Cavallo contro Panzer: le cariche della cavalleria polacca nel settembre ’39

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Giuseppe Catterin, Venezia –

La vista che quel lontano 2 settembre 1939 si presentò agli occhi di Indro Montanelli non doveva essere dissimile dai numerosi campi di battaglia con cui si è scritta la storia. Il giovane inviato del Corriere della Sera, d’altra parte, in fatto di guerra sapeva il fatto suo: i corpi degli ułani del 18° reggimento di Pomerania, i famosi lancieri polacchi tanto cari all’Empereur, in fin dei conti non erano così differenti dai numerosi caduti visti e descritti in altri scenari bellici.

Eppure, presso Krojanty, anonima località del ben più celebre corridoio di Danzica, grazie anche alla penna di Montanelli, nasceva uno dei miti più longevi nella storia legati al Secondo Conflitto Mondiale: la carica della cavalleria polacca contro i carri armati tedeschi.

 


La nascita del mito

Il processo di mitopoiesi si costituisce in due fasi. La prima trae le sue origini già durante l’aggressione nazista alla Polonia. I corpi degli ułani polacchi e i resti delle loro cavalcature vennero, infatti, presto utilizzati strumentalmente dalla propaganda tedesca come dimostrazione dell’irrazionalità del governo di Varsavia, deciso a sacrificare i propri soldati contro un nemico superiore in armi ed equipaggiamento. Già nell’ottobre del ’39, il periodico Der Pimpf”, rotocalco propagandistico destinato ad un pubblico di giovanissimi, dedicava un numero speciale alla campagna di Polonia: sulla copertina – come si può vedere nell’immagine allegata – veniva raffigurato un panzer tedesco intento ad aprire il fuoco su alcuni cavalieri polacchi lanciati alla carica.

L’anno dopo, durante le fasi della così detta “drȏle de guerre”, vedeva la luce un altro libello, ulteriore tassello nell’edificazione del corpus mitopoietico. Si tratta del Panzerschützen in Polen, libro che si prefiggeva l’obiettivo di esplicare ad un pubblico tedesco la vittoria conseguita lungo la Vistola, mediante l’utilizzo di mappe e l’ausilio di tavole in bianco e nero. Tra i fogli di guardia, ecco comparire il leitmotiv del seguente articolo: due Panzerkampfwagen I attaccati, questa volta addirittura lancia in resta, da un gruppetto di lancieri polacchi.

L’edificazione del mito, tuttavia, si poté avvalere anche dei potenzi mezzi della settima arte, che – come vedremo – contribuì alla sua non indifferente longevità. Il 28 febbraio del 1941 usciva la pellicola Kampfgeschwader Lützow (Squadriglia Bombardieri “Lützow”), film di guerra che proiettava sugli schermi delle principali sale cinematografiche del Terzo Reich gli attacchi che i cavalleggeri polacchi – rievocati da soldati Slovacchi, allora alleati alla Germania di Hitler – condussero contro le forze corazzate tedesche: la profusione di mezzi, unita a tecniche cinematografiche all’avanguardia per gli anni ’40, contribuirono a diffondere il mito, fino ad ora creazione ad uso e consumo della propaganda nazionalsocialista, donandogli un respiro internazionale.

 

Lo sviluppo durante la PRL  

Terminato il conflitto, le autorità della neocostituita “Repubblica Popolare Polacca” (in polacco, PRL: Polska Rzeczpospolita Ludowa) ereditarono il ricco e ampiamente sviluppato corredo mitico, modificandolo alle mutate esigenze politiche della Polonia postbellica.

Nel percorso fin qui tracciato, il filone “tedesco” si prefiggeva l’obiettivo di dimostrare l’indiscutibile superiorità militare nei confronti della Polonia – e, in senso lato, sulle popolazioni dell’Est europeo di lingua slava. Nell’orizzonte culturale della Polonia comunista, invece, le gesta degli ułani assursero a simbolo dell’estremo eroismo dimostrato dalle forze armate polacche nella difesa della Madrepatria durante la “campagna di settembre”. Al contempo, funsero da pretesto per denunciare l’arretratezza militare polacca, effetto della decadenza politico – economica della “seconda repubblica polacca”: per il governo comunista, l’eroismo dei cavalleggeri polacchi, costretti a fronteggiare i carri armati tedeschi con mezzi inadeguati, non poteva tacere le gravi colpe dei governi “borghesi” che si susseguirono lungo gli anni ’20 e ’30 del Novecento.

Al di là delle recriminazioni di carattere politico, rimane tuttavia innegabile il forte impatto emotivo delle mitiche e presunte gesta dei cavalieri polacchi, capace di animare profondamente il panorama artistico durante i primi decenni di vita della Prl. Il pittore polacco Wojciech Kossak, passato alla storia per i suoi quadri di tema storico dall’alto valore patriottico, volle omaggiare lo spirito del popolo polacco rappresentando proprio un attacco di cavalleria ad alcuni corazzati nemici: gli ulani, trasposizione in chiave contemporanea del Davide che batte Golia, vengono rappresentati in tutto il loro drammatico eroismo, intenti a fronteggiare, con i pochi mezzi a disposizione, i panzer tedeschi.

 

Nella produzione artistica di Kossak, il cavaliere assume un’importanza fondamentale, soprattutto alla luce del suo ruolo nella storia militare polacca: in questo dipinto, ilnpittore polacco omaggia questa feconda tradizione, soprattutto con alcune concessioni di carattere storico, foggia dei panzer tedeschi in primis.

