Una via di mezzo tra esilio e prigionia: il confino, l’arma di repressione silenziosa del regime fascista

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Agnese Bentivogli, Roma –

Ogni regime dittatoriale del Novecento si è dotato nel processo di consolidamento del proprio potere, di una macchina repressiva, più o meno efficiente, per far fronte alle sacche di resistenza all’ideologia dominante. Non ha fatto, ovviamente, eccezione il fascismo.

Lo strumento più noto della repressione messa in atto dal regime fascista è quello del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, organo giudiziario creato ad hoc, il cui fine era quello di annientare i sovversivi con il carcere. Ma il mezzo con cui la repressione della dittatura di Mussolini ha colpito la maggioranza degli antifascisti è quella del confino di polizia per reati politici.

Ma che cos’è il confino di polizia? Perché fu avviato? Come funzionava? Per rispondere a queste domande, importanti fonti sono i diari e gli scritti di chi ha vissuto l’esperienza del confino, e le polverose carte conservate presso l’Archivio Centrale dello Stato. Il confino di polizia venne istituito con l’entrata in vigore del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TUPLS), il 6 novembre 1926, documento proposto dal Ministro dell’Interno, Luigi Federzoni.

Il TULPS ebbe, fra le altre cose, la funzione di dare una copertura legislativa e istituzionale alla repressione dalla polizia, altrimenti condotta con metodi illegali e poco ortodossi. Il quinto capo di questo corpo di leggi, regolava il confino di polizia, concepito per bloccare gli avversari politici, ma che nel suo linguaggio giuridico non lasciava trasparire questa funzione.

Esso consisteva nel condannare il sovversivo a vivere in un luogo diverso (e il più possibile lontano) da quello di residenza, in modo da tagliare i legami che esso aveva con organizzazioni considerate sovversive. A seconda delle condizioni di salute e della pericolosità, in termini politici, del condannato, il confino poteva svolgersi o in piccoli comuni di terraferma (per i cagionevoli di salute e i meno pericolosi), o nelle isole di Lipari, Lampedusa, Pantelleria, Favignana, Ustica, Ventotene, Ponza e Tremiti, dove furono organizzate delle colonie.

 

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La procedura di invio al confino di polizia era molto più rapida e snella rispetto all’emanazione di una sentenza del Tribunale Speciale: la grande differenza fra le due istituzioni è che la seconda operava in campo penale, mentre la prima in campo amministrativo. Questo comportava che per il Tribunale Speciale le accuse a carico dell’imputato dovevano essere più precise e le prove certe, mentre per il confino di polizia anche il semplice sospetto bastava per una condanna: a testimonianza di ciò centinaia di sentenze arbitrarie.

Fra le due differenti istituzioni vi era, però dialogo: molti imputati che venivano assolti dal Tribunale Speciale (solitamente per mancanza di prove), furono assegnati al confino per gli stessi capi d’accusa. Inoltre, molti antifascisti condannati dal Tribunale e che avevano, per ciò, già scontato numerosi anni di carcere, al momento della scarcerazione furono dirottati verso il confino, anziché riavere la libertà.

Ad emanare la sentenza di invio al confino era la Commissione Provinciale, composta dal prefetto di zona, dal procuratore del Re di zona competente, dal questore della provincia in questione, dal comandate dell’arma dei carabinieri e da un ufficiale superiore della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN). Si può notare l’assenza di un rappresentante della magistratura, ma in compenso un’ipertrofica rappresentanza dell’esecutivo. Ad avviare la procedura potevano essere o indagini interne della polizia, o denunce di privati cittadini.

Dal 6 novembre 1926 al 25 luglio 1943 (data che storiograficamente segna la fine di ogni provvedimento istituito durante il ventennio) furono circa 10.000 i cittadini italiani che furono colpiti dal confino di polizia, mentre si stima che i condannati dal Tribunale Speciale siano stati 4.500 circa.

