Barbarossa: un corsaro “diplomatico” nel mare Adriatico

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Michele Santoro – Bologna

L’epopea dei Barbarossa inizia dalla storia della sua famiglia. Ishak era il maggiore di tre fratelli: Oruç, Ilyas e Khizr. Suo padre, dopo aver partecipato all’assedio dell’isola di Lesbo, vi si stabilì sposando una vedova locale e si dedicò per tutta la sua vita all’artigianato. Tutti e quattro i fratelli intrapresero la carriera di marinai e di mercanti.

Oruç era un uomo di mare molto dotato; aveva imparato l’italiano, lo spagnolo, il francese e l’arabo già nei primi anni della sua carriera. Insieme a Ilyas commerciava soprattutto sulle coste del Nord-Africa, ma un giorno, di ritorno da Tripoli, la sua nave venne assalita dalla pirateria cristiana di Rodi. Ilyas, il più giovane dei fratelli, perse la vita nel tentativo di difendere la nave di suo padre, mentre Oruç fu rapito e imprigionato nel castello di Bodrum per quasi tre anni.

Giunta la tragica notizia, il giovane Khizr, che in questi anni aveva preferito l’arte della ceramica a quella della navigazione, dovette armarsi di coraggio e tentare un’impresa quasi impossibile per salvare suo fratello. Con una manciata di uomini, poche armi e ancor meno esperienza, Khizr salpò alle volte di Bodrum riuscendo contro ogni aspettativa a far evadere Oruç. Fu in questo momento probabilmente, che i due fratelli mossero i primi passi verso un destino che li avrebbe resi i pirati più celebri e ricchi del Mediterraneo.

Nel 1504 i tre fratelli salparono verso il porto di La Goletta, attuale Tunisia, dove erano riusciti ad ottenere una base per le loro operazioni dalle autorità ottomane.

Il loro arrivo non poteva essere pianificato in un momento più opportuno. Nel 1492 la corona spagnola aveva infatti completato la reconquista della penisola iberica e nei decenni successivi aveva spostato la sua attenzione ancora più a sud, guadagnando porzioni di territorio in Marocco, Algeria e Tunisia.

Oruç partecipò attivamente all’evacuazione dei musulmani spagnoli, i moriscos, che per gratitudine cominciarono a chiamare il pirata con l’appellativo di baba: padre. Baba Oruç divenne Barberousse e in Italia, Khizr, Oruç e Ishak divennero noti come i fratelli Barbarossa.

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Nel giro di un decennio i tre fratelli riuscirono a guadagnare un’influenza tale da riuscire a far riunire sotto il proprio vessillo un gran numero di città. Oruç fece carriera riuscendo a farsi nominare nuovo sultano di Algeri, ma insieme alla sua influenza crebbero anche le ostilità con la corona spagnola.

Allearsi con l’Impero Ottomano, unico serio rivale della corona sui mari del Mediterraneo occidentale, era per i fratelli Barbarossa la miglior difesa contro la Spagna. Oruç rinunciò dunque al suo titolo a favore di Selim I, che nel 1517 accettò di trasformare la stessa Algeri in un territorio tributario, nominando l’ex sultano sanjak-bey e beylerbey ossia “signore dei signori” del Mediterraneo occidentale, la più alta carica amministrativa dell’Impero Ottomano.

Il nuovo beylerbeyi sperimentò sin da subito l’aggressività delle armate di Carlo V e poco dopo, nel 1518, a seguito di un combattimento durato ben venti giorni, perse tragicamente la vita insieme a suo fratello Ishak.

Khizr, che ereditò il comando, era ormai rimasto l’ultimo sopravvissuto dei fratelli Barbarossa ed era deciso, ora più che mai, a vendicarsi contro gli Stati cristiani. Nel 1522 ebbe finalmente l’occasione partecipando alla conquista ottomana di Rodi, avamposto della pirateria di S. Giovanni che anni prima aveva ucciso suo fratello.

conquista rodi barbarossa

Pochi anni più tardi le sue scorrerie divennero note in tutto l’ambiente cristiano. Sardegna, Calabria, Puglia, Marsiglia e Liguria divennero le vittime preferite della sua flotta. Da queste zone molti uomini furono presi come schiavi; dallo stretto di Gibilterra sino a quello di Messina nessun abitante delle città costiere poteva permettersi sonni tranquilli.

Il sultano nominò il corsaro Khizr ammiraglio della flotta ottomana (kapudan paşa) e lo soprannominò Hayreddin, ossia “bontà del fato”. L’ultimo dei Barbarossa, al soldo di Solimano il Magnifico, divenne così uno degli uomini più ricchi del Mediterraneo e i suoi interessi cominciarono a spostarsi verso città dove la ricchezza abbondava copiosamente, ossia i porti veneziani.

Fortunatamente per la Serenissima, i suoi agenti riuscirono a conoscere in anticipo i movimenti di Barbarossa così le autorità si mobilitarono in fretta per mettere al sicuro il golfo di Cattaro verso il quale le navi ottomane stavano facendo rotta.

