Dalla matematica all’arte contemporanea: un’intervista su cultura, comunicazione e nuove tecnologie a Delphine Trouillard

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Da bravi studenti, in una mite giornata di inizio novembre, ci siamo “infilati” ad un laboratorio formativo a Ca’ Foscari intitolato: “Innovare la comunicazione culturale”. Ci siamo detti, e ridetti, che il tema del laboratorio ci riguardava molto, era anzi basilare, essenziale, ontologico del progetto Parentesi Storiche. E allora, perché no? Abbiamo incontrato Delphine Trouillard, abbiamo ascoltato il suo percorso professionale. Ci siamo stupiti di come una laureata in matematica fosse finita a fare la consulente per la comunicazione culturale: ci siamo addentrati in un percorso tortuoso, di non facile attuazione, e abbiamo deciso che, sì, un percorso del genere andava raccontato. Ecco com’è nata questa conversazione. In una giornata di fine novembre l’abbiamo, dunque, incontrata: e abbiamo parlato a lungo di comunicazione, di social network e di innovazione. Ne siamo usciti arricchiti e speriamo che anche voi, cari lettori, la leggiate con grande interesse come foste presenti, a chiaccherare con Delphine.

a cura di Caterina Mongardini ed Enrico Ruffino –

 

Potremmo cominciare parlando del percorso formativo e professionale che ti ha portato, oggi, ad occupati di curare la comunicazione culturale di alcuni dei più importanti spazi espositivi di Venezia, da Palazzo Grassi al Fondaco dei Tedeschi.

Il mio percorso effettivamente non è stato molto lineare: prima la laurea in matematica a Parigi, poi quattro anni di lavoro nel marketing e nel lusso mi hanno permesso di lasciarmi alle spalle l’ambito matematico; ho fatto un master molto generico in marketing e management e, dopo questi quattro anni, ho realizzato che nemmeno questo mi soddisfaceva.

Ho cercato, così, di capire come coniugare al meglio i miei desideri, i miei gusti con le mie competenze e, siccome mi piacciono molto le arti – visive, musicali ecc.. – e girare per musei, ho cercato come poter lavorare in questo mondo sfruttando le mie competenze di matematica e manager. Mi mancava, ovviamente, la legittimità per farlo, così ho fatto un altro master in management dei beni culturali qui a Venezia: era un master italo-francese appena inaugurato che si svolgeva per metà a Parigi e per metà a Ca’Foscari. Sono quindi venuta qui a Venezia, mi sono innamorata della città e ho deciso di rimanere.

Una cosa che ho notato, e che credo sia interessante per tutti i giovani di oggi, è che quando un profilo formativo non è del tutto lineare e con molte competenze diverse, diventa più appetibile: il fatto di poter avere un punto di vista diverso, insolito rispetto a chi in un determinato ambito si è specializzato, risulta un valore aggiunto per i datori di lavoro.

La mia assunzione a Palazzo Grassi si è basata proprio su questa originalità del mio profilo formativo e lavorativo, perché i nuovi curatori pensavano che io potessi dare un punto di vista nuovo sulle cose. La mia voglia di inserirmi con molta umiltà in un ambiente artistico e umanistico, con queste competenze fortemente orientate verso l’ambito manageriale, sono piaciute e sono quindi rimasta a Palazzo Grassi.

 

Parliamo un po’ del tuo ruolo all’interno di Palazzo Grassi: quali strategie comunicative aveva e come si sono evolute nel tempo?

All’interno di Palazzo Grassi, all’inizio, il mio ruolo è stato proprio quello di addetta alla comunicazione: eravamo nel 2008 e ho visto nascere e svilupparsi tutto il profilo comunicativo social di Palazzo Grassi che all’epoca aveva solo due anni di esistenza.

Nel 2009 ho aperto la prima pagina Facebook di Palazzo Grassi e mi sono resa conto di quanto si sia sviluppato velocemente ripensando che solo otto anni fa queste forme comunicative a mala pena esistevano, nemmeno usavano le newsletter!

Pensa che François Pinault ha acquistato Palazzo Grassi nel 2005 e ha fatto i lavori di restauro e allestimento nel 2006, quindi quando sono arrivata nel 2008 era un museo praticamente nuovo. Il fatto di aver acquistato questo palazzo aveva avuto un boom mediatico non da poco sia in Italia che in Francia, quindi la notizia di per sé già girava, e ha permesso di attrarre già un buon pubblico.

