Il mondo dalla canna di un fucile. Il significato simbolico delle armi da fuoco in Italo Calvino

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Francesco Bastianon, Venezia –

Uno dei più bei romanzi sul periodo della Resistenza ha per protagonisti un bambino e una pistola. Italo Calvino, ne Il sentiero dei nidi di ragno (1947), ha imperniato su questi due attanti una storia romanzesca dal valore esistenziale: nel piccolo Pin si identifica l’uomo che cerca il suo posto nel mondo; nell’arma da fuoco è rappresentata, invece, la violenta tensione a entrare in contatto con le cose, con ciò che è altro da sé, e, impossessandosene – quindi distruggendole? – a comprenderle. La P-38 che Pin ruba al marinaio tedesco diviene, per il giovane eroe del romanzo d’esordio di Calvino, feticcio e accessorio importantissimo per la definizione della sua identità e della sua posizione:

 

Uno che ha una pistola vera può tutto, è come un uomo grande. Può far fare tutto quello che vuole alle donne e agli uomini minacciando d’ucciderli. Pin ora impugnerà la pistola e camminerà sempre con la pistola puntata: nessuno potrà togliergliela e tutti ne avranno paura.

 

Ma se, da un lato, il possesso di un’arma lo fa sentire adulto, Pin rimane pur sempre un bambino, con tutte le sue paure e i suoi timori:

 

Invece ha sempre la pistola avvolta nel gomitolo del cinturone, sotto il maglione e non si decide a toccarla, spera quasi che quando la cercherà non ci sia più, si sia smarrita nel calore del suo corpo.

 

 

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Eppure il piccolo non partecipa né del mondo dei suoi coetanei…

 

Pin alle volte vorrebbe mettersi coi ragazzi della sua età, chiedere che lo lascino giocare a testa e pila, e che gli spieghino la via per un sotterraneo che arriva fino in piazza Mercato. Ma i ragazzi lo lasciano a parte, e a un certo punto si mettono a picchiarlo; perché Pin ha due braccine smilze smilze ed è il più debole di tutti.

 

…né di quello degli adulti:

 

A Pin non resta che rifugiarsi nel mondo dei grandi, dei grandi che pure gli voltano la schiena, dei grandi che pure sono incomprensibili e distanti per lui come per gli altri ragazzi, ma che sono più facili da prendere in giro, con quella voglia delle donne e quella paura dei carabinieri, finché non si stancano e cominciano a scapaccionarlo. […] I grandi sono una razza ambigua e traditrice, non hanno quella serietà terribile nei giochi propria dei ragazzi, pure hanno anch’essi i loro giochi, sempre più seri, un gioco dentro l’altro che non si riesce mai a capire qual è il gioco vero.

 

Così, la storia dell’incontro tra Pin e la sua nuova pistola si sviluppa unicamente tra di loro, nel luogo appartato e solitario, noto solo al piccolo, dove trova rappresentazione il suo ritirarsi dagli schemi del mondo: il sentiero dove i ragni fanno il nido.

 

La pistola rimane a Pin e Pin non la darà a nessuno e non dirà a nessuno che l’ha. Solo farà capire che è dotato d’una forza terribile e tutti lo obbediranno. Chi ha una pistola vera dovrebbe fare dei giochi meravigliosi, dei giochi che nessun ragazzo ha fatto mai, ma Pin è un ragazzo che non sa giocare, che non sa prender parte ai giochi né dei grandi né dei ragazzi. Pure adesso Pin andrà lontano da tutti e giocherà tutto solo con la sua pistola, farà giochi che nessun altro conosce e nessun altro potrà mai sapere.

 

I giochi con l’arma, oltre a conferirgli una nuova e mai provata aura di potere, trasformano il suo rapporto con le cose, come se tutto ciò su cui Pin punta la canna proliferasse di senso:

 

Pin la punta prima contro il tubo della grondaia, a bruciapelo sulla lamiera, poi contro un dito, un suo dito, e fa la faccia feroce tirando indietro la testa e dicendo tra i denti: «la borsa o la vita», poi trova una scarpa vecchia e la punta contro la scarpa vecchia, contro il calcagno, poi nell’interno, poi passa la bocca dell’arma sulle cuciture della tomaia. È una cosa molto divertente: una scarpa, un oggetto cosi conosciuto, specie per lui, garzone ciabattino, e una pistola, un oggetto cosi misterioso, quasi irreale; a farli incontrare uno con l’altro si possono fare cose mai pensate, si possono far loro recitare storie meravigliose.

