche considerando le occasioni perse (quali possono essere considerate le tre ipotesi esposte) si può affermare che “lo Stato ha disatteso al suo ruolo di salvaguardia della sicurezza dei cittadini rompendo il patto sociale alla base della sua legittimazione”, mentre “il ricorso a operazione coperte non è stato un atto di forza, ma una manifestazione di debolezza che ha mostrato l’incapacità di dominare, nel quadro della democrazia, le agitazioni sociali”. La strage di piazza Fontana, pur calata all’interno del contesto della Guerra Fredda, non ha giustificazioni, e per Dondi, questa attribuzione, resta più che altro

 

«una spiegazione di comodo, è un modo per nobilitare l’azione di chi, a vario livello, ha ordito. Se la guerra fredda è stata vinta dall’Occidente, il meccanismo di strategia della tensione immesso con Piazza Fontana si è ritorto contro i cold-warriors divenendo un elemento che ha favorito l’ascesa del Partito comunista».

 

Mirco Dondi
12 dicembre 1969
Laterza, Roma-Bari, 2018
pp. 198