C’era un sito che era anche molto bello da vedere, ma fatto in Flash, quindi non visibile a tutti e non si trovava spesso sui motori di ricerca. Non c’era una newsletter: se volevi fidelizzare il tuo pubblico, dovevi mandare una mail diretta e nessuno dei social di adesso esistevano. Anno per anno abbiamo cercato di costruire da zero questa strategia comunicativa digitale. Prima abbiamo rifatto il sito, in modo che ci permettesse di inserire i contenuti in modo autonomo – tipo WordPress – costruendolo come un blog.

La comunicazione per Fb, in realtà, è passata prima attraverso un rinnovamento dell’organizzazione del museo: postare su Fb sempre la stessa mostra, perché Palazzo Grassi ne aveva solo una per un determinato periodo, era superfluo e senza senso; allora abbiamo pensato a una serie di eventi smart, temporanei, da poter sfruttare anche su Fb.

Quindi, questa serie di eventi sono stati il “nutrimento” dell’aspetto social del museo, della sua fanpage. Abbiamo iniziato con zero follower: quando ho aperto la pagina ho invitato tutti i miei amici – nemmeno cento forse – e poi c’è stato l’effetto palla di neve per cui ognuno invitava qualcuno e così ha cominciato ad espandersi. All’epoca Fb era del tutto gratuito, quindi non c’erano problemi economici per le inserzioni e per la pubblicità. Contemporaneamente all’apertura della pagina Fb, quindi, abbiamo potuto proporre al pubblico diverse attività che servivano a creare delle opportunità di comunicazione.

L’apertura della pagina infatti è stata concomitante con l’inaugurazione dello spazio espositivo di Punta della Dogana che, da quel momento, è diventato uno spazio di dialogo con il pubblico veneziano vero e proprio, che era stato molto polemico con il suo restauro. Ciò che si è cercato di fare è di creare un punto di dialogo tra città e museo, invitando la gente a entrare e a vivere lo spazio museale: la prima cosa che abbiamo fatto è stato un ciclo di incontri insieme ai docenti di Ca’Foscari, dello Iuav e dell’Accademia di Belle Arti.

Ogni incontro era focalizzato intorno ad un’opera in esposizione, c’era un contatto diretto – quasi fisico – con l’opera perché lo spazio espositivo lo permetteva e si evitava la solita fruizione statica: era un approccio nuovo all’opera d’arte. Questo ciclo d’incontri settimanali è stato la prima cosa che abbiamo lanciato sulla piattaforma Fb: e ha funzionato.

Questo perché era un evento organizzato per un pubblico di ragazzi e tutti loro avevano un profilo Fb e così hanno cominciato a mettere mi piace alla pagina, ad invitarsi a vicenda, creando un piccolo movimento che però è stato l’input social che ci serviva. Tenendo presente che comunque non c’era la possibilità di postare immediatamente le foto o le dirette su Fb: non c’era nemmeno la tecnologia adatta, i telefoni non erano “smart” come ora, a mala pena avevano la connessione ad internet.

 

Delphine Trouillard. Foto di Matteo Fina per Le Monde

 

Ricordiamo inoltre che all’inizio c’era anche una sorta di diffidenza in ambito lavorativo nell’usare i social: si pensava che fossero solamente cose per ragazzi, per uno svago giovanile, come possono essere utili per un professionista?

La fortuna di Palazzo Grassi è stata che lo staff è – ed era – abbastanza giovane. Avendo un’iniziativa vivace, volevamo far sapere al pubblico le nostre attività, per ringiovanire anche il pubblico del museo e attrarre giovani e veneziani. Così abbiamo cominciato ad organizzare attività sempre nuove: laboratori per bambini e conferenze con artisti.

Queste sono un gran punto di forza per un museo d’arte contemporanea, perché spesso gli artisti sono vivi, e lavorando per la fondazione di François Pinault abbiamo la fortuna di poterli invitare: si è pensato di organizzare incontri, conferenze, seminari, insomma un’offerta di attività gratuite che attraessero pubblico.

Abbiamo invitato lo scultore Takashi Murakami, Jeff Koons, Thomas Houseago, artisti molto importanti che sono legati alla collezione Pinault. Ovviamente era tutto pubblicizzato sui social, prima di tutto, perché sai che lì la notizia verrà subito notata e condivisa, e si vede così la forza di Fb.

Una cosa che abbiamo capito presto è che Palazzo Grassi si trova in una città abbastanza piccola e non è un fattore secondario: il bacino d’utenza è limitato e l’accessibilità stessa della città è difficile, inutile negarlo, ci piacerebbe che anche dall’entroterra ci vedessero come punto di riferimento ma non ci illudiamo molto che la struttura di Venezia ci aiuti in questo… però di contro, effettivamente, tutti passano per Venezia almeno una volta nella vita e quindi facciamo delle cose sia per chi ha la possibilità di usufruirne nell’immediato, sia per chi ci conosce nel “mondo”, perché se sui social sappiamo comunicare con chi per quella volta nella vita passa per Venezia, c’è la possibilità che il turista si ritagli un pezzo della vacanza per venire ai nostri eventi.

