Il Mezzogiorno tra magia e subalternità: Ernesto De Martino studioso della “jettatura”

 

Maurilio Ginex, Palermo –

Ernesto De Martino ha rappresentato un momento di grande innovazione nella ricerca etnologica italiana. Grazie anche alle influenze che la filosofia marxiana ebbe sulle sue ricerche, l’etnologo napoletano è riuscito a legare il dato etnologico alle condizioni economiche e sociali in cui quel dato veniva riscontrato.

Riuscì – peraltro – ad essere un insolito marxista: anomalia consistente nel non far totalmente e unicamente derivare dalla struttura economica un fenomeno sociale.

Il suo marxismo è infatti stato caratterizzato più da un profilo umano ed etico che strutturale: la filosofia marxiana servì a De Martino per avvicinarsi alle classi subalterne. Su questo spirito intenzionale innesta l’analisi dettagliata del mondo magico.

 

Il mondo magico e il contesto

Il contesto culturale in cui si sviluppa il mondo magico è sempre stato posto – secondo De Martino – in una condizione di subalternità, poiché, nella logica di una cultura aristocratizzata e selettiva, si scorgeva in quel contesto l’impossibilità di prestarsi al progresso occidentalizzato.

Ciò è potuto avvenire perché l’etnocentrismo occidentale ha sempre individuato, nell’approccio ai popoli della periferia del mondo – definiti da De Martino come “popoli della natura” -, un’attività oziosa e inutile. È su questi connotati che si innesta quella condizione di ineluttabile marginalità in cui tale mondo vive: condizione resa inevitabile da una cultura egemonica costituita dalla borghesia intellettuale e dalla Chiesa che impongono un dominio materiale e culturale sui subalterni.

Nell’indagare e documentare quello specifico mondo subalterno, servendosi di categorie interpretative – che non solo potessero normalizzare l’esistenza dei poteri magici all’interno del mondo magico ma che anche potessero far luce su un legame tra i problemi d’interpretazione del mondo primitivo e gli stessi problemi interpretativi che comportava il mondo magico – De Martino rese in maniera chiara quali fossero le contraddizioni di quel mondo, riuscendo a mettere in evidenza un dato molto importante e chiarificatore dell’ontologia che lo rappresenta: come è stato possibile che in un’area geografica come il Sud Italia, di matrice profondamente cattolica, vi fossero elementi sociali, come la magia e il magismo, che richiamassero il paganesimo? Com’è stato possibile che elementi paganeggianti che s’identificavano nel magismo potessero attecchire in un territorio in cui il cattolicesimo ha imbandito il timore di Dio in tutte le coscienze?

 

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Dalla struttura sociale al dato empirico: dalla storia all’etnologia

Per rispondere a queste domande, l’antropologo napoletano iniziò ad analizzare proprio il contesto socioculturale napoletano, analizzando i tratti di una società definita “colta”, intendo quella fetta di società che indossa le vesti di un’ideologia egemonica che spinge alla subalternità l’altrui e il culturalmente diverso, tematiche – queste – che sviluppò in Sud e magia (1959).

L’autore evidenziò poi come in realtà la struttura sociale del mondo napoletano, che durante il Regno di Napoli non aveva visto lo sviluppo pieno di una reale borghesia, dall’alto della sua paventata superiorità culturale, non abbia optato per una ricerca effettiva di un’alternativa a quel mondo paganeggiante costituito dal magismo, in cui elementi diventati culturalmente strutturali di quella società, come la “jettatura”, trovarono odo di attecchire.

In questo contesto di sincretismo tra il cristiano e il pagano, come espressione di una implicita refrattarietà nei confronti di una egemonica cultura professata dalla Chiesa, De Martino spiega come proprio l’adattarsi i questa ideologia irrazionale, che trova un connubio con il mondo magico, al territorio napoletano e più in generale al mondo meridionale dell’Italia, abbia trovato le proprie radici in quell’innesto creato “[…] tra il fascino stregonesco della bassa magia cerimoniale e le esigenze razionali del secolo dei lumi […]”.

 

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La jettatura, ovvero la dimensione psicologica del subalterno

Il fenomeno della jettatura fa emergere una componente determinante nell’analisi del contesto culturale del magismo: la dimensione psicologica. Lo jettatore, che nell’immaginario comune viene identificato con un individuo maschio vestito di nero e con occhiali con lenti nere, può ritrovarsi a rivestire qualsiasi carica sociale, non per forza deve provenire da un contesto culturale subalterno.