 

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Un personaggio calviniano che, come Pin, non trova il suo posto nel mondo (se non in cima agli alberi) è Cosimo di Rondò, protagonista de Il barone rampante, uscito dieci anni dopo Il sentiero dei nidi di ragno: qui Calvino, pagina dopo pagina, costruisce la vita arborea del nobile ligure, trascorsa quasi tutta, sin dall’infanzia, tra le chiome delle piante. La sua è una storia di adattamento al e del luogo che ci si è scelti, una vicenda fatta di graduali conquiste e di continui superamenti di ostacoli e difficoltà.

Ma il superamento a cui punta Cosimo, esplorando il bosco tra un ramo e l’altro, è quello del muro di incomprensibilità che separa da tutto ciò che è altro rispetto a sé. Non per nulla Calvino associa questo desiderio quasi affannoso di contatto con le cose al fucile che Cosimo userà per cacciare e combattere:

 

Quel bisogno d’entrare in un elemento difficilmente possedibile che aveva spinto mio fratello a far sue le vie degli alberi, ora gli lavorava ancora dentro, malsoddisfatto, e gli comunicava la smania d’una penetrazione più minuta, d’un rapporto che lo legasse a ogni foglia e scaglia e piuma e frullo. Era quell’amore che ha l’uomo cacciatore per ciò che è vivo e non sa esprimerlo altro che puntandoci il fucile; Cosimo ancora non lo sapeva riconoscere e cercava di sfogarlo accanendosi nella sua esplorazione.

 

 

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Documento d’identità di Calvino partigiano

 

Si tratti di un fucile o di una pistola, dunque, l’arma da fuoco possiede un potere arcano e simbolico di eliminare le distanze fisiche e metafisiche tra il soggetto e l’oggetto. Il luogo in cui Calvino dispiega nella maniera più evidente questo tema è il racconto eponimo di Ultimo viene il corvo, una raccolta magmatica e affascinante di testi pubblicati su rivista tra il 1945 e il 1949 in cui convivono il Calvino della Resistenza, quello della Riviera di Ponente e il narratore di avventure picaresche ambientate nel Dopoguerra Italiano. Il protagonista di Ultimo viene il corvo è un ragazzino innominato e quasi afasico, il cui unico motivo di interesse, agli occhi del gruppo partigiano al quale, improvvisamente, si presenta, è la sua mira eccezionale con il fucile. Le sue mani trovano in quello strumento di distruzione e morte un oggetto magico attraverso cui entrare in contatto con il mondo circostante:

 

Le pigne in cima agli alberi dell’altra riva perché si vedevano e non si potevano toccare? Perché quella distanza vuota tra lui e le cose? Perché le pigne che erano una cosa con lui, nei suoi occhi, erano invece là, distanti? Però se puntava il fucile la distanza vuota si capiva che era un trucco; lui toccava il grilletto e nello stesso momento la pigna cascava, troncata al picciòlo. Era un senso di vuoto come una carezza: quel vuoto della canna del fucile che continuava attraverso l’aria e si riempiva con lo sparo, fin laggiù alla pigna, allo scoiattolo, alla pietra bianca, al fiore di papavero.

 

Con un’arma in mano, egli trova finalmente il suo posto nel mondo: ma si tratta di quello brutale e violento della guerra partigiana, dove, come per gioco, il giovane compie una strage di soldati tedeschi, quasi un danno collaterale, una conseguenza del suo divertirsi a sparare ai bottoni, ai galloni, alle mostrine delle divise.

 

Il ragazzo muoveva ancora la bocca del fucile in aria. Era strano, a pensarci, essere circondati così d’aria, separati da metri d’aria dalle altre cose. Se puntava il fucile invece, l’aria era una linea diritta ed invisibile, tesa dalla bocca del fucile alla cosa, al falchetto che si muoveva nel cielo con le ali che sembravano ferme. A schiacciare il grilletto l’aria restava come prima trasparente e vuota, ma lassù all’altro capo della linea il falchetto chiudeva le ali e cadeva come una pietra. Dall’otturatore aperto usciva un buon odore di polvere.

 

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