Per cui, oltre a comunicare cosa facevamo, abbiamo cercato di diventare un punto di riferimento per l’arte contemporanea nel mondo. Sembra arrogante come obiettivo, però, la presenza di artisti di alto calibro ci proietta inevitabilmente sul piano internazionale: se qualcuno è interessato alle opere di Jeff Koons, sa che – nel mondo – c’è anche Palazzo Grassi e anche in questo museo o sul suo sito o sulla sua pagina Fb è possibile reperire informazioni o approfondimenti sull’artista.

Così abbiamo cominciato a condividere contenuti di ampio respiro – anche in lingua inglese – per poter agevolare la comunicazione e per poter essere il più possibile versatili.

 

La strategia comunicativa quindi passava per una via più tradizionale e “prossimale” per la realtà veneziana e per via digitale per raggiungere un pubblico più ampio e internazionale: questo ha portato ovviamente ad una diversificazione del pubblico che accogliete.

Certamente ma anche l’ampliamento della base stessa: se noi parliamo a uno studente veneziano, vorremmo poter parlare allo stesso modo con uno di Los Angeles e fornirgli gli stessi contenuti. Infatti, appena ce n’è stata la possibilità, abbiamo cominciato a diffondere online gli incontri che si svolgevano nei nostri ambienti – come ora si fanno le dirette – per poter coinvolgere un pubblico più ampio.

 

La scultura di Damien Hirst installata nel cortile interno di Palazzo Grassi durante la mostra dell’artista “Tesori dagli abissi dell’Incredibile”, aperta nell’aprile di quest’anno e in chiusura questo dicembre

 

Quindi la comunicazione culturale digitale progredisce man mano che progrediscono gli strumenti tecnologici: sembra un’ovvietà ma non è così…

Esattamente, non è semplice né ovvio, infatti si è sempre in ritardo su ogni metodo comunicativo che abbia a che fare con la tecnologia. L’obiettivo di Palazzo Grassi era usare queste nuove tecnologie per crearsi un pubblico.

La cultura è uno di quei beni dei quali più sai più ne cerchi ancora: è un processo che non si ferma mai. Non sei mai sazio d’arte, anzi più ne conosci più ne sei curioso: più dai informazioni, più dai la possibilità al pubblico di accedere al museo, più avranno voglia di tornare anche per altri eventi e mostre. Questo perché più il pubblico ha informazioni ed è coinvolto, più ha l’impressione di “capire” e questa impressione è fondamentale per accedere al linguaggio dell’arte.

Infatti, tutti coloro che sono refrattari a questo linguaggio, che hanno l’impressione di non capire l’arte – soprattutto quella contemporanea che a volte sacrifica l’estetica per il concetto e che quindi non piace – si sentono esclusi. Allora il nostro compito è dare e veicolare una spiegazione che sia semplice, quasi come un gioco; e farlo con le installazioni d’arte contemporanea è molto stimolante perché gli artisti sono persone come noi, persone comuni, che affrontano temi della vita quotidiana attraverso degli allestimenti che per forza ci parlano e ognuno può riconoscersi in un concetto o in un altro.

Questa necessità ha portato l’organizzazione del museo ad adottare strategie più flessibili – attraverso eventi che non sono per forza le conferenze degli storici dell’arte impostati accademicamente – e che portano a comunicare concetti e informazioni in modo puntuale ma leggero.

 

Ovviamente questo ci porta ad una considerazione importante, ossia che in ogni tipo di comunicazione – sia culturale che aziendale – l’aspetto social non è tutto, perché in molti usano Fb per il puro gusto di “vendere” senza curarsi della loro immagine o di ciò che vorrebbero comunicare.

Certamente il social è importante ma nella misura in cui sappia rendere accessibile e trasparente il lavoro delle persone che ci sono dietro: uno dei punti di forza di Palazzo Grassi è stato quello di riuscire a “umanizzare”, mostrare fisicamente, chi lavorava nel museo.

Tutti coloro che hanno preso parte a questa strategia comunicativa sono sempre stati molto “visibili”: la città in cui operiamo, però, ci aiuta in questo… essendo molto piccola è facile essere individuati, mentre camminiamo, se passeggiamo o altro. Basta che le persone ti vedono due o tre volte a Palazzo Grassi e che poi, incontrandoti al supermercato, ti associno al museo ed ecco che la “visibilità” è presto detta.