Quando giunse la notizia che la flotta corsara si accingeva a navigare il golfo di Cattaro, nella città di Perast venne disposto un presidio di trecento uomini armati ossia quasi la totalità della popolazione maschile cittadina. Salutati per l’ultima volta i figli e le proprie mogli ed eseguite le necessarie raccomandazioni ai santi per la propria anima, gli uomini di Perast si posizionarono ai posti di combattimento, convinti che di lì a poco sarebbero morti per la cristianità e per la patria.

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L’alba spuntò funesta e il sole salì insieme alla mezzaluna delle bandiere issate sugli alberi delle navi del corsaro. Il vento rigonfiava minaccioso le sue vele e raffreddava il sudore che solcava lungo le schiene dei perastini come una freddissimo coltello. Non era la prima volta che si trovavano ad affrontare i famigerati corsari barbareschi ma di sicuro gli occhi di quei perastini non avevano mai visto una flotta così imponente.

Il capitano del presidio diede l’ordine perentorio di non attaccare per primi: un colpo di bordata assestato a dovere avrebbe infatti potuto demolire l’intera città, ma se gli uomini avessero mantenuto la posizione avrebbero potuto avere qualche possibilità di resistere e di riuscire ad ingaggiare un assedio formale.

Sorprendentemente però, le navi ammiraglie della flotta ottomana sfilarono come in una minacciosa parata militare davanti alla città, mettendo in mostra non solo i loro poderosi armamenti ma anche il completo disinteresse per quel piccolo borgo situato tra l’entrata del golfo e la loro prossima meta: Cattaro, una delle città veneziane più ricche nei Balcani del Cinquecento.

Gli uomini erano però preparati allo scontro e lo scherzo della flotta ottomana irritò parecchio il capitano Visković, uomo orgoglioso come i suoi concittadini, che decise di spostare il presidio militare verso i loro vicini per combattere nell’imminente battaglia.

cattaro barbarossa

La città di Cattaro era pronta a resistere ad un assedio della durata di mesi e la sua artiglieria avrebbe sicuramente potuto dare del filo da torcere alle navi ottomane. Le scorte alimentari erano state fatte arrivare in gran quantità attraverso i pastori del Montenegro, ai quali, una volta giunti in città, fu chiesto di combattere al fianco dei soldati veneziani, naturalmente dietro compenso.

Tuttavia il quarantenne provveditore della città Matteo Bembo sapeva che uno scontro con questa flotta poteva terminare solamente in una disfatta che sarebbe costata molto cara a Venezia e soprattutto ai cittadini del golfo, decise quindi di provare un approccio più diplomatico.

L’idea aveva perfettamente senso, Barbarossa non era un corsaro qualunque: prima di tutto rappresentava un alto dignitario ottomano e come tale andava considerato prudentemente e con tutte le formalità che la sua carica reclamava.

Il Bembo decise allora di inviare una serie di lettere dal tono fermo ma educato, che ricordavano al corsaro la tregua stipulata anni prima tra le due potenze mediterranee. Il sultano in quell’occasione aveva addirittura giurato sul corano che tra Venezia e l’Impero le acque si sarebbero calmate per un po’. Nella corrispondenza il provveditore di Cattaro non mancò di evidenziare che non credeva possibile che un alto dignitario potesse arrogarsi il diritto di infrangere i giuramenti del gran signore Solimano.

Inizialmente il Barbarossa fu molto irritato dall’approccio del provveditore che, a parer suo, arrogantemente riteneva di sfuggire a un bagno di sangue con due dita di inchiostro. Ma la maestria diplomatica del rettore si rivelò infine vincente e si giunse a un accordo: le navi corsare avrebbero abbandonato il golfo a patto che il kapudan paşa guadagnasse dei possedimenti nei pressi del vicino porto di Risan.

I due alti dignitari cenarono insieme, si scambiarono doni e si salutarono da amici, con la promessa però che, se i patti non fossero stati rispettati, Barbarossa sarebbe ritornato e quella volta gli unici scambi si sarebbero fatti con la polvere da sparo.

La notizia dell’accaduto giunse in poco tempo a Venezia: il successo diplomatico di Matteo Bembo fu annoverato tra le glorie cittadine e venne ricordato in un celebre libro di Girolamo Ruscelli, giunto fino ai giorni nostri dopo cinquecento anni a testimonianza della vittoria di una penna audace contro centinaia di cannoni.

 

Consigli di lettura:

M. Achille, La pirateria nel Mediterraneo: note storiche e documenti dal XVI al XIX secolo, Napoli, Giannini, 2008

E. Bradford, L’ammiraglio del sultano, vita e imprese del corsaro Barbarossa, Milano, Mursia, 1972

G. Bonaffini (a cura di), La vita e la storia di Ariadeno Barbarossa, Palermo, Sellerio, 1993

S. Bono, Guerre corsare nel Mediterraneo. Una storia di incursioni, arrembaggi, razzie, Il Mulino, Bologna, 2019

G. Ruscelli, Lettere di Principi le quali o’ si scrivono da Principi o’ a’ Principi o’ ragionan di Principi, Venezia, Giordano Ziletti, 1562