“Un libro pieno di grazia, ben stampato e fuori dal comune”: Dante e la sua Commedia letti e illustrati da Renato Guttuso

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Giulia Barison, Venezia –

 

“Caro Renato, ho parlato con mio padre dell’idea che avevamo abbozzato ed egli è stato d’accordo con me che, se riusciremo a portare in porto un progetto del genere, sarà opera veramente di massimo interesse”.

 

Sono queste le parole con cui nel 1957 Alberto Mondadori propose al pittore siciliano Renato Guttuso (Bagheria, 1911 – Roma, 1987) un progetto di illustrazione della Commedia dantesca. Il progetto richiese lunghi tempi di realizzazione e affrontò complesse vicende editoriali, ma nel 1970 vide finalmente la sua pubblicazione, anche a fronte di un successo di portata mondiale.

L’opera di Renato Guttuso costituisce solo una delle tappe più recenti all’interno della secolare tradizione illustrativa della Commedia, la quale conosce una fortuna immediata e sempiterna. Già nel Trecento, agli albori della diffusione del Poema, si afferma un canone illustrativo ben definito che vanta autori di fama intramontabile e produzioni di altissimo livello.

 

 

Basti pensare all’Inferno realizzato da Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova, da alcuni considerato come il principio dell’intera tradizione; alle turbe dei dannati e degli eletti dipinte da Lorenzo Maitani sulla facciata del Duomo di Orvieto; all’affresco del Giudizio universale eseguito da Luca Signorelli nella cappella Nova del Duomo di Orvieto; alle particolareggiate illustrazioni della Commedia realizzate da Sandro Botticelli; alle raffigurazioni dei dannati e dei beati dipinte da Michelangelo nella cappella Sistina a Roma.

A questa tradizione illustrativa di matrice trecentesca segue quella ottocentesca, florida e vivace, nella quale spiccano i nomi di William Blake e Gustav Dorè. Infine, abbiamo la sconfinata e caleidoscopica produzione contemporanea, nella quale è doveroso citare la raccolta di illustrazioni progettata dalla Società Dante Alighieri in collaborazione con la Quadriennale d’arte di Roma per l’edizione nazionale del 1965.

A questo punto, dinanzi ai colossi appena citati, sorge spontaneo un dubbio: perché focalizzarsi proprio sulla produzione di Renato Guttuso?

Perché Guttuso, uomo di considerevole cultura, fu in grado di muoversi all’interno di un piano di analisi dell’opera rimasto sino a quel momento inesplorato.

 

 

Per comprendere a fondo il valore delle illustrazioni guttusiane occorre avere chiari due presupposti fondamentali. Il primo: la Commedia è un’opera visiva ed il suo potere visuale è dimostrato dalla sua fortuna nell’ambito delle arti figurative. Il secondo: l’esperienza dantesca è voce collettiva e la sua portata universale è dimostrata dalla sua fortuna di respiro globale, sia a livello verticale, nella società, sia a livello orizzontale, nello spazio e nel tempo.

Pur trattandosi di ovvietà trasparenti sin dagli albori della fortuna dantesca, Renato Guttuso fu il primo a dar viva voce a questi due principi, offrendo in questo modo un progetto originale e di una rara esattezza filologica, derivante da una profonda conoscenza del testo e della personalità danteschi. Un chiaro segnale dell’impegno profuso dal pittore sono i più di dieci anni impiegati da Guttuso nella produzione delle tavole dantesche (Gustav Dorè impiegò un solo anno nella realizzazione delle sue).

Rimane da chiedersi come il pittore siciliano sia riuscito a realizzare un simile progetto, soprattutto a fronte dell’impegnativa traduzione dal linguaggio letterario a quello figurativo.

Il potere visuale del Poema viene tradotto in una quasi totale mancanza della figura dantesca; Guttuso fu capace di capire che Dante non è il protagonista della sua opera, bensì la voce di un’esperienza che si pone come universale e, in quanto tale, rende il Poeta occhio e cronista.

Di conseguenza nelle illustrazioni guttusiane, a differenza delle produzioni precedenti, ciò che viene rappresentato non è il viaggio di Dante, ma quanto questo narra di aver veduto.

La figura del Poeta appare solo in tre casi: in secondo piano, ai piedi di Lucifero, dove il suo ruolo è meramente proporzionale, a descrivere le mastodontiche misure dell’angelo caduto (cfr. Lucifero); seminascosta tra le acque del Lete, dove la sua presenza è funzionale a rappresentare il compito di Matelda (cfr. Matelda); dormiente nell’Eden, con gli occhi chiusi e quindi schietto segnale di pausa, se è proprio l’occhio dantesco il motore narrativo (cfr. Il sonno di Dante).

La portata universale del testo, invece, viene tradotta nel processo di attualizzazione messo in atto da Guttuso: perché porre limiti temporali e spaziali scadendo nella mera descrizione, se la stessa Commedia, nelle sue mire universalistiche, si è posta come opera intramontabile e sempre attuale?

 

 

Ed è proprio così che Guttuso rappresenta la sua storia, sia quella collettiva novecentesca, sia quella più privata e intima. Nel bollor vermiglio (cfr. If, XII 101) del Flegetonte le alte strida (cfr. ibid. 102) non sono quelle di Attila, Pirro o Sesto, ma quelle di Hitler, Mussolini e Stalin; quel che s’ergea col petto e con la fronte / com’avesse l’inferno a gran dispitto (cfr. If, X 35-6) non è Farinata degli Uberti, bensì Rodolfo Graziani, sanguinario generale fascista; le anime lasse e nude che si disperano sulla riva malvagia (cfr. If, III 100; 107) non attendono Caronte, bensì la deportazione nazista in un campo di concentramento o di sterminio; i corpi straziati dalla bufera infernal (cfr. If, V 31) di Paolo e Francesca non simboleggiano la passione lussuriosa, ma il sincero amore di Guttuso per la propria patria; intorno alle note (cfr. Pg, II 119) di Casella non si raccolgono semplici anime, bensì lo stesso Guttuso, Levi, Moravia, Morante, Picasso, Pirandello e Vittorini; e infine nella turba tacita e devota (cfr. Pg, XXIII 21) dei golosi fa affettuosamente capolino Mimise, la golosa moglie del pittore.

Non si può ignorare che le tavole di Guttuso devono la loro originalità e la loro genialità anche al commento, pubblicato tra il 1955 ed il 1957, di Natalino Sapegno, intimo amico del pittore, nonché primo commentatore conscio dell’unitarietà dell’opera dantesca, sino a quel momento considerata solo nella sua suddivisione in cantiche.

È Fabio Carapezza Guttuso, il figlio dell’artista, a ricordare i “tre volumi letti, appuntati, sezionati in fascicolo, da tenere sul tavolo da disegno, così che le parole a commento guidassero lo scorrere degli inchiostri”. L’influenza dei “tre volumi” trova un chiaro riscontro nell’illustrazione relativa ai barattieri (cfr. Barattieri). Relativamente ad If, XXI 34-6, Sapegno afferma, a differenza di quanto sostenuto fino a quel momento dai commentatori danteschi:

 

“alcuni pensano che il dannato sia posto a cavalcioni del demonio; ma sembra più naturale che egli penzoli supino sul dorso di quello, che lo tiene ghermito per il tendine (nerbo) del calcagno, poggiando coi fianchi su una sola spalla”.

 

E Guttuso decide di seguire proprio l’indicazione di Sapegno, rappresentando l’anima mentre viene tenuta sulle spalle del demone che la solleva per il calcagno.

Se questo rimane sicuramente il lascito più originale e geniale di Guttuso nel suo Dante, non si può comunque ignorare la sensibilità che dimostra nell’analisi psicologica di alcuni personaggi. L’artista non giudica i dannati per le loro azioni deplorevoli; le sue tavole sono svincolate da qualsiasi genere di morale e totalmente volte a descrivere la psiche dei propri protagonisti.

È il caso di Taide, della quale Guttuso propone due illustrazioni, entrambe volte ad esprimere l’angoscia della sozza e scapigliata fante (cfr. If, XVIII 130), nella prima attraverso la rappresentazione del frenetico grattarsi con l’unghie merdose (cfr. ibid. 131) e nella seconda attraverso la rappresentazione del suo muoversi senza trovar pace (cfr. ibid. 132: e or s’accoscia e ora è in piedi stante).

 

 

Tuttavia, è Brunetto Latini l’exemplum massimo dell’analisi psicologica messa in atto dal pittore: la sofferenza derivante dalla sua condizione di dannato solca a violente pennellate rosse e nere il suo volto esanime, mentre i suoi occhi vuoti e nudi di speranza sembrano quasi chiedere un estremo aiuto al proprio interlocutore che non trova spazio nell’illustrazione.

Sarà forse Dante, forse l’artista, forse la collettività umana? Questo, d’altronde, è proprio ciò che rese la Commedia “divina” e, nel 1970, davanti ad un Il Dante di Guttuso fresco di stampa, permise al suo autore di dire:

 

“Carissimo presidente, ho visto Il Dante di Guttuso ed è molto bello. Abbiamo atteso, palpitato trasformato il progetto iniziale, ma forse non tutto il male vien per nuocere, e al posto di un’edizione monumentale e solenne è venuto fuori un libro pieno di grazia, ben stampato e fuori dal comune. Francamente io ne sono contento e desidero esprimerle la mia gratitudine”.

 

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