La figura dello jettatore che rappresenta un dato particolare di una determinata cultura della realtà, rievoca una struttura che si reitera in altri contesti che invece, non ricorrendo allo jettatore nel momento del bisogno di fronte a frustrazioni e aspettative illuse, richiamano lo sciamano.

Quest’ultimo, per esempio, presso la tribù dei Koskimo, rappresenta una figura determinante per il destino della comunità, poiché in lui confluisce quel potere, conferitogli dalla credenza della tribù, idoneo alla risoluzione di qualsiasi problema, che sia una malattia o un’entità demoniaca esterna.

Lo jettatore non ha la stessa funzione, ma svolge, nella struttura del processo intenzionale, e non casuale, di agire sulla realtà per il cambiamento delle cose negative attraverso un iconico gesto simbolico, un’attività analoga legata alla dimensione psicologica essenziale per l’alimentare la credenza in lui.

 

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Tra razionale e irrazionale

Lo sciamano, come lo jettatore, rientrano all’interno di un contesto di fenomenologia metagnomica, come viene definita in Percezione extrasensoriale e magismo etnologico (1942), la quale viene decostruita da De Martino fine di comprendere come in realtà all’interno di un contesto culturale come quello di una civiltà occidentale, che pone in posizione etnocentrica la propria ontologia, risulti un qualcosa di sporadico e saltuario.

Il contrasto con l’ideologia razionalista, che si basa nel sottosuolo della nostra civiltà, non permette a quel tipo di fenomenologia extrasensoriale e appartenente a un mondo irrazionale, fatto di suggestione e fascinazione, di poter attecchire fluidamente, poiché, come lo stesso De Martino evidenzia,

 

“ […] i destini della cultura nella quale viviamo sono affidati non già ai cosiddetti “sensitivi” , ma all’osservazione e all’esperimento del naturalista, al calcolo del matematico, al giudizio o all’intuizione dell’uomo politico, alla consapevolezza dell’uomo morale […] “.

 

Il contrasto tra razionale e irrazionale, che si dipana attraverso un punto di vista critico nei confronti di un contesto sociale che tende più a respingere le attività magiche ed extrasensoriali di figure come gli sciamani o i sensitivi, fa emergere il fatto che tali figure potrebbero diventare tutt’al più “oggetto di ricerca scientifica”, senza trovar modo di potere attecchire consolidandosi nella coscienza della comunità, qui intesa come popolazione dominante che abita la società moderna e progredita.

 

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In fine, su questo scenario di contrasto interno di tale struttura sociale a metà tra il razionale e l’irrazionale, la dimensione psicologia su citata ritrae un sistema di segni in cui il simbolismo risulta avere la sua efficacia chiarificatrice.

L’influenza nei confronti della psicologia dell’individuo funge da motore immobile per la credenza totale nei confronti dell’agire di figure come quelle appena analizzate: se non vi fosse questa suggestione causata dalla fascinazione non vi sarebbe, probabilmente, la possibilità di agire in funzione magica.

 

“[…] Il pensiero ‘selvaggio’ non è pensiero ‘altro’ (tesi relativista) ma è il nostro stesso pensiero applicato alle qualità secondarie delle cose e non alle primarie (cui si applica, invece, il pensiero ‘logico’). Pensiero selvaggio e pensiero logico coesistono e convivono in tutte le società anche se può variare la prevalenza dell’uno o dell’altro […]. “

 

Queste parole di Claude Levi-Strauss rappresentano un modo di vivere ideale tra società diverse, al fine di una convivenza intesa alla maniera del filosofo e sociologo Ivan Illich dunque, come “convivialità”.

L’etnologia ha il dovere di rendere funzionale, alla luce della risoluzione delle contraddizioni in essere del contesto occidentale, l’interpretazione del mondo definito primitivo. Vi è la necessità di servirsi di un’etica del “doppio sguardo” che faccia emergere, attraverso un rapporto tra le differenze, una pura dialettica tra interno ed esterno, volta a una comprensione delle rispettive identità culturali poste a confronto. E’ questa l’intenzionalità che potrebbe trascendere l’universale condizione di subalternità.

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