 

Quando Palazzo Grassi ospitò il genio di Rudolf Stingel, che lo ricoprì totalmente di tappeti (2013-2014)

 

Anche noi, effettivamente, all’inizio della nostra avventura social mettevamo solo contenuti – di qualità ma senza nessun segno “personale” particolare – poi però abbiamo scoperto, sperimentando, che mettendo video o foto di noi stessi mentre eravamo intenti a lavorare o mentre partecipavamo a festival ecc… l’attenzione del pubblico aumentava, e così i like e i follower. Questa è una cosa che piace: sapere che ci sono delle persone dietro a quel social – e dietro quel progetto – e che sono persone reali.

Sicuramente questo aspetto è vincente perché da un senso di vita reale. Ricordiamoci che l’aspetto social un po’ fa paura, come lontananza dalla realtà, e vedere che comunque la piattaforma rimane collegata alla vita è bello. Inoltre Fb è nato per soddisfare la curiosità altrui, per sapere sempre cosa le persone stanno facendo o pensando.

 

Questo è vero però c’è da notare che dopo la nascita di Instagram questa sete di “sapere in tempo reale” è stata trasferita su questa piattaforma, lasciando a Fb un aspetto più istituzionale che, forse, ha giovato allo scopo della comunicazione culturale. Anche se, c’è da dire che su Instagram un’immagine ben confezionata vale più di qualunque contenuto: quindi per una mostra potrebbe funzionare alla perfezione.

Secondo me su Fb c’è proprio la volontà di entrare nella vita degli altri. Una curiosità forse un po’ malsana che, però, può essere dirottata verso una comunicazione culturale coerente e che sappia che c’è questa doppia funzione: dare informazioni e incanalare e assecondare il trend del pubblico. Umanizzare la propria impresa, il proprio progetto è una strategia vincente: questa apertura qui, questa predisposizione, non tutti ce l’hanno e secondo me è proprio l’approccio vincente.

Non essere arrogante, essere consapevole dell’immagine che un’istituzione o un’azienda vuole dare di se stessa e poi andare spediti per questa strada: Palazzo Grassi voleva rompere con questa immagine troppo istituzionale, elitaria, che aveva all’inizio, dando un’idea più umana e vissuta del museo. Proprio per questo se si guarda il sito o la pagina del museo si vedono persone che lavorano e organizzano le attività del palazzo.

 

Un’altra immagine della mostra di Damien Hirst

 

Cultura e Marketing: cose che sembrano in antitesi ma che in realtà trovano dei punti di contatto. Non è necessario che siano inconciliabili: questo noi l’abbiamo imparato con la storia, attraverso la nostra piccola, seppur intensa, esperienza sia con il blog che con una mostra che stiamo organizzando per i 150 anni dell’Università Ca’Foscari. Ci stiamo infatti misurando con la necessità di veicolare il contenuto – una riflessione dell’università sull’applicazione delle leggi razziali nell’istituto ottant’anni fa – e di organizzare il tutto sotto forma di “pubblic history”, una storia quindi fruibile e vincente dal punto di vista del marketing.

L’una ha bisogna dell’altra, non è necessario che siano in contrasto. Sicuramente è molto difficile e spesso mi sono trovata a dover mediare una situazione simile, soprattutto se bisogna tener conto per chi o in quale ambiente fisico lavori. La questione è sicuramente complessa, ed è difficile smussare il puro e semplice “business is business” e il puro nozionismo o intellettualismo. Ci sono dei profili professionali da mettere d’accordo e spesso è la cosa più difficile, perché alcune idee bisogna saperle smussare e saperle cambiare in un ambiente flessibile come l’arte.

In un mondo come il nostro, legato all’immagine che si vuol dare – attenzione per la cultura, per l’ambiente, ecc…- bisogna sapere adattare le strategie comunicative. In una città delicata come Venezia, che si denota per una fragilità unica, questa flessibilità secondo me è più che necessaria. Certo, ci sia arriva piano piano, però non è impossibile.

 

Possiamo dire che l’iniziativa personale nel seguire l’andamento della comunicazione digitale è quindi essenziale?

Si, bisogna sapersi inventare, essere creativi: è un po’ paradossale, almeno dal punto di vista dei social, perché bisogna avere molta pazienza. Chiaramente non si possono implementare delle buone idee in 5 secondi, è però necessario rimanere al passo con le tecnologie: bisogna saper coniugare il “lungo periodo” delle riflessioni progettuali con il “breve periodo” della comunicazione digitale. Questo è il paradosso che è difficile risolvere: appena si ha un’idea creativa bisogna partire con la progettualità social e capire come veicolarla, senza perdere troppo tempo.