 

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Un uomo arringa i compagni di confino a Lipari

 

Le condizioni di vita dei confinati politici nei comuni di terraferma e nelle colonie sulle isole erano molto differenti: paradossalmente si era molto più isolati nei comuni del Mezzogiorno che nelle isole, poiché nei primi si tendeva a inviare i confinati singolarmente, mentre nelle isole essi si dettero un’organizzazione di vita comunitaria. Per omogeneità di condizioni si tratterà, in questo articolo, del confino nella forma delle colonie in isole.

Appena giunto nella colonia di confino, dopo un lungo e pesante viaggio, la prima procedura cui un cittadino, ormai confinato, veniva sottoposto era la consegna dei documenti civili in cambio della “carta di permanenza”: un libretto (ironicamente di colore rosso) da portare sempre con sé, in cui erano annotate le generalità della persona e le norme da seguire durante la permanenza in colonia.

Molti confinati lessero la procedura come la negazione, da parte del regime, del proprio status di cittadini e, per tanto, come la negazione delle proprie libertà civili.

Questa prassi, che può, giustamente, essere considerata come un atto amministrativo con valenza giuridica, il TULS e le altre carte ufficiali, non la riportano: nell’art. 185 si parla solo della consegna della carta di permanenza al confinato, ma non dei suoi documenti di identità alle autorità fasciste.

Ritirare il documento di identità ha il chiaro intento di abolire, o, quanto meno, sospendere, i diritti e i doveri civili, per questo l’omissione di tale prassi in documenti ufficiali risulta grave. Sicuramente questa mancanza non è casuale, ma probabilmente voleva ricordare agli antifascisti che l’autorità del regime  poteva andare oltre la legge scritta.

Le isole su cui sorgevano le colonie di confino sono oggi bellissime mete di turismo e questo elemento ha contribuito a dare l’immagine errata del provvedimento del confino come un piacevole soggiorno. Nel 2003 scoppiò una forte polemica, poiché nel corso di un’intervista al The Spectator, quotidiano inglese, fu lo stesso Silvio Berlusconi, all’epoca Presidente del Consiglio, a definirlo come una vacanza pagata dallo Stato. Evitando commenti e polemiche faziose, risulta evidente l’ignoranza circa la tematica del confino, che fu uno strumento liberticida e, in quanto tale, da condannare, nonché motivo di sofferenza per chi lo subì.

 

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Gramsci a Ustica nel dicembre 1926 (seconda fila da basso, il primo da sinistra)

 

Per correggere l’idea del piacevole soggiorno, bisogna tener presente che gli estremi della colonia non erano quelli naturali dell’isola, ma erano delimitati da una rete spinata; si potevano oltrepassarli solo ottenendo un permesso. All’interno vivevano contemporaneamente dai 300 ai 400 confinanti, ma si arrivò anche a 500, nonostante la poca capienza, e nel periodo del secondo conflitto mondiale si arrivò anche al migliaio, con le deportazioni di prigionieri di guerra, slavi in particolare.

Ogni colonia era gestita e controllata da un direttore, coadiuvato da militi della MVSN e da carabinieri, in numero variabile a seconda del numero dei confinati.

Questi ultimi erano alloggiati in dormitori comuni, organizzati in strutture fatiscenti, sporche e malsane, in cui le brande erano infestate dalle pulci e il bagno era comune (nelle isole in questione non c’era acqua corrente!). Alcuni confinati che avevano disponibilità di denaro e che erano considerati politicamente poco pericolosi, riuscirono a farsi affittare delle abitazioni da privati, ma mai nulla di veramente confortevole.

Era previsto per ogni confinato un sussidio di 10£ giornaliere, dimezzato durante la stagnazione economica degli anni ’30, ma mai percepito da tutti nell’intera somma, poiché chi aveva disponibilità economiche ne era esente e la diminuzione o la mancata consegna del sussidio erano comuni punizioni per la contravvenzione alle norme di confino.