 

L’impari disparità di mezzi mutò, dunque, in significato, divenendo ben presto il paradigma rappresentativo dell’ardore bellico dei Polacchi, pilastro della nuova religione laica di un popolo pronto a sacrificarsi per il bene della Rzeczpospolita nonostante la superiorità dell’avversario.

Questa nuova forma mentis si può evincere facilmente dal film Lotna. Prodotto da Wajda, nella pellicola del cineasta polacco è presenta una scena che, nella sua immediatezza icastica, può riassumere ciò che è stato fin qui detto: compresa l’inevitabilità della sconfitta, un cavaliere polacco decide di spezzare la sua sciabola contro il cannone di un carro nemico – nell’occasione, rievocato da imponibili T-34/76 dell’esercito popolare polacco.

 

La cavalleria polacca e il suo impiego bellico

Il mito, d’altra parte, si fonda su di una verità storica inequivocabile: alla vigilia della II G.M, i reparti di cavalleria, raggruppate in ben undici brigate, rappresentavano il 10 % degli effettivi dell’esercito polacco. L’ampia diffusione di tali unità – presenti anche nei restanti eserciti, seppur in percentuali minori – era dovuta a due aspetti. In primis, quello economico: le forze armate polacche divennero oggetto di programmi di aggiornamento a partire dal ’36. Gli ambiziosi progetti dovevano anche dare nuovo impulso e ulteriore slancio alla nascente industria bellica nazionale, sorta sulla scia del “C.O.P” (Centralny Okrȩg Przemysłowy”, “Distretto industriale centrale”), edificato a metà degli anni ’30. Oltre alle congiunture economiche, giova ricordare il ruolo degli ułany presso l’immaginario polacco: i cavalleggeri, infatti, rappresentarono a lungo veri e propri reparti di élite. Gerarchia sociale sancita, tra le altre cose, anche da una ricca tradizione di canzoni popolari che li vedeva protagonisti di gesta eroiche.

 

Fanti polacchi durante alcune esercitazioni. Si noti il profilo basso del cannone “Bofors”, tale da renderlo un’arma controcarro temutissima dalla maggior parte dei mezzi corazzati della metà degli anni ’30 del Novecento

 

Le brigate di cavalleria non erano, tuttavia, prive di armi per la guerra contro i mezzi corazzati. Una brigata a pieno organico poteva contare, in linea teorica, su 18 cannoni controcarro “Bofors, wz.36”. Questi ottimi pezzi, prodotti dalla polacca “SMPzA” su licenza svedese, potevano tenere agilmente testa ai principali mezzi corazzati dell’epoca.

 

 

Raffigurazione tratta da un manuale militare rivolto alla cavalleria polacca. Nella foto si possono apprezzare le dimensioni ridotte del fucilone “Ur. 35”, tali da renderlo facilmente trasportabile anche montati a cavallo.

 

Ma il vero asso nella manica era costituito dal Maroszek wz. 35. Questo fucilone anticarro, di progettazione e produzione interamente polacca, univa alle dimensioni contenute (pesava poco più di 9 kg), una indiscutibile efficacia, che lo rendeva temibile per i principali mezzi corazzati dell’epoca. Ogni brigata di cavalleria polacca poteva contare, in linea teorica, su di una sessantina di pezzi di quest’ottima arma. La segretezza del progetto, tuttavia, fece sì che l’inizio della distribuzione massiccia dell’Ur. 35nome in codice dell’arma, dove “Ur” stava per Uruguay – iniziasse solo nell’agosto del ’39, a fronte di un addestramento, il più delle volte, nullo. Le componenti corazzate, seppur risibili di fronte alla controparte tedesca, non erano assenti: in alcuni casi, le brigate di cavalleria polacca potevano far affidamento su 13 Tks, versioni polacche delle britanniche Carden-Loyd Mk VI tankette (gli esemplari polacchi vennero, tuttavia, dotati di cannoncini “wz. 38FK” che, con il loro calibro di 20mm, venivano concepiti per fronteggiare i corazzati nemici).

Simbolo della “11ª divisione di cavalleria corazzata”

Le “vere” cariche di cavalleria

Nel 1960, dopo tre anni di ricerche su fonti archivistiche, il colonello dell’esercito polacco, Zbigniew Załuski, dimostrò l’infondatezza storica del mito nelle pagine di un articolo del mensile “Wojsko Ludowe” (esercito popolare, rivista stampata per gli ufficiali dell’esercito della Prl). Il lavoro, tuttavia, non taceva quella che è una verità inoppugnabile: la cavalleria polacca caricò per ben 16 volte durante il settembre del 1939, giacché tale manovra era ancora contemplata nei manuali di guerra dell’esercito di Varsavia. Le azioni, tuttavia, non avvennero mai contro mezzi blindati, bensì contro nuclei di fanteria tedesca o unità di artiglieria nemica.

A conclusione di questo articolo, c’è da aggiungere un’ulteriore osservazione. La cavalleria, nella storia militare polacca può vantare una profonda tradizione, lungi dal definirsi completamente esaurita: nei ranghi dell’esercito polacco, infatti, milita ancora una divisione di “cavalleria corazzata”, che, al suo interno, può annoverare battaglioni di dragoni e ułani. Solo che al posto del cavallo, ora ci sono Leopard 2 A5 e PT-91 Twardy.

CONSIGLI DI LETTURA:

 

Se vi interessa la storia della cavalleria polacca, lo stesso Giuseppe Catterin pubblicò, tempo addietro, un articolo sugli Ussari alati, che potete rileggere cliccando qui.