I was only 19: la cinematografia australiana tra ANZAC e Vietnam

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Giuseppe Catterin – Venezia

La Guerra del Vietnam costituisce uno dei conflitti più rappresentati dalla Settima arte. La lunga lista di pellicole dedicate n’è buona prova: da Kubrick, con il suo iconico Full metal jacket, passando all’intramontabile “odore di Napalm al mattino” del film di Coppola o, giusto per concludere questo percorso ideale, al più recente The Post di Spielberg, la lista dei cineasti che dedicarono la loro attenzione al Conflitto risulta indubbiamente densa.
Al di là del differente approccio nella narrazione degli eventi bellici (in Good Morning, Vietnam, ad esempio, a venir messa in risalto è la vita nelle retrovie nonché il complesso apparato burocratico che organizzava le trasmissioni radiofoniche per la truppa), esiste un filo conduttore capace di unire tra di loro anche le più diverse produzioni cinematografiche: il punto di vista è sempre a stelle e strisce.

Lo scrittore Viet Thanh Nguyen, nato vietnamita ma naturalizzato statunitense, nel suo lavoro Niente muore mai. Il Vietnam e la memoria della guerra (Neri Pozza, 2018) riassume efficacemente questa situazione: “Tutte le guerre vengono combattute due volte, la prima sul campo di battaglia, la seconda nei ricordi”.

Il documentario televisivo The Vietnam War, curato da Ken Burns e Lynn Novick e messo in onda dalla piattaforma Netflix, si prefigura come un deciso salto qualitativo in avanti. Composto da 10 episodi, la cui durata varia da 80 a 100 minuti, in questa dettagliata cronaca del Conflitto trovano spazio anche le testimonianze dei soldati nord vietnamiti, siano essi ex militari dell’esercito regolare o delle guerriglie facenti capo ad Hanoi.

Il pubblico statunitense, in altre parole, nel 2017 (anno della trasmissione della prima puntata) ebbe l’occasione, a 42 anni dalla fine della Guerra, di conoscere il punto di vista di un avversario, fino ad allora, caratterizzato unicamente da fanatismo, ferocia e, soprattutto, inconsistenza: il nordvietnamita era, per antonomasia, il nemico fantasma che, al riparo della fitta giungla del Sud-est asiatico, sferrava i suoi attacchi per poi ritirarsi velocemente.

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La Guerra del Vietnam non fu, tuttavia, un conflitto che, in ambito occidentale, interessò solamente Washington. Le forze armate statunitensi vennero infatti affiancate da contingenti militari alleati, provenienti dalla Corea del Sud, dalle Filippine, dalla Thailandia nonché dalla Nuova Zelanda e dall’Australia.

Quest’ultimo paese, sebbene facente parte del Commonwealth britannico, fu in assoluto il secondo maggiore contributore di militari: gli Aussie che si alternarono ammontarono, infatti, 50.190 unità totali. A questi vanno aggiunti ulteriori 3.500 neozelandesi che, in ottemperanza alla vicinanza geografica e all’affinità storico – culturale con l’Australia, vennero inquadrati assieme al contingente fornito da Canberra.

Paradossalmente, nonostante l’indubbio contributo militare messo in campo, i cineasti australiani si sono per molto tempo orientati sulla trasposizione dell’eroismo delle truppe ANZAC durante il Primo Conflitto Mondiale. Nel 1981, ad esempio, venne realizzato Gallipoli (in italiano tradotto come Gli anni spezzati) che, oltre a immortalare i primi passi di un giovanissimo Mel Gibson, traspone su pellicola tutta la drammaticità dell’omonima Campagna. Campagna che, nel 2014, fornì lo spunto a Russel Crowe per il suo The Water Diviner. La pellicola, oltre a sancirne l’esordio come regista, evidenzia quanto il sanguinoso fatto d’arme persista nell’immaginario comune australiano – neozelandese.

Spostando leggermente, sia da un punto di vista cronologico che geografico, questa breve rassegnata, una menzione particolare la vanta il film The Lighthorsemen. Prodotta nel 1987, la pellicola narra le vicende della cavalleria leggera australiana impegnata nella campagna del Sinai e della Palestina. L’acme del film si raggiunge nella ricostruzione dell’eroica, quanto sanguinosa, carica australiana durante la battaglia di Beersheba (1917).

Come si può evincere, a mancare completamente è il ricordo dell’impegno australiano durante la guerra del Vietnam, cui venne dedicato, fino al 2019, un solo film. Si tratta del poco noto The Odd Angry Shot, pellicola che, nel 1979, presentò al grande pubblico il Conflitto sotto il punto di vista di una giovane recluta dell’Australian Special Air Service Regiment (SASR).

Quarant’anni esatti dopo, la memoria comune australiana ripiombò nello scacchiere dell’Indocina grazie a una produzione attualmente visionabile sulla piattaforma video – streaming di Amazon. Si tratta del lungometraggio Danger Close: The Battle of Long Tan (tratto dall’omonimo libro) che, come si può evincere già dal titolo, ripropone al pubblico una delle principali battaglie che vide impegnati in Vietnam i contingenti australiano e neozelandese.

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La Battaglia di Long Tang, combattuta nell’agosto del 1966, impegnò le truppe australiane, nell’ordine di grandezza di una compagnia e supportate dall’artiglieria neozelandese, contro preponderanti forze nordvietnamite (stimate, da parte australiana, in non meno di 2.000 unità).

Nonostante ambo le parti reclamino tutt’ora la vittoria, gli Aussie – che evitarono la completa distruzione delle truppe coinvolte – pagarono un tributo tutto fuorché indifferente: su 108 uomini impegnati, 18 caddero durante i combattimenti, mentre altri 24 vennero feriti.

In tale occasione, le truppe australiane vennero comandate dal maggiore Harry Smith, veterano delle guerre in Malesia e, nella pellicola, interpretato da Travis Fimmel, attore australiano resosi celebre per aver dato il volto al leggendario Ragnar Lothbrok nella serie tv Vikings.

Complessivamente, il film è stato positivamente accolto, sebbene non siano mancate alcune critiche, talvolta anche feroci, incentrate sulla ricostruzione di un conflitto intricato, come fu per l’appunto la Guerra del Vietnam.

Oltre ad aggiungere un buon capitolo nella lunga storia cinematografica incentrata sulla Guerra del Vietnam, Danger Close, grazie all’azzeccata scelta della colonna sonora, riesce a far riemergere, in tutta la sua drammaticità, quello che il Conflitto rappresentò per l’Australia: una guerra che, parafrasando le parole del gruppo Redgum, vide perire, sotto un tramonto arancione asiatico, un’intera generazione di “I was only 19”.