La prima regola della carta di permanenza recitava “darsi a stabile lavoro”, molti confinati la trovarono esilarante, poiché il lavoro mancava per gli stessi abitanti del posto. Ma, nonostante ciò, in tutte le colonie sorsero modeste attività gestite dai confinanti, come falegnamerie, ferramenta, spacci alimentari, mense, biblioteche (quest’ultima sottoposta a censura).

Queste attività lavorative, aperte per adempiere alla norma imposta, altro non erano che una copertura alla sempre costante e mai interrotta attività politica. In modo particolare i comunisti, tutte le forze politiche si organizzarono come meglio poterono per portare avanti le loro idee e i contatti con l’esterno.

 

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Sandro Pertini a Ventotene negli anni ’30 (al centro con la tuta da meccanico). Fu liberato solo dopo il l’aprile ’43, dopo quasi 14 anni di confino

 

Nonostante il fascismo avesse concepito la soluzione delle colonie di confino come una bolla, da cui niente doveva uscire o entrare se non autorizzato, nella realtà dei fatti era fitta la rete di relazioni che i confinati avevano imbastito, sia con i propri partiti di appartenenza che con altre organizzazione politiche antifasciste, alcuni di portata internazionale. Il regime non fu molto celere nel rintracciare questi contatti sommersi, sottovalutando l’organizzazione dei confinati.

Per i diciassette anni in cui il confino rimase in vigore, furono costanti le vessazioni di ogni tipo messe in atto dal personale di vigilanza, sia fisiche che morali: ogni pretesto era valido per malmenare i confinati, ad esempio perché indossavano qualcosa di rosso; oppure l’ufficio censura non consegnava la posta, contenente notizie private, ai confinati. Capitò, per citare un solo caso, che un ragazzo seppe delle gravi condizioni di salute del padre quando questi era già morto, senza aver avuto la possibilità di salutarlo.

Studiato per degradare la moralità degli antifascisti e limitare la loro libertà, il confino non soddisfece a pieno le aspettative del regime, sia per proprie omissioni di organizzazione, che per la tenacia dei confinati, nonostante le difficili condizioni cui erano costretti.

L’esperienza del confino, inoltre non fu di colore, cioè circoscritta solo a ferrei oppositori del regime, ma furono colpiti anche fascisti, che il regime volle punire per atti di disobbedienza o perché troppo smaniosi; o, ancora, cittadini che non si occupavano di politica, condannati per fraintendimenti. Non mancano inoltre casi di vendette personali, visto che, come già detto, la macchina del confino poteva essere messa in modo dalle denunce di comuni cittadini.

 

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Un fascista scomodo a Lipari: Curzio Malaparte, che fu confinato nelle Eolie per 7 mesi, dall’ottobre 1934 al giugno 1935. La sentenza lo accusava di aver svolto attività antifasciste all’estero, in realtà è più probabile che le ragioni del confino siano attribuibili ai suoi attriti con il gerarca Italo Balbo.

 

Poco analizzato storicamente, il confino si presenta come un aspetto molto complesso del ventennio fascista: permetteva ad esso di allontanare per un certo numero di anni persone scomode con una procedura veloce; è il terreno sul quale si sono confrontati direttamente le forze del regime e quelle dell’antifascismo; è preludio alla resistenza, i cui quadri  sono stai formati anche nelle isole di confino; nonché momento di studio e di riflessione intellettuale circa la democrazia e le modalità per riproporla in Italia una volta sconfitta la dittatura.

A subire il provvedimento qui esposto furono, fra gli altri, importanti figure della Prima Repubblica, a cui molto si deve, come il Presidente della Repubblica Sandro Pertini o Altiero Spinelli, che proprio durante gli anni di confino a Ventotene intravide la possibilità di una Europa unita.

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1 thought on “Una via di mezzo tra esilio e prigionia: il confino, l’arma di repressione silenziosa del regime fascista

  • Interessante articolo. E’ possibile conoscere la differenza con l’internato politico? Grazie

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