Il riformismo di Gorbačëv e il declino dell’URSS: il crollo di una Superpotenza tra perestrojka e glasnost’

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Nel precedente articolo abbiamo affrontato le premesse politiche ed istituzionali alla base dell’inesorabile declino dell’URSS, a partire dalla estrema rigidità di una piramide del potere rimasta invariata nei suoi meccanismi e nelle sue logiche per sessant’anni. Nella seconda parte di quest’analisi sul declino della Superpotenza sovietica, l’attenzione sarà focalizzata, invece, sulla figura di Michail Gorbačëv e sul suo programma di riforme (sintetizzate nelle parole chiave di perestrojka e glasnost’, le quali, pur nei loro importanti elementi di novità e modernità, produssero tuttavia, nel medio-lungo periodo, un effetto disgregatore sul piano istituzionale che portò al definitivo sfaldamento dello Stato sovietico.

Caterina Mongardini, Venezia –

Le due parole con le quali si indicano i programmi di riforme gorbacioviani sono: perestrojka (o ristrutturazione) e glasnost’ (o trasparenza). La più conosciuta, perestrojka, altro non era che una coraggiosa riforma del sistema economico sovietico: l’obbiettivo era quello di diminuire le spese militari a favore dello sviluppo delle industrie leggere dedicate ai beni di consumo così da alzare la soglia del benessere collettivo.

Gli accordi sul ridimensionamento degli armamenti e sulla riduzione degli arsenali nucleari portati avanti dal Segretario Generale e da Ronald Reagan nel 1986 a Reykjavìk e il ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan nel 1988, rientravano nella strategia gorbacioviana per la riduzione delle spese militari.

Nel momento in cui, nell’89, la Germania Est e la Polonia cominciarono a scogliere i lacci del giogo sovietico, non riscontrarono nessuna reazione armata che le riportasse alla ragione: questo avvenne sia perché l’Armata Rossa – ormai a corto di finanziamenti – ebbe l’ordine di non intervenire in quanto le sarebbe mancata la forza necessaria, sia perché un intervento armato sarebbe andato contro gli intenti del secondo programma di riforme proposto da Gorbačëv (ossia la glasnost’).

 

8 Dicembre 1987. Gorbaciov e Reagan firmano a Washington il trattato russo-americano (Trattato INF) per il disarmo nucleare a seguito del vertice di Reykjavik dell’11 dicembre 1986. Credits: Bettmann/CORBIS

 

Nel 1990, anche le Repubbliche Baltiche colsero al balzo quest’occasione così come anche altri stati che di lì a breve sarebbero diventati indipendenti.

La glasnost’, invece, era la meno conosciuta riforma politica con la quale Gorbačëv mirava sia a mitigare la censura lasciando ampi spazi alla libertà di stampa, sia a concedere un piccolo margine di democrazia ai cittadini con delle elezioni semi-libere.

Esse riguardarono l’elezione di un “congresso del popolo” che doveva essere composto da 2250 deputati rappresentanti tutta l’URSS, i quali a loro volta avrebbero eletto 600 deputati che avrebbero formato il Soviet Supremo del quale Gorbačëv sarebbe stato il presidente.

Introducendo questa riforma costituzionale, che avviava l’URSS a diventare una Repubblica Presidenziale, il Segretario Generale incrinò il sistema Stato-Partito poiché di fatto la carica di Segretario Generale (capo del partito) e quella di Presidente del nuovo Soviet Supremo (capo di stato) erano state scisse anche se, per il momento, l’unione personale delle due cariche non evidenziava la portata del cambiamento in atto.

Le elezioni si tennero il 23 marzo 1989 e il risultato fu l’elezione di una assemblea molto eterogenea in cui spiccava la figura “riformatrice” di Boris El’cin.

La glasnost’ e le elezioni, dando impulso alla libertà d’espressione, fecero nascere all’interno dell’URSS un dibattito politico inatteso che cominciò a fare pressioni affinché il Partito Comunista non fosse l’unico legittimato a governare: contemporaneamente alle manifestazioni che infiammarono le periferie dell’Unione, infatti, a Mosca il 4 febbraio 1990 prese luogo una manifestazione pacifica che chiedeva la legittimazione di altri partiti politici oltre al PCUS.

 

Francobollo propagandistico della riforma dell’economia attuata da Gorbaciov.

 

Gorbačëv ritenne che la richiesta potesse essere accettata anche in virtù delle risoluzioni della XIX Conferenza Straordinaria del Partito che, svoltasi nel 1988, aveva trasferito ai Soviet i poteri politico-amministrativi che erano stati sino ad allora di competenza del Partito, riservando a quest’ultimo il ruolo di guida morale.

Si noti che la piramide politico-amministrativa – che come abbiamo visto si era creata nel 1922 – con questo provvedimento venne svuotata della sua funzione. Infatti la spinta democratica dei Soviet che era stata scarificata per lo Stato-Partito, nel 1988 venne in questo modo recuperata.

Da questo momento gli eventi precipitarono, letteralmente. Il 5 marzo 1990, in tutta l’Unione Sovietica si tennero le elezioni che avrebbero portato alla costituzione dei nuovi governi delle differenti repubbliche componenti (ancora) l’Unione e Boris El’cin fu eletto Presidente del Soviet Supremo, rimarchevole conseguenza dell’avanzata dei riformisti in tutta l’Unione.

Il 14 marzo 1990 l’URSS divenne una Repubblica Presidenziale: infatti Gorbačëv divenne il Presidente dell’Unione e lasciò il posto di presidente del Presidium del Soviet Supremo.

Quasi un anno dopo, accanto al referendum con il quale il popolo si espresse favorevolmente al mantenimento dell’URSS a patto che fosse riformata, El’cin introdusse anche un’altra domanda per gli elettori russi ai quali chiedeva se fossero stati favorevoli all’elezione diretta del Presidente della Repubblica: ovviamente, gli elettori risposero di sì. Conseguentemente il 12 giugno 1991 Boris El’cin fu eletto Presidente della RSFS e Gorbačëv fu costretto a concedere alle altre nove repubbliche margini di autonomia simili e molto ampi.

Nel momento in cui Boris El’cin prese il potere, si adoperò per smantellare ciò che era rimasto del vecchio e logoro Stato-Partito: proclamò la superiorità delle leggi repubblicane su quelle dell’Unione, rivendicando la sovranità della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa (soffiando così sul fuoco delle autonomie nazionaliste) e dulcis in fundo soppresse il PCUS, con l’accusa di aver ordito un colpo di stato.

Il cosiddetto “colpo di stato” che ebbe luogo tra il 18 e il 19 agosto 1991, era una vera e propria manovra reazionaria delle elité conservatrici e industriali che, vedendosi esautorate e relegate in una posizione marginale ed economicamente poco proficua, cercarono di ripristinare la vecchia presa autoritaria del Partito sulle scelte e le azioni politiche dello Stato.

 

Un dimostrante lotta con un militare durante il tentato golpe del 19 agosto 1991

 

Purtroppo per loro il clima politico ormai incandescente – come mai era stato prima – fornì la base della quale El’cin poté servirsi come forza d’urto pacifica: messosi alla testa della manifestazione che a Mosca sfilava contro i golpisti, non esitò a ergersi quale paladino della libertà della Repubblica Russa. Davanti alla Casa Bianca di Mosca – sede del Parlamento russo – su un carro armato che quel giorno non avrebbe sparato nemmeno un colpo, El’cin srotolò non la rossa bandiera dalla falce e martello dorati, ma il tricolore della Russia: rosso, bianco, blu.

Ormai, si era all’epilogo. Alla fine del 1991 gli stati satelliti dell’URSS si erano ormai affrancati dalla Federazione ed erano diventati indipendenti e il PCUS era stato soppresso in seguito al tentato golpe della vecchia nomenklatura. L’Unione di cui Gorbačëv era stato, seppur per pochissimo tempo, Presidente si era dissolta e il Partito di cui era stato Segretario non esisteva più.

L’8 dicembre 1991 i capi di stato di Russia, Bielorussia e Ucraina firmarono l’accordo di Belaveža, l’atto costitutivo della Comunità degli Stati Indipendenti, dichiarando soppressa l’URSS.

L’atto finale, come già anticipato, si compì il 25 dicembre quando Michail Gorbačëv si dimise pubblicamente dalla Presidenza dell’Unione e con questo atto, ripreso dalle telecamere di tutto il mondo e sottolineato dallo sguardo sperso dell’ex Segretario del Partito, l’URSS cessò di esistere.

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