Una lunga battaglia per la terra: colonialismo, razzismo e questione agraria in Zimbabwe nel Novecento

Paolo Perantoni, Verona –

Sin dall’ingresso delle prime popolazioni bantu, accertate attorno al 2000 a.C., l’accesso alla terra in quel territorio che oggi chiamiamo Zimbabwe si caratterizzò come il fattore determinante sia per lo sviluppo che per la mera sussistenza della popolazione.

Se la distribuzione della terra durante i cosiddetti regni pre-coloniali era dettata da consuetudini tribali, basate sul principio della “terra degli antenati”, che ne permettevano l’accesso a più gruppi familiari in grado poi, per la loro natura adattabile e flessibile, di ruotare le coltivazioni e l’allevamento in modo da non depauperare le risorse del terreno, con il colonialismo la situazione cambiò in maniera talmente radicale che gli effetti hanno ripercussioni ancora oggi.

La storia della colonizzazione nella regione nacque dalle esigenze economiche della British South African Company (BSAC) guidata dal magnate Cecil Rhodes, il quale, in competizione con il gruppo boero-sudafricano di Paul Kruger, decise di aprire una via a nord dalla regione sudafricana del Kimberly, verso quelle terre che si credevano essere ricche di materie prime per l’estrazione, in particolare di diamanti, il principale interesse per l’inglese che nel 1888 aveva fondato la De Beers.

Dopo il controverso accordo con l’ultimo re dei Matabele (o Ndebele), Lobengula, Rhodes ottenne dalla Casa Reale britannica un atto di concessione per lo sfruttamento del territorio e che gli conferiva il potere di stipulare trattati, promulgare leggi, mantenere una forza di polizia, fare assegnazioni territoriali e intraprendere qualsiasi commercio legale. L’anno dopo, il 1890, costituito in tutta fretta un piccolo esercito, si incamminò verso il Mashonaland passando attraverso i territori dei Matabele lungo la direttrice Tuli-Salisbury in quel cammino che passerà alla storia come la “marcia dei pionieri”.

 

Cecil Rhodes, in piedi al centro della foto

 

Mentre in Sudafrica Rhodes aumentava il controllo nella regione diamantifera del Kimberly, a nord, in quella che di lì a poco si sarebbe chiamata Rhodesia, la BSAC lavorava invece per rafforzare il dominio nella zona respingendo gli attacchi dei Matabele di Lobengula avvedutosi del tranello in cui l’aveva spinto Rhodes. La prematura morte di Lobengula disperse le fila dei Matabele sancendo il definitivo controllo della BSAC nella zona, ma Rhodes e compagni si accorsero ben presto che le miniere della zona non offrivano un adeguato corrispettivo economico all’impresa.

Da qui l’interesse della BSAC si spostò verso le terre che l’atto di concessione conferiva loro, a danno, ovviamente, della popolazione locale confinata sempre più verso l’esterno del paese, nelle zone meno redditizie e infestate dalla mosca tse-tse che impediva loro l’allevamento bovino. Venne creata nel 1894 una particolare Land Commission che, fra l’altro, portò alla creazione delle prime due riserve indigene destinate agli africani nella regione del Matabeleland.

La Commissione lavorò per favorire gli interessi degli europei garantendo che i lotti fondiari assegnati agli africani fosse quella che non interessava ai bianchi poiché poco produttiva; a quest’ultimi, invece, era rilasciata ogni tipo di terra che desideravano sotto l’escamotage dell’assegnazione provvisoria. Questo costrinse la popolazione locale a piegarsi ai voleri della Compagnia che nel 1895 chiamò quelle terre Rhodesia in onore di Cecil Rhodes.

L’anno dopo, il neonato governo bianco dovette far fronte alla rivolta scatenata dai Matabele uniti per la prima volta con i rivali Shona, guidata da due mhondoro (spiritisti e leader tradizionali) di nome Nehanda Charwe Nyakasikana e Sekuru Kaguvi; i due leader, rispettivamente donna e uomo, dopo un anno di guerriglia, vennero impiccati decretando la fine della prima Chimurenga (lotta di liberazione come venne chiamata poi dal medesimo nazionalismo post-coloniale).

 

 

Si arrivò dunque alla creazione nel 1898 della Colonia della Rhodesia del Sud, governata da uno sparuto gruppo di bianchi negli interessi degli stessi colonizzatori europei. In questo spirito la colonia venne governata, come gli altri possedimenti inglesi in Africa, sulla base dell’indirect rule, ovvero l’amministrazione indiretta, la quale, su una base fortemente pragmatica, prevedeva la devoluzione dei poteri ai “capi tradizionali” ben controllati dai colonizzatori; essa portò con sé, quindi, la grande questione dell’invenzione della tradizione.

Mentre infatti la BSAC vendeva porzioni di territorio agli europei, c’era ancora da dirimere la questione delle popolazioni autoctone e del loro territorio; essa ruotava su quale norma dovesse regolamentare queste zone e, soprattutto, se la proprietà privata dovesse essere introdotta nel sistema africano.

Infine si decise di adottare una soluzione di mediazione, si crearono quindi delle enclave di proprietà privata in alcune zone, quelle “bianche”, mentre venne sperimentata molto cautamente con i produttori africani, in quanto la popolazione locale era più utile come manodopera a basso costo per le miniere e per le aziende agricole in mano ai coloni europei.

In questo periodo si andarono dunque a delineare le grandi riserve che sul finire del XIX secolo, secondo le stime di Zamponi, “ammontavano già a 7,7 milioni di acri nel Mashonaland e 17,1 nel Matabeleland”; spettava al Native Chief, figura creata ad hoc dai colonizzatori, la responsabilità delle assegnazioni delle terre agli africani sulla base del meccanismo della tradizione, anch’esso inventato dagli europei.

 

 

In poche decine di anni la maggioranza della popolazione locale, si calcola oltre il 60%, venne spinta a vivere nelle riserve presso le quali gli abitanti coltivavano una terra poco produttiva in un regime di disequilibrio economico in quanto queste regioni erano lontane dalle grandi infrastrutture economiche in mano ai farmer bianchi.

Allo stesso tempo si venne a determinare, con l’aumento della popolazione nelle riserve, una differenziazione ed una stratificazione sociale che scatenò conflitti e tensioni sull’uso dei terreni all’interno della stessa comunità locale, dilaniata dalle antiche rivalità etniche che si riflettevano ora nella corsa ai posti di Native Chief che ridistribuivano le terre a seconda dell’appartenenza sociale ed etnica.

Fu uno scontro anche generazionale dato che i giovani, istruiti e cristianizzati dai missionari, si rendevano consci del fatto di non avere alcun diritto alla terra a causa dei giochi di potere tra i capi tradizionali.

Nonostante le difficoltà, però, l’Africa diede risposte positive, vi furono casi in cui produttori africani riuscirono ad emergere nella produzione ottenendo un surplus vendibile ai commercianti bianchi ad un prezzo concorrenziale rispetto ai farmers bianchi i quali fecero pressioni sul governo affinché legiferasse in materia.

 

Una guardia armata sorveglia il campo da golf di un hotel in Rhodesia nel 1978. (AP Photo)

 

Nel 1931, sulla base dei lavori della Land Commission del 1925, il governo coloniale rhodesiano emanò il Land Apportionment Act mediante il quale si sancì per legge la divisione razziale delle terre. Nella pratica si cristallizzava una situazione già in atto ma spostando ancora di più il piatto della bilancia in favore dei bianchi.

Fu infatti istituita una rete bancaria che concedeva prestiti alti per gli agricoltori bianchi ma assai miseri per i pochi neri. Inoltre si vennero a delineare chiaramente delle zone sperimentali, le Native Private Areas, in cui contadini neri avrebbero potuto comprare terreno privato che sarebbe rimasto loro di diritto; in queste zone, tra l’altro, i bianchi non avrebbero potuto acquistare terra, si andava così delineando un regime di segregazione delle terre e quindi delle risorse.

Un progetto positivo sulla carta, che nascondeva però il tentativo di allontanare quella piccola classe media africana dalle zone di mercato, relegandola in aree poco produttive e lontane dalle infrastrutture. Lo scopo principe era sempre quello: ottenere la manodopera per farm e miniere evitando, o quantomeno limitando, l’immigrazione proveniente dall’Angola e dal Mozambico (in quanto poco controllabile e quindi destabilizzante).

La volontà era quella di far diventare le riserve dei dormitori per la forza lavoro, delle enclaves governate in base ad una commistione tra tradizione e legge coloniale dove investire poco o nulla e attingere quando serviva.

 

Una fotografia scattata durante il periodo della cosiddetta Bush war (o seconda Chimurenga) tra i coloni bianchi guidati dal partito di Ian Smith e i guerriglieri ZANU e ZAPU di Mugabe e Nkomo.

 

Per Massimo Zamponi il LAA quindi fu “da un lato, il punto d’arrivo di quasi quarant’anni di dominio dei coloni in Rhodesia e, dall’altro, il punto di partenza della politica di segregazione e controllo per tutto il periodo coloniale” che ha ripercussioni ancora oggi.

Negli anni ’60, in un clima africano dominato dalla volontà nazionalista che porterà all’indipendenza di gran parte dei paesi del Continente africano, in Rhodesia si discuteva sulla necessità di rivedere la legislazione della terra. Nel 1959 un comitato, il Select Commitee on Resettlement of Natives, analizzò per la prima volta la questione in un’ottica storica, che lo spinse a considerare superato il LAA e illogica la politica segregazionista rhodesiana che sarebbe potuta essere controproducente in quanto avrebbe potuto favorire le logiche dei movimenti rivoluzionari che stavano prendendo piede nelle zone adiacenti alla colonia.

Per la prima volta, poi, si affermò che non si dovesse cercare terra ulteriore ma sfruttare al meglio quella già presente e soprattutto trovare un modo per accrescere il livello di vita della popolazione africana al di sopra della sussistenza.

Mentre le commissioni annunciavano la necessità di rivedere la segregazione, la maggioranza dell’elettorato bianco le guardava con diffidenza, bollandole come socialiste. Nel frattempo si andava sempre più rimarcando la divisione segregazionista, su base razziale, della società rhodesiana.

 

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In un clima di instabilità politica e insicurezza economica, nel 1965, dopo il tentativo di federazione con il Nyasaland (Malawi), salì al potere Ian Smith, leader del Fronte Rhodesiano il quale subito proclamò unilateralmente l’indipendenza della colonia dalla Gran Bretagna, trovando sostegno solo dal Sudafrica e dal Portogallo, ovvero dagli stati vicini accomunati da una politica simile e che vedevano di buon occhio un governo amico in una zona cruciale per la difesa dei propri interessi commerciali prima ancora che politici.

Furono anche gli unici a supportare direttamente la Rhodesia nella cosiddetta Bush war (o seconda Chimurenga) iniziata nel 1963 con il supporto dell’URSS, di Cuba e della Cina, e protrattasi fino al 1980.

Dopo la Dichiarazione Unilaterale d’Indipendenza i farmers, venuto meno il regime di mercato unilaterale con la madrepatria, riconvertirono le loro produzioni spostandosi sul mercato interno di cereali e bestiame, un mercato già coperto però dai contadini africani con i quali entrarono in competizione.

 

Ian Smith indica a Robert Mugabe il seggio dove dovrà sedere come Presidente dello Zimbabwe, all’apertura del nuovo Parlamento a Salisbury nel 1980. (AP Photo)

 

Mentre nel 1969 il Ministro dell’Agricoltura Rhodesiano auspicava una divisione della terra in due parti uguali, eliminando le tensioni razziali scaturite dalla proprietà, nello stesso anno si arrivò all’emanazione del Land Tenure Act (LTA) che rimarrà in vigore fino al 1979, anno d’indipendenza dello Zimbabwe. La nuova legge divideva il paese in pratica in due aree sostanzialmente uguali, una riservata agli europei e una agli africani, ma divise indissolubilmente dalla logica della segregazione.

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