“Non hanno rispetto alcuno et offendono tutti egualmente”: breve storia dei corsari, grandi protagonisti dell’età moderna

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Simone Lonardi, Verona –

In una lettera datata 28 aprile 1587 Onorio Belli, medico e botanico vicentino residente a Creta, tratteggiava in poche righe, e con palpabile rassegnazione, un quadro decisamente poco idilliaco della vita nel Mediterraneo orientale.

 

Si sono fatti molti naufragi et in particolare un caramusale di Turchi carico di schiavi mori; parte di questi si annegarono et parte furono recuperati et tutti poi condotti in questa città furono ben tratati et datoli passaggio per Turchia, ma furono venduti qua molti mori a diversi et li Turchi partirono in diversi vasselli di quelli che furono preda di un gallione brettone francese che ha fatto molti danni a Turchi nel loro paese poi et ha svaligiato ancora alcune barche di questa città che andavano a Costantinopoli. […] Con le barche non mi voglio arischiare rispetto alli corsari che danno molto travaglio all’arcipelago et se bene sono la maggior parte siciliani o napoletani et per conseguenza christiani nondimeno non hanno rispetto ad alcuno et offendono tutti egualmente et perciò quando capitano in questa isola et si possono haver in mano sono cacciati in galea et meritanosi.

 

Nonostante la sintassi traballante, il testo è piuttosto chiaro: si ha l’impressione di una situazione di conflittualità endemica e inestinguibile che poteva colpire, chiunque si mettesse in viaggio su un’imbarcazione mercantile o militare, cristiana o musulmana che fosse: il fenomeno della guerra di corsa appare in questa lettera in tutta la sua estensione e gravità.

Ma non solo: Onorio Belli ci informa nella sua lettera di un ulteriore fenomeno, strettamente collegato all’esercizio della pirateria, ovvero la presenza abituale della schiavitù nelle acque del Mediterraneo. Il timore di essere depredati, fatti prigionieri e venduti come schiavi era infatti comune a tutti gli abitanti delle fasce costiere dell’Europa, dell’Asia Minore e del Nord Africa, e doveva esplodere letteralmente ad ogni avvistamento di navigli sospetti.

Non è un caso se la lettera si soffermava con accenti così gravi sui pericoli della navigazione nelle acque di Levante. Essa risale al 1587, ovvero ad una stagione in cui la guerra di corsa, e in particolare quella cristiana nel Mediterraneo orientale, conobbe un’espansione notevole.

 

 

Dopo Lepanto la grande guerra tra potenze mediterranee cedette il passo alla guerra di corsa, una “guerra inferiore” – come la chiamò Braudel – dove a fronteggiarsi non troviamo più le flotte cristiane e musulmane, ma le piccole e mutevoli formazioni corsare.

La supremazia marittima dell’Occidente aveva reso il Mediterraneo, soprattutto dopo il XII° secolo, un “lago cristiano“, sempre secondo il giudizio di Braudel. Furono rare almeno fino all’inizio del Cinquecento le scorrerie ottomane, anche se talvolta temibili, come nel caso di Otranto, saccheggiata nel 1480.

Ma l’Europa cristiana del primo Cinquecento, in procinto di essere lacerata dai conflitti intestini, dovette presto cedere terreno all’avanzata turca e barbaresca, per mare e per terra. Nel 1522 la caduta di Rodi in mano ottomana privò Venezia e – conseguentemente – le potenze cristiane di un fondamentale punto d’appoggio a ridosso dell’Asia Minore; nel 1529 invece gli spagnoli furono costretti a lasciare Algeri, che guidata dal corsaro Khayr al-Din, il celebre Barbarossa, cominciava la sua strabiliante parabola di capitale della corsa musulmana.

I rapporti di forza nelle acque del Mare Interno mutavano così di segno nel volgere di pochi decenni. Nel 1538 la battaglia di Prevesa, nel Mar Ionio, vide la flotta della Lega santa, guidata da Andrea Doria, subire una cocente sconfitta proprio per mano del Barbarossa, divenuto ammiraglio della flotta ottomana.

Da quel momento il peso di Costantinopoli nel Mediterraneo divenne schiacciante: dalle coste della Palestina fino a Gibilterra nulla poteva muoversi senza temere la potenza ottomana o senza scendere a compromessi con essa.

Per più di un decennio il Mediterraneo fu in pace, il che significa che i corsari, entro certi limiti, potevano operare quasi indisturbati. Si era però ancora in un periodo in cui la pirateria non praticava la caccia grossa; preferiva imbarcazioni modeste ed equipaggi ridotti; si teneva ben alla larga da città e centri maggiori; era restia nell’immischiarsi in questioni politiche e militari di rilievo.

Solo il corsaro turco Dragut arrivò ad impensierire Carlo V con la conquista della strategica città di Africa (l’attuale Mahdia in Tunisia), avvenuta attorno alla metà del secolo.

 

Khayr al-Din, detto “Barbarossa”

 

Nell’estate del 1551 fu Solimano il Magnifico a riaprire le ostilità. La flotta ottomana saccheggiò Gozo a luglio e nel mese successivo sottrasse Tripoli ai Cavalieri di Malta, base di importanza fondamentale per accedere con maggior facilità alle acque di Ponente.

Due anni più tardi le navi turche diedero un supporto fondamentale alla conquista della Corsica da parte della Francia, intervenendo così in questioni interne alla cristianità. Ma tolta qualche limitata scorreria di legni ottomani in cerca di bottino, il conflitto si assopì a causa degli onerosi impegni bellici di Carlo V in Europa e di Solimano in Oriente, lungo il confine persiano.

Il predominio turco durò ininterrotto almeno fino al 1565, giusto in tempo per sgominare una flotta cristiana mandata nel 1559 a liberare Djerba e Tripoli dai corsari musulmani.

La situazione cominciò a riequilibrarsi con le guerre della Lega santa e in particolare dopo la battaglia di Lepanto. La tregua tra ottomani e spagnoli, siglata nel 1581, segnò il trapasso dalla grande guerra alla guerra di corsa nelle acque del Mediterraneo.

Ma a quel punto le coste del Nord Africa erano saldamente nelle mani degli alleati vassalli dell’Impero ottomano: gli Stati barbareschi. Città come Algeri, Tripoli o Salé prosperarono tra Cinque e Seicento fino al punto di diventare il centro di entità politiche sostanzialmente autonome dedite quasi esclusivamente alla corsa, caratterizzate da un’economia ad essa strettamente legata e da una forte mobilità sociale.

Nei decenni a cavallo tra la fine del XVI secolo e la prima metà del XVII la pirateria nel Mediterraneo raggiunse la sua massima espansione. La corsa barbaresca, ormai in grado di operare autonomamente rispetto agli impegni più o meno ufficiali in appoggio della Sublime Porta, divenne un pericolo costante nelle acque del Mare Interno.

 

 

Non mancò una pirateria cristiana, di certo non inferiore a quella musulmana in quanto a pericolosità, estensione del raggio d’azione, capacità di organizzarsi attorno ad alcuni centri portuali nevralgici del Mediterraneo.

Protagonisti indiscussi i Cavalieri di San Giovanni: Malta fu infatti la capitale della corsa cristiana. Non da meno un ruolo di grande importanza lo giocò un altro ordine militare, stavolta italiano, ovvero quello dei cavalieri di Santo Stefano, fondato dal Granduca di Toscana Cosimo I nel 1562, la cui base navale di partenza era Livorno.

Ma non furono soltanto gli stati a maggior vocazione mediterranea, come l’Italia o Malta, a praticare direttamente o indirettamente la guerra di corsa. Nel Mediterraneo di fine Cinquecento si potevano trovare imbarcazioni corsare inglesi, olandesi, francesi, spagnole, slave uscocche; addirittura porti atlantici come La Rochelle, Saint Malo o Liverpool servirono da base per incursioni sulle coste nordafricane o altrove.

In fin dei conti la corsa conveniva: venivano costituite società per “andare in corso”, che pagavano ai governi la concessione delle patenti e le imposte doganali sul bottino, che consistevano di solito in un quinto del totale. Si capisce quindi come e quanto potesse essere un affare conveniente per tutti: autorità politiche, finanziatori, armatori, avventurieri e infine marinai.

Si venne a creare un sistema economico integrato tra Nord Africa ed alcune zone dell’Europa basato in larga parte sull’esercizio della corsa e conseguentemente sullo sfruttamento della schiavitù e sul mercato per il riscatto dei prigionieri.

 

 

E va da sé che, qualora una spedizione rischiasse di tornare a mani vuote, soprattutto a fronte di investimenti non trascurabili per armare le navi e gli equipaggi, si decidesse di fare bottino a tutti costi ignorando provenienza e fede religiosa delle vittime.

La cattura di prigionieri poteva essere sfruttata, oltre che come occasione di guadagno, anche per costringere altre potenze ad instaurare trattative diplomatiche al fine di avviare rapporti commerciali o, ad esempio, per chiedere la liberazione di altri ostaggi.

Il sultano del Marocco Sidi Muhammad nella seconda metà del Settecento firmò circa quaranta trattati con le maggiori potenze europee e i maggiori porti franchi; nel 1756 la cattura di alcuni cittadini inglesi lungo le coste del Portogallo sarà l’occasione per chiedere alla Gran Bretagna l’invio di un console stabile in Marocco; e ancora, il sequestro di una nave commerciale statunitense e del suo equipaggio sarà il preludio alla stipula di un accordo commerciale che verrà firmato un paio di anni più tardi.

Durante l’età napoleonica, che concentrò gli sforzi bellici degli Stati europei sul continente, le reggenze barbaresche – e Tunisi in particolare – vissero una nuova stagione di dinamismo. Ma il clima era mutato; già durante la Restaurazione la corsa cesserà di rappresentare un problema rilevante nella navigazione mediterranea grazie alla pressione e al controllo esercitati dalle marine nazionali inglesi e francesi e alla profonda crisi demografica ed economica che colpì alcune delle principali città della Barberia.

D’altro canto quegli spazi marittimi erano ormai definitivamente imbrigliati nella fitta rete del commercio intercontinentale costruita nel tempo dalle potenze coloniali, rete che esigeva tra le due sponde del Mediterraneo rapporti di ben altro